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giovedì 23 luglio 2009

Via Rasella, colpo al revisionismo

Dunque, una sentenza – quella che dà ragione alla figlia di Bentivegna, nella sua causa al quotidiano Il Tempo che aveva definito “massacratori” gli autori dell’attentato di via Rasella – che aiuta a edificare una ormai ineludibile barriera contro le mistificazioni del revisionismo “rovescista”. Certo, la difesa contro i Pansa, i Vespa e la loro compagnia di giro dovrebbe innanzi tutto venire dalla storiografia, ma ben venga tutto quanto può servire a frenare la libido di costoro che si appaga nell’attività volta a ribaltare la realtà dei fatti, e gettare ignominia sul movimento partigiano. In relazione al principe dei rovistatori della Resistenza –coloro che scavano nel fondo del barile sperando di trovare nefandezze per mostrare, come asseriscono, “l’altra faccia della medaglia”, e quando non le trovano si affidano all’inventiva – ossia il noto Pansa, Giorgio Bocca aveva invocato il divieto di scrivere, o addirittura il carcere. Io sono per la libertà. Ma sono anche per non far passare sotto silenzio scempiaggini e falsità da costoro propinate a un vasto pubblico. Occorre ribattere colpo su colpo: anzi, è tempo di passare al contrattacco.
Costoro, con libracci da 700 mila copie (?), grazie all’occupazione della radio e della televisione e addirittura la trasposizione televisiva o cinematografica dei loro prodotti, hanno creato un senso comune che si può riassumere nei seguenti punti: a) la Resistenza è stato un fattore politicamente e militarmente irrilevante, ininfluente nella caduta del fascismo e nella sua sconfitta; b) i partigiani erano un’infima minoranza della popolazione, e il loro ruolo fu pari a quello dei saloini, gli uni e gli altri, se si vuole, in buona fede, dominati da un credo fanatico, rispetto al quale gli italiani si chiamarono fuori; e ci furono eroi e canaglie tra gli uni e gli altri, equamente ripartiti; anzi, a ben vedere, le canaglie furono più numerose tra i partigiani o sedicenti tali; c) nella Resistenza il Partito comunista esercitò non solo un’egemonia politica, ma un ferreo dominio militare, eliminando senza pietà chi non era allineato, salvo nel dopoguerra “appropriarsi” del suo significato per autolegittimarsi come forza politica democratica; d) questa “verità” storica è stata per decenni “negata” dall’occhiuta egemonia gramscian-togliattiana, e ancora oggi sono numerosi gli storici “di parte” che per viltà o per fedeltà alla linea (?), continuano a ripeterla, mentre finalmente sono arrivati sulla scena gli Zorro vendicatori, che ci raccontano la storia “negata”, “nascosta”, “sequestrata”.
Questo insieme di argomenti, reiterati e sparsi su ogni centimetro dell’etere internautico, oltre che sui media, sta permeando la mentalità degli italiani, sta diventando, appunto, senso comune. E contro questa operazione, che ha superato da tempo i limiti della decenza (come per esempio col cambiamento proposto da Berlusconi di derubricare il 25 Aprile da festa della Liberazione, a festa della Libiertà o col disegno di legge, ora accantonato, di equiparazione tra partigiani e repubblichini), si deve reagire. Storiograficamente, in primis, e culturalmente, in generale; ma anche giudiziariamente, e politicamente. Una volta si ripeteva: “Vigilanza democratica” e “Mobilitazione antifascista”. E se rispolverassimo queste parole d’ordine, dando loro un senso nuovo, che la cupezza dei tempi rende urgente?

da Il Manifesto

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