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lunedì 31 agosto 2009

L'ultima battaglia per Gaza

Il 15 agosto Hamas e un gruppo salafita hanno combattuto aspramente: 28 le vittime. Ma perché è successo?

La calma, si fa per dire, sembra tornata nella Striscia di Gaza dopo che due settimane fa è scoppiato l'inferno. I miliziani delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, ala militare di Hamas, e i poliziotti del movimento islamico hanno messo a ferro e fuoco la città di Rafah, al confine con l'Egitto. Obiettivo dell'operazione il gruppo Jund Ansar Allah e il suo leader e fondatore Abdul-Latif Moussa.

Ferragosto di fuoco. Almeno 28 persone sono morte e 150 sono rimaste ferite nello scontro a fuoco avvenuto tra gli uomini di Hamas, che controllano la Striscia dal 2007, e i seguaci di Moussa, barricati nella loro moschea di Rafah, la Ibn Taymiya. Lo stesso leader ha perso la vita nella battaglia, secondo alcune testimonianze vicino a uno dei suoi fedelissimi che si è fatto esplodere all'ingresso dei miliziani di Hamas nel luogo di culto dove, il giorno prima, Moussa aveva tenuto il sermone della discordia. Secondo il quotidiano israeliano Jerusalem Post, invece, lo stesso leader si sarebbe fatto trovare con un giubbino carico di esplosivo azionato al momento dell'arresto. La ricostruzione ufficiale di Hamas, infatti, individua nel contenuto della predica tenuta da Moussa il 14 agosto scorso il casus belli. ''Hamas ha abbandonato la retta via dell'Islam, sono infedeli. Proclamo l'Emirato Islamico di Palestina'', avrebbe detto il predicatore, che per la prima volta da quando aveva iniziato la sua attività leggeva il sermone da un foglietto, come mostra un video postato su YouTube.

Lo scontro, oltre la retorica. Come sono andate davvero le cose è difficile dirlo, anche perché a tutti i giornalisti (palestinesi e stranieri) è stato proibito l'accesso alla moschea Ibn Taymiya e a tutti gli ospedali e gli obitori di Rafah e della Striscia di Gaza. Un black-out dell'informazione condannato da Reporters sans Frontière, che denunciava come il ministero degli Interni di Hamas abbia giustificato il divieto con motivi di sicurezza per gli stessi giornalisti. Alcune immagini, però, sono circolate lo stesso, grazie a telefonini e social network. In alcune di queste, postate in rete poche ore dopo i combattimenti a Rafah, mostrano alcuni militanti di Jund Ansar Allah in fila contro un muro del cortile della moschea Ibn Taymiya che vengono giustiziati sul posto dai miliziani di Hamas. Rihbi Rantisi, uno dei portavoce di Hamas, ha sconfessato le immagini, sostenendo la tesi secondo cui tutte le vittime sono cadute nello scontro a fuoco generato dal fatto che i circa cento miliziani di Moussa hanno opposto resistenza all'arresto.

Fase diplomatica. La dinamica di quanto accaduto il 15 agosto scorso rimane un mistero. Restano i 28 morti e l'importanza di quanto accaduto. Il governo israeliano, fin dalla sua vittoria alle elezioni del 2006 e dopo la presa del potere nella Striscia di Gaza nel 2007, considera Hamas un'entità ostile' e non ha mai voluto intraprendere alcun dialogo con il movimento islamico. Una delle accuse che Israele muove ad Hamas, tra le altre, è quella di essere un'emanazione del network internazionale di al-Qaeda. Stando così le cose e prendendo per buone le interpretazioni secondo cui Jund Ansar Allah fosse un gruppo salafita (che predica il ritorno all'Islam delle origini) legato a Osama bin Laden, il governo israeliano dovrebbe ammettere che Hamas lavora per un governo confessionale moderato, eliminando in prima persona gli integralisti. Questo non accadrà mai, ma proprio nei giorni in cui si prepara al Cairo il vertice con il leader politico di Hamas Khaled Meshaal per la liberazione del caporale israeliano Shalit (rapito tre anni fa a Gaza) potrebbe essere un buon elemento da spendere con l'opinione pubblica interna israeliana, o almeno con quella parte della stessa che rifiuta l'idea di trattare con Hamas.

C'eravamo tanto amati. Questa è una delle possibili interpretazioni, anche perché Hamas attraversa un periodo molto 'diplomatico' delle sue relazioni con Israele. I miliziani del movimento controllano palmo a palmo la Striscia per evitare contrasti con Tel Aviv. Dopo l'ultimo conflitto Hamas ha cantato vittoria, ma anche subito un duro colpo ed è tutta concentrata sulla riorganizzazione. Alcuni militanti di Jund Ansar Allah, invece, hanno attaccato a cavallo l'esercito israeliano causandone la reazione e facendo infuriare Hamas. Inoltre, secondo fonti palestinesi, la polizia di Gaza ha intercettato un carico di armi diretto a Moussa e ai suoi uomini. Hamas ha temuto il peggio, anche perché i suoi rivali del Fatah, in passato, attraverso l'onnipresente dirigente Mohammed Dahlan, avrebbe finanziato e armato Moussa per creare difficoltà al movimento islamista. Quello che non si capisce, però, è come mai proprio adesso Hamas abbia deciso di agire con tanta durezza. Il sermone del venerdì 14 agosto sembra un motivo un po' debole per le dimensioni dell'operazione scattata il 15 agosto.

Il medico che volle farsi califfo. Jund Ansar Allah è stato fondato, a novembre dello scorso anno, da Abdul-Latif Moussa. Il leader, medico di formazione, è stato per anni in Egitto, molto vicino al movimento dei Fratelli Musulmani. Tornato in Palestina dopo gli accordi di Oslo ha lavorato come impiegato al ministero della Sanità palestinese prima di dedicarsi agli studi religiosi. Le sue posizioni si sono sempre più radicalizzate e, come ricostruito da Taher a-Nunnu, un portavoce di Hamas, ''il gruppo si è reso colpevole di attentati contro barbieri e parrucchieri, coffee shop, internet cafè e matrimoni, sempre con l'intento di punire coloro che non si attenevano al vero Islam. Ma il loro comportamento, nella Striscia post 2007, non è differente da quello di altri gruppetti salatifi come Salafi Jihad o Jaysh al-Islam. Il denaro per le armi, le moschee e per le opere caritatevoli (con le quali fare proselitismo tra la gente di Gaza) veniva dall'Arabia Saudita, mai favorevole alla relazione tra Hamas e l'Iran. Anche questo era un elemento noto da tempo alle forze di sicurezza di Hamas. A livello dottrinale, poi, le differenze non sono così sostanziali tra la linea di gruppi come Jund Ansar Allah e quello che predica l'ala dei falchi di Hamas. Perché, allora, tutta questa fretta improvvisa nel chiudere il conto con il gruppo? Davvero Hamas ha così paura di una reazione d'Israele da affrontare il rischio di una mattanza di palestinesi?

Il nodo gordiano. Hamas, in realtà, sta giocando su un tavolo più importante ancora della contrapposizione con Israele: quello del suo rapporto con l'amministrazione Obama e il governo britannico. Il nuovo corso di Washington, sancito dalla fine dell'era Bush, ha aperto spiragli interessanti per Hamas. La sensazione è che sia alla Casa Bianca che a Downing Street qualcosa si muove per la spinta alla ripresa dei negoziati con Israele e che, per la prima volta, Hamas potrebbe essere considerato un interlocutore credibile. Colpire un gruppo come Jund Ansar Allah, in aria di lista nera Usa, potrebbe essere stato il prezzo da pagare alla nuova dimensione politico internazionale che Hamas cerca di ritagliarsi, sul modello di Hezbollah, ormai coinvolta a pieno titolo nello scenario internazionale. ''Noi combattiamo al-Qaeda'', potrebbe essere il significato di tutta l'operazione. Lo sdoganamento di Hamas, infatti, aprirebbe la strada a un governo di unità nazionale palestinese e alla ricostruzione di Gaza, utile politicamente, ma ancor di più un business milionario nel quale la leadership del movimento vuole entrare con tutte le scarpe. I finanziamenti della comunità internazionale sono un bottino che fa gola.

Sottile strategia. I punti di vista sulla vicenda, come sempre, sono molteplici. Walid Phares, docente universitario a Washington e direttore del Future Terrorism Project presso la Fondazione per la Difesa della Democrazia, un think tank conservatore statunitense, lancia il suo allarme.
''Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non devono cadere nella trappola che si cela dietro lo scontro tra Hamas e Jund Ansar Allah. I vertici di Hamas vogliono entrare nel club dei 'jihdaisti buoni' che combattono i 'jihdaisti cattivi', ma non sono affatto differenti tra loro'', ha scritto il prof. Phares come in Libano, quando il gruppo di Fatah al-.Islam venne combattuto con violenza e presentato come la filiale libanese di al-Qaeda. Gruppi come Hamas ed Hezbollah vogliono farsi coinvolgere nella vita politica dei rispettivi paesi, per ottenere una patente di presentabilità che permetta loro di trattare con Usa e Gran Bretagna. Il modello dello stato islamico e quello della lotta senza quartiere a Israele è identico a quello di gruppi come Fatah al-Islam e Jund Ansar Allah. Cambia solo la strategia: una visione di medio - lungo periodo contro una visione di breve periodo. I gruppi minori vogliono la jihad senza quartiere, Hamas ed Hezbollah puntano a vincere la loro battaglia senza porsi limiti di tempo'', conclude Phares.

Imbarazzo di Hamas. Il corrispondente di al-Jazeera English da Gaza, Ayman Mohyeldin, ha messo in imbarazzo uno dei portavoce di Hamas, Ghazi Hamad, chidendogli dopo lo scontro a fuoco: ''Non crede che le persone che avete appena eliminato si limitassero a invocare quell'emirato islamico in Palestina che è presente come obiettivo del vostro stesso statuto?''. Hamad, dopo una serie di goffi tentativi di evitare la domanda, ha risposto: ''Questa gente vuole stabilire il califfato con effetto immediato in tutte le zone liberate dall'occupazione israeliana. Sono irrazionali, non capiscono che la jihad ha tempi e modalità particolari. Come i nostri''. Non proprio una smentita categorica. E' anche vero, però, che una certa retorica jihdaista è sempre rivolta all'opinione pubblica interna, soprattutto a Gaza, dove la disperazione causata dall'assedio che dura dal 2007 stanno spingendo sempre più giovani palestinesi su posizioni oltranziste e integraliste, sconosciute fino a qualche anno fa alla cultura religiosa palestinese. Hamas, quindi, pur se sposasse un approccio diplomatico alle cancellerie occidentali (come sembra confermato dallo stretto controllo esercitato dai suoi uomini per impedire attacchi a Israele in questo periodo di intense trattative) non lo andrebbe certo a sventolare come un vessillo davanti a un'opinione pubblica ridotta alla fame.

Emulazione e radicalizzazione. Quello che Hamas teme di più è che il suo immenso consenso tra la popolazione civile di Gaza, che gli ha garantito il trionfo delle elezioni del 2006, si stia erodendo di fronte alle tragiche condizioni di vita che i palestinesi della Striscia vivono da due anni. L'operazione Piombo Fuso dell'esercito israeliano, a cavallo tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, ha aggravato ancora le privazioni della gente di Gaza e dintorni. Il timore della leadership di Hamas è quello, prima o poi, di sentirsi accusati dai loro stessi sostenitori di aver contribuito a questo disastro. Gli esiti possibili di questa evoluzione possono essere due: il ritorno in auge del partito dei moderati di Fatah o la radicalizzazione dei giovani verso forme incontrollabili di guerriglia. Entrambi due scenari inquietanti per Hamas. Illuminante in questo senso un'intervista concessa al settimanale egiziano al-Arham Weekly da Yahya Moussa, vicepresidente di Hamas. ''I gruppi che fraintendono i principi della religione esistono in tutto il mondo. Ma da noi il fenomeno è molto limitato rispetto al fondamentalismo presente in altri paesi. Abbiamo la situazione sotto controllo, anche se esiste un rischio di emulazione dei giovani palestinesi nei confronti di quello che accade in Iraq o in Afghanistan. Molti di questi gruppi si sono formati e rafforzati proprio dopo l'ultimo attacco israeliano, per le sofferenze che tutti hanno subito. Non permetteremo, però, che la Striscia di Gaza ripiombi nel caos''. Per scongiurare questo rischio, però, forse è già tardi.

di Christian Elia da PeaceReporter

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