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giovedì 2 luglio 2009

PEPPINO IMPASTATO E MAURO ROSTAGNO

Sono trascorsi trentun anni dall’omicidio di Peppino Impastato. Alla mafia quella figura di «rivoluzionario», che con l’ironia e lo sfottò ha affrontato i clan di Cinisi, ancora oggi non va giù. A distanza di tanto tempo i figli dei mafiosi vicini al boss Tano Badalamenti tentano di demolirne la figura di antimafioso, provando a riproporre la tesi che Peppino era «un terrorista» morto mentre piazzava una bomba sulla ferrovia vicino al suo paese.

Questa tesi la si ascolta nelle intercettazioni fatte dai carabinieri del Ros nell’inchiesta «centopassi» che il 22 maggio scorso ha portato all’arresto fra la Sicilia e la Toscana, passando anche per il Sud America, di una decina di presunti mafiosi, fra cui il figlio di don Tano, Leonardo Badalamenti, bloccato a San Paolo in Brasile e poi scarcerato. L’inchiesta è della procura di Palermo e il vecchio Badalamenti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio Impastato. Ad essere intercettato è uno degli arrestati, Gaspare Ofria, imprenditore originario di Cinisi e trapiantato in Toscana, che tenta di screditare Impastato. Ofria è il nipote del vecchio Badalamenti. Al telefono con un’amica nel gennaio 2007 parla di Peppino come di «un fenomeno», un «Che Guevara siciliano... che la politica si è inventato per strumentalizzare un argomento, e prendere forza per rovesciarla contro altre persone». La donna però difende la figura di Impastato, e lui l’attacca. Dice: «Allora tu sei completamente con l’anticristo!».

L’imprenditore è figlio di Gaspare Ofria, al quale vennero sequestrati i beni perché ritenuto un affiliato alle cosche «perdenti» e si trasferì nel 1981 in Toscana con la famiglia. Erano gli anni dell’invasione dei corleonesi, della guerra di mafia, e i superstiti di queste «famiglie» si inabissarono, rimanendo fedeli alle storiche regole dell’omertà. Gaspare Ofria, parlando con Leonardo Badalamenti, elogia le gesta di «don Tano», attribuendogli il merito di aver saputo «superare intelligentemente» il momento peggiore, stando «con la bocca chiusa», facendo intendere che nella loro famiglia pentiti non ve ne sono stati rispetto ai corleonesi.

Dopo trent’anni i figli dei clan «perdenti» tornano alle vecchie regole mafiose e sostengono i vecchi boss e le loro idee, dando contro alle vittime della mafia come Peppino Impastato. La stessa cosa è successa per Mauro Rostagno, il sociologo giornalista assassinato a Trapani. La mafia trapanese, abituata a mantenere un ferreo controllo del territorio e degli uomini, mal sopportava Rostagno che, da una tv privata e con quel suo modo irridente di sfidare Cosa nostra, ricordava molto Impastato. Rostagno come Impastato costituiva una «spina nel fianco» dei clan mafiosi. Di entrambi i casi si è occupata la Dia di Palermo. E un parallelismo fra le due vicende è d’obbligo: come Peppino Impastato, nell’isolamento di un paese interamente controllato da un potente boss mafioso come Gaetano Badalamenti, costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il boss della zona, rappresentando ogni sua trasmissione, ogni sua parola una sfida allo strapotere mafioso: andava eliminato con la violenza, ma anche con la calunnia per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell’antimafia (perciò la messinscena di un Impastato eversore, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico).

Anche Rostagno costituiva un affronto per il potere mafioso. Secondo il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che ha condotto l’inchiesta sugli assassini del sociologo, vi è più d’una analogia fra gli omicidi Rostagno e Impastato. Analoghe appaiono alcune componenti del movente: simile la reazione della famiglia di Cinisi ed in particolare di Badalamenti, «offeso» dal modo di fare antimafia di Peppino, e quella dei capi delle famiglie mafiose di Trapani, «offesi» dal modo di fare giornalismo antimafia di Rostagno. Il che dimostra come possa essere plausibile che anche solo la quotidiana attività di questi due giornalisti poteva dare tanto fastidio a Cosa nostra da giustificarne l’eliminazione. E’ lunga, purtroppo, la sequenza dei giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia, da Cosimo Cristina a Mauro De Mauro, da Giovanni Spampinato a Beppe Alfano, da Mario Francese a Giuseppe Fava, tutti «giornalisti scomodi», uccisi perché scomodi.

di LIRIO ABBATE

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