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lunedì 3 agosto 2009

La democrazia, che si afferma in America latina e tramonta in Occidente

Scritto da Gianni Minà

Adesso voglio vedere se fra i coriferi del capitalismo a qualunque costo -umano, sociale, etico- ci sarà qualcuno che avrà l’onestà di dire che questa idea di società è miseramente fallita così com’era successo nell’89 al comunismo, e che quello che sta succedendo negli Stati uniti a banche e assicurazioni,che stanno trascinando nel baratro pensioni e risparmi di milioni di cittadini, è per l’Occidente, uno sconquasso della stessa drammatica intensità della caduta del muro di Berlino per il mondo che si ispirava ai principi del marxismo.
Perché questa fragilità, questa corrotta ambiguità dell’economia di mercato era palese da tempo, eppure molti degli ultras del liberismo si ostinavano a sottolineare la “fine delle ideologie”. Ma se scavavi tra le pieghe del discorso, scoprivi che in realtà l’unica ideologia che questi ultrà reputavano morta e da seppellire era quella comunista. E anche quando erano costretti ad ammettere che in nome del libero mercato erano stati compiuti crudeli genocidi [come in Africa o in America latina] con aria falsamente ingenua erano pronti a chiederti: “Ma cosa mi offri in cambio? Non esiste un’alternativa”.

E quindi si poteva mentire al mondo per fare le guerre, vendere armamenti, saccheggiare risorse, o si poteva condannare alla fame e alla miseria interi continenti, magari per difendere solo i privilegi e le sovvenzioni ai contadini di Stati uniti, Francia o Italia, o ancora si poteva continuare a rapinare le ricchezze dell’umanità meno attrezzata, meno pronta ad affrontare le sfide capziose del mercato.

Perché annientare l’80% dell’umanità per le logiche dell’economia capitalista era ed è evidentemente più accettabile, più democratico, meno scandaloso che morire in un gulag o non avere abbigliamento firmato o McDonald’s. Così come non è inquietante se a controllare l’informazione, a ideologizzare e indirizzare la tua vita non sono ottusi burocrati di partito, ma la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochissimi, che hanno il controllo di apparecchiature degne del Grande fratello di Orwell.
Ci avevano detto, e quasi stavamo per crederci, che il capitalismo era l’unica salvezza dell’umanità, un sistema che aveva una soluzione per tutto, perché comandava l’infallibile mercato e la ricetta si era rivelata indiscutibile: quando l’economia non funzionava, bastava privatizzare e tutto si sarebbe risolto.
Così quando il governo di Washington dell’ineffabile Bush e del suo vice, l’affarista Cheney, ha deciso, fregandosene dell’ideologia liberista fino a ieri Vangelo, di salvare, nazionalizzandoli, i due colossi dei mutui Fannie Mae e Freddy Mac [l’8 settembre] e pochi giorni dopo [il 17 settembre], con un intervento della Banca centrale ha tolto dal gorgo dal fallimento l’AIG [American International Group], il gigante delle assicurazioni, è stato chiaro che tutta la retorica del “più mercato - meno stato” era una burla, un’escamotage dei mercati finanziari per privatizzare, quando c’erano, i guadagni e socializzare le perdite.
Una presa per i fondelli colossale, senza il minimo pudore, se uno come Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia di un governo come quello di Silvio Berlusconi, che le regole non le ha mai rispettate, si è subito adeguato come un burocrate sovietico: “Dalla crisi si esce con più intervento pubblico. Se il male è stato l’assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole”. Neanche un ministro democristiano dell’epoca della Cassa del Mezzogiorno avrebbe potuto cambiare abito così in fretta.
Ma lo stesso atteggiamento hanno tenuto i più prestigiosi giornali europei: la Repubblica, quotidiano italiano un tempo di sinistra, titolava il 20 settembre in prima pagina, con assoluta disinvoltura: “Terapia Bush, Borse in festa”. Di fatto presentando in positivo quello che fino a ieri, nel capitalismo, era considerata un’eresia: l’intervento in extremis dello stato nel mercato, ovvero l’ultima, disperata mossa politica di quello che molti cittadini nordamericani giudicano da tempo come il peggior presidente che il paese abbia avuto nell’ultimo secolo. La decisione del governo Bush scarica sui contribuenti americani, come fa rilevare sempre su la Repubblica, Federico Rampini, un onere oggi incalcolabile e potenzialmente illimitato, pur di frenare la catena di crac delle maggiori istituzioni finanziarie e le conseguenti pericolose ondate di panico.
Ma questa analisi onesta e realistica non ha suggerito un titolo meno trionfalistico per il piano da mille miliardi di dollari [in proporzione più del piano Marshall varato nel 1947 dal presidente Truman per aiutare l’Europa a rialzarsi] messo in marcia dal ministro del Tesoro Usa. D’altronde, il mondo della finanza neoliberista ha sempre preferito illudere, nascondere e mascherare, sperando follemente che nulla alla fine cambiasse.
Pochi anni fa, la benemerita Fondazione Ambrosetti che organizza le giornate di Cernobbio, sul lago di Como, dove si incontra ogni anno la creme de la creme dell’economia liberale [o presunta tale], mi contattò perché sentiva l’esigenza di far ascoltare, per una volta, una voce dissonante a una compagnia di giro dove i primi attori erano quasi sempre Shimon Peres, Henry Kissinger o perfino l’ex premier spagnolo Aznar, nemico giurato di tutte le ricette sociali antiliberiste.
Avrebbero voluto invitare il presidente cubano Fidel Castro: “Non condividiamo la sua linea intransigente -mi dissero- ma forse è arrivato il momento di confrontarsi con le ragioni di chi, prima di papa Wojtyla, affermò, fin dalla metà degli anni 80, che il debito estero di molte nazioni del Sud del mondo era immorale e impagabile”. Una scelta fuori dal pregiudizio. Li misi in contatto con l’ambasciatore cubano in Italia, anche se ero scettico sulla possibilità che quell’idea sarebbe stata accettata dagli abituali frequentatori del meeting di Cernobbio.
Il presidente cubano non aveva spazio nella sua agenda per aderire a quell’invito e allora io consigliai ai dirigenti della Fondazione Ambrosetti di chiedere aiuto a Eduardo Galeano, coscienza critica dell’America latina e di quello che chiamano il Terzo mondo, che proprio in quei giorni usciva anche in Italia con un libro emblematico, “A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia”. Eduardo accettò l’invito e inviò in anticipo il testo del suo intervento, basato su alcune delle brevi e paradossali composizioni, spesso intrise di ironia, che si susseguono nei suoi saggi e sono tipiche del suo modo di raccontare la storia e il mondo. Concedette anche un’anteprima al giornale la Stampa di Torino, che uscì la mattina in cui Galeano avrebbe dovuto intervenire.
Avrebbe. Perché, con un certo imbarazzo quelli della Fondazione avvisarono la sera prima lo scrittore de “Le vene aperte dell’America latina” e ora di “Specchi, una storia quasi universale” che, per l’obbligatorio inserimento nel programma di un ospite politico fino a quel momento in forse, non ci sarebbe stato più spazio per il suo intervento.
Galeano la prese con un sorriso disincantato: “Quelli dell’economia neoliberale considerano le loro convinzioni un dogma che non può essere discusso. Per questo li hanno definiti ‘i paladini del pensiero unico’. Ma non si illudano, sarà la storia a smentirli”.
Così a quanto pare è stato, anche se finora è mancato il coraggio di dire, chiaro e tondo, che nel mese di settembre del 2008 è crollato anche il muro del capitalismo.
D’altronde non poteva che finire così. Il neoliberismo si regge in piedi continuando ad ammucchiare bugie, con i giornalisti, incapaci, la maggior parte delle volte, di tenere la schiena dritta, e invece tesi pateticamente a sostenere argomenti che non stanno in piedi e a scrivere parole in libertà per giustificare l’ingiustificabile.
È sufficiente dare uno sguardo alla Direttiva del Rientro, approvata lo scorso 18 giugno dal Parlamento Europeo, per capire quanto sia in decomposizione la democrazia in un’Europa pavida e impaurita, mentre in altri continenti, come l’America latina, fino a ieri carente di diritti per tutti, spira un’aria nuova, dove il riscatto di nazioni indigene come Bolivia ed Ecuador, comincia proprio da una riscrittura rigorosa e seria di una Costituzione che rispetti tutti. Non solo, come avveniva fino a pochi anni fa, le oligarchie bianche e predatrici.
Proprio Galeano, nella cerimonia in cui, in Paraguay, il giorno dell’assunzione del’incarico di presidente da parte di Fernando Lugo, è stato dichiarato Cittadino Illustre del Mercosur, non ha evitato il sarcasmo riguardo all’ipocrisia delle nazioni del Vecchio continente: “L’Europa ha approvato da poco la legge che trasforma gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi,” ha aggiunto. “L’Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte la porta sul naso degli invasi una volta che questi ricambiano la visita”.
Per capire quanto è grande questa crisi di credibilità dell’Occidente, è sufficiente considerare come, negli ultimi tempi, dai media di casa nostra è stato raccontato il braccio di ferro che il giovane presidente dell Bolivia, Evo Morales, ha intrapreso contro i prefetti secessionisti delle ricche province orientali del suo paese, per ora bloccati, senza mortificare la democrazia, nelle loro strategie eversive sostenute, oltre che dalla Cia e dalla peggiore diplomazia nordamericana, dagli eredi dei vecchi ustascià croati, riparati, dopo la seconda guerra mondiale, nella Bolivia delle dittature militari e delle centinaia di colpi di stato.
Con questi figuri ci sarebbero perfino vecchi attrezzi del neofascismo golpista italiano come Marco Marino Diodato, che nella notte tra l’ 11 e il 12 settembre, avrebbe organizzato gli squadroni della morte legati ai gruppi civici che si battono, con la scusa dell’autonomia regionale, contro l’idea di nazione e di democrazia di Evo Morales. Nel massacro di El Porvenir [nella provincia di Pando] sono stati uccisi quindici contadini che si recavano ad una manifestazione di appoggio al presidente.
Con chi dovrebbe stare la stampa democratica dell’Occidente? Sarebbe facile rispondere con il giovane presidente boliviano. E invece, per non dispiacere alle spericolate politiche dell’amministrazione Bush in America latina come in altre parti del mondo, i media non sanno nascondere una certa condiscendenza per la secessione, per il tentativo di destabilizzazione che l’ex ambasciatore Usa Goldberg, ora rispedito a Washington, ha perseguito, finora senza risultati concreti, in questi mesi intensi e sofferti del paese in cui si immolò Che Guevara. E così hanno parlato di “paese diviso in due”, di “pareggio”, di “stallo”, pubblicando cartine geografiche sul consenso politico del presidente nel paese, chiaramente fuori dalla realtà, come dimostra l’annuncio di avvio di un dialogo da parte dei prefetti secessionisti ribelli,
La linea da tenere sull’argomento, come su tutta la febbre di riscatto che cresce in America latina, sempre più lontana dall’essere il “cortile di casa” degli Stati uniti, la dà El País, il potentissimo quotidiano spagnolo che ha ramificazioni e interessi in tutto il Cono sud. E lo fa quasi sempre con le parole astiose di Mario Vargas Llosa, uno scrittore straordinario che però, come tanti, non si dà ancora pace di essere stato in gioventù un militante comunista, e quindi non apprezza il vento di cambiamento che soffia nel continente.
Dario Fertilio, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, e Angelo Panebianco che gli ha dedicato la sua rubrica sul magazine dello stesso giornale, si dolgono così del fatto che, al contrario di quanto succede con gli scritti politici di García Marquez, di Luis Sepúlveda e di Eduardo Galeano, quelli di Vargas Llosa non vengano fatti conoscere in Italia. La colpa viene data ovviamente alla nostra editoria che, secondo Panebianco “continua a essere convinta che ‘cultura’ sia sinonimo di ‘sinistra’”. Perché, non è così professore? E, mi perdoni, l’editoria italiana, a cominciare dal colosso Mondadori, a chi è in mano? Forse, nella logica neoliberista ora improvvisamente in crisi, il Vargas Llosa saggista non è pubblicato solo perché non è ritenuto interessante per il mercato. So che è sconveniente, ma forse è proprio questa la ragione di questa dimenticanza, anche se lei parla di “offerta politicamente monocorde che influenza e plasma la domanda”. Tanto per la verità, professore, e per non prendere per i fondelli i lettori...

LA LIBERAZIONE E LA RINUNCIA ALLA POLITICA DELLA BETANCOURT
Il segno del cambiamento del clima democratico, del rinascimento del continente latinoamericano, d’altronde, non viene solo dalle nazioni come Venezuela o Bolivia, più discusse fra i media occidentali per il modo intransigente di negarsi all’antica sudditanza alla politica degli Stati uniti.
In Ecuador, per esempio, il presidente Correa, oltre a investire anche lui su una nuova scrittura della costituzione, molto innovativa per quanto riguarda la tutela di tutti e l’introduzione del tema dei diritti dell’ambiente, ha messo in marcia un orgoglioso Plan de ritorno, un progetto per un rientro in patria dei cittadini costretti a emigrare negli ultimi decenni [quasi il 20% della popolazione]. Il piano ha l’obiettivo di creare tutte le condizioni possibili affinché il rientro dei propri connazionali avvenga in maniera volontaria, degna e sostenibile
È interessante rilevare che la proposta arrivi proprio dall’Ecuador un paese che conosce molto bene la tematica migratoria: intesa sia come emigrazione che come immigrazione. Nel Paese andino la questione è particolarmente sentita non solo perché circa 2.500.000 di ecuadoriani sono andati all’estero [30mila solo a Genova, in Italia], ma anche perché a causa del vicino conflitto interno colombiano ogni anno migliaia di di cittadini di quel paese passano il confine, facendo dell’Ecuador la nazione con il più alta percentuale di popolazione colombiana nel Sud america.
Questi ultimi dati sulla deriva della Colombia sottolineano ancor di più la scorrettezza costante che caratterizza i nostri media quando sono costretti a parlare di una storia scandita dal modo disinvolto degli Stati uniti di far prevalere i propri interessi. Dopo tante paure e tentativi falliti, le FARC hanno liberato Ingrid Betancourt. L’ex presidente della repubblica italiana Francesco Cossiga, da sempre molto vicino ai governi di Washington, con il suo solito fare un po’ svagato e un po’ enigmatico, ha smentito la versione ufficiale [l’apparato militare del presidente Uribe, con un’accorta trama, ha letteralmente sfilato di mano gli ostaggi alla guerriglia] e ha commentato chiaro e tondo che quella è stata un’operazione completamente ideata, gestita e realizzata dalla CIA. Non a caso, infatti, per buon peso, grazie a questa operazione, hanno riacquistato la libertà, tra gli altri, anche tre “funzionari” dell’intelligence degli Stati uniti catturati [mi pare dopo un incidente aviatorio] qualche anno fa dalle FARC.
Dalla Svizzera, dove di transiti di denaro sanno molto, si è saputo che tutto è andato a buon fine perché sarebbero stati pagati 20 milioni di dollari [o di euro?] di riscatto proprio alle FARC o a quella parte di questa struttura attualmente allo sbando dopo la morte del portavoce Raul Reyes nel bombardamento da parte dei reparti speciali dell’esercito colombiano dell’accampamento dei guerriglieri riparati in territorio ecuadoriano e dopo la morte per infarto del capo storico Manuel Marulanda Vélez [noto come Tirofijo].
L’operazione però, malgrado la sua plateale ambiguità, è stata descritta dai media occidentali come un successo del “democratico” Uribe, senza insistere mai sull’interrogativo di chi abbia pagato il riscatto e in base a quali accordi. Si è raccontata la crudeltà insensata e inutile delle FARC ma si è dimenticato, nella maggior parte degli articoli e dei servizi televisivi, che in Colombia è attivo il terrorismo di stato che, per esempio, quasi due anni fa ha portato alla strage di contadini della Comunità di pace di San José de Apartadó, compiuta da unità dell’esercito e per la quale ancora non è stato perseguito nessuno. I 14 capi paramilitari che Uribe, per non perdere il favore di Washington ha consegnato a maggio alla giustizia degli Stati uniti, saranno giudicati solo per reati di narcotraffico e non per le migliaia di assassinii ordinati e eseguiti. Forse proprio da loro presto o tardi si saprà la verità sullo spericolato percorso intrapreso da Uribe fin da quando era governatore della provincia di Antioquia. Ma certo, presentarlo come un vincitore è stata proprio un’infamia da parte della nostra più qualificata informazione.
Chi ha deciso di tacere, invece, è stata Ingrid Betancourt. Chi per ben sette anni ha patito sofferenze fisiche e morali difficilmente immaginabili ha il diritto di farlo e anche di parlare dicendo solo ovvietà. Penso che nessuno, anche nel mondo progressista o della sinistra, sia così indiscutibile da sentirsi autorizzato a giudicarla. Certo, Ingrid ha preso tempo Non si presenterà alle elezioni e quindi, se ancora sentirà passione per la politica del suo paese, parlerà, semmai, in futuro, dopo l’uscita di scena di Uribe, che sta cambiando la costituzione della Colombia per garantirsi il terzo mandato presidenziale consecutivo. Anche chi vede in questo appartarsi della Betancourt una resa, deve avere l’onestà intellettuale di ammettere che non era Ingrid la persona attrezzata adesso per bloccare l’ennesima trama di Uribe con gli Stati uniti nell’ambito del famigerato Plan Colombia. Un progetto che la pur disinvolta Comunità europea rifiutò, definendolo non un piano di rilancio di un paese ma, testualmente “un piano militare”.

GLI URAGANI, LA AGUERO E LA SOLITA IPOCRISIA DELL’INFORMAZIONE
Tutti gli spunti accennati in questo editoriale trovano riscontro e approfondimento in questo numero 104 di Latinoamerica, che vorrei chiosare sottolineando due ennesime scorrettezze verso Cuba che, evidentemente, sono il prezzo che molti giornalisti pagano per esistere.
La prima riguarda i missili della Russia di Putin che la perversa Revolución, dimentica della lezione della storia, avrebbe deciso di ospitare nuovamente sul proprio territorio. Lo afferma Omero Ciai su la Repubblica, nel patetico tentativo di distogliere l’attenzione dai meriti di un governo capace, nel mese di settembre, al contrario degli altri paesi caraibici e degli stessi Stati uniti, di ridurre al minimo, grazie a una Protezione civile efficiente e lodata dall’Onu, i danni degli uragani Gustav e Ike. Un milione di persone evacuate in 24 ore e solo 4 morti, anche se la furia degli elementi ha distrutto più di 300mila abitazioni. A commentare questo scenario Ciai ha chiamato Carlos Franqui, sedicente esperto di Cuba che manca dall’isola da oltre 40 anni e che, miseramente tacendo quello che è davanti agli occhi di tutti, sostiene che Cuba rischia “l’haitizzazione”. Sono 50 anni che leggiamo queste “minchiate” profetiche, mai azzeccate, neanche una volta.
L’altra scorretezza riguarda il modo di raccontare la vicenda di Tai Aguero, la pallavolista che, dopo aver vinto due Olimpiadi con la nazionale cubana, lasciò sette anni fa, ben conscia delle conseguenze del suo gesto, il ritiro della sua squadra in Svizzera per un sontuoso contatto professionistico che l’aspettava in Italia. Vorrei sapere perché le nazioni ricche hanno il diritto di saccheggiare un movimento sportivo capace di valorizzare le qualità di un popolo [come non sanno fare, per esempio, in Brasile o in Messico] fino a vincere, malgrado la ristrettezza dei mezzi, Mondiali e Olimpiadi in tante discipline, senza che il lavoro di formazione e di tutela svolto sia rispettato, né moralmente né economicamente. Perché reputiamo giusto che i nostri club si svenino per un calciatore brasiliano o argentino, mentre pensiamo che un atleta cubano [nella pallavolo, nell’atletica, nella boxe, nel baseball, etc] si può “rubare” impunemente e addirittura utilizzare per far vincere trofei alle nostre nazionali, altrimenti sconfitte? Perché un paese come Cuba non ha il diritto di fissare delle regole, ben note ad atleti come la Aguero, per difendersi da questo esproprio?

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