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sabato 1 agosto 2009

Quale democrazia per l'Afghanistan?

Ma quale democrazia stanno difendendo le truppe occidentali impegnate sotto la regia degli Usa? Solo qualche giorno fa, i soldati italiani hanno rischiato di lasciare sul campo altre vite umane per contrastare un attacco contro Mohammad Qasim Fahim, candidato con Karzai alla vicepresidenza. Fahim è uno dei più potenti signori della guerra, responsabile del massacro realizzato nei primi anni '90 a Fashar in Kabul con 700 morti e oltre un centinaio di donne violentate; Fahim è stato ex ministro della difesa di Karzai rimosso dallo stesso presidente perché impresentabile all'opinione pubblica mondiale e soprattutto al popolo afgano. Un personaggio che dovrebbe essere immediatamente arrestato e comparire dinnanzi ad una corte internazionale per i crimini contro l'umanità. Fahim, come Rabbani, Qanuni, Massoud, Dostum, Khalili, Ismail Khan, è indicato dalle donne di Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) come uno dei principali criminali di guerra che Rawa pone sullo stesso piano dei talebani, per la sua ferocia e tasso di criminalità. Fahim non è un caso isolato, il governo Karzai è pieno di signori della guerra e di narcotrafficanti a cominciare dallo stretto entourage famigliare del presidente Karzai.
La produzione di oppio nel 2001 era inferiore alle 200 tonnellate, ora ha superato le 8000. Il fallimento della politica della coalizione è totale, evidente in ogni campo.
In questo contesto privo di qualunque significato suonano le parole del Presidente del Consiglio: “Noi dobbiamo essere là e far crescere la democrazia” e altrettanto inaccettabili risultano le frasi che gli hanno fatto immediatamente eco pronunciate dagli aspiranti segretari del Pd invocanti la compattezza nazionale per sostenere “i nostri ragazzi”.
I “nostri” militari stanno rischiando la vita per garantire la permanenza di un governo di delinquenti.
Non è vero che non c'è scelta; non è vero che o si sta coi talebani o con i signori della guerra.
Se veramente l'occidente fosse desideroso di sostenere, non con le armi, ma politicamente ed economicamente chi da decenni lotta per il rispetto i diritti umani e per la democrazia, gli interlocutori non mancherebbero: dalle migliaia di donne militanti in Rawa, a Malalai Joya, deputata indipendente, espulsa dal parlamento per aver denunciato i signori della guerra, a Bashardost Ramazan, candidato alla presidenza, che da anni denuncia la corruzione delle autorità afgane alimentata anche da fondi neri attraverso i quali Usa e Gran Bretagna si garantiscono la connivenze dei governanti in carica, a Hambastagi un partito fondato nel 2002 che si pone come obiettivo “la costruzione di una società democratica, in un sistema secolare contro il fondamentalismo e i signori della guerra”, solo per citare le realtà più conosciute.
Tutti costoro sono totalmente ignorati dalle diplomazie occidentali, nemici giurati dei talebani rischiano ogni giorno la vita per mano dei sicari del governo Karzai.
Non c'è quindi un prima e un post elezioni in Afghanistan rispetto al quale definire un'eventuale exit strategy come ha dichiarato Berlusconi, in attesa di ricevere ordini aggiornati da Washington.
In questo contesto le parole di Bossi risuonano solo come parte di una partita tattica per ridisegnare i rapporti di forza nella maggioranza. Bossi sa che la maggioranza degli italiani non ha mai condiviso la guerra, sa che forte è il rischio di contare altri morti tra i soldati italiani, sa che di fronte alla crisi economica le risorse sono scarse e che le missioni costano.
Tutti elementi ben presenti anche nelle recenti dichiarazioni di Di Pietro: “L'IdV da sempre contraria alla guerra”; affermazioni tanto nette quanto false se confrontate con la storia del suo partito. Ma anche l'ex Pm sta giocando la sua partita tattica nella competizione con il Pd e e nel tentativo di annettersi quanto più possibile i voti della sinistra in enorme difficoltà sul terreno della rappresentanza.
Non credo che queste dichiarazioni estive provenienti da molteplici e differenti sponde, porteranno ad un ritiro delle nostre truppe in tempi brevi; ma che se ne cominci a discutere, anche se per motivi non sempre nobili, è un fatto positivo.
Ma qui cominciano i problemi, i nostri problemi; le difficoltà di coloro che tra il 2001 e il 15 febbraio 2003 hanno costruito il più grande movimento pacifista di tutta Europa, di coloro che sono contro le guerre“senza se e senza ma”, di coloro che sono contro l'esportazione forzata della democrazia in Afghanistan e dovunque, di quelli che credono in un mondo multipolare, in relazioni diverse tra sud e nord, di quelli che sono consapevoli che, se non si riducono i consumi e non si modifica completamente il modello economico, le guerre saranno inevitabili per il controllo delle limitate fonti energetiche. Parlo di noi, di coloro che quando si oppongono alla guerra non hanno in mente piccoli vantaggi tattici, ma pensano che questo sia uno dei passi essenziali per la costruzione di un mondo diverso.
Ma parlo anche di una sinistra che ha accettato di scambiare tutto questo per garantire la sopravvivenza di un governo; di leadership politiche di allora che hanno contribuito a rompere l'unità di un movimento immenso per piegarlo ad una ragione di Stato. Limitandomi all'esperienza personale, ben ricordo il fastidio con il quale fu accolta la mia lettera aperta rivolta dalle pagine di questo giornale ai parlamentari della sinistra perché non votassero la missione in Afghanistan.
Parlo anche di grandi organizzazioni storiche della sinistra sociale e sindacale che per non disturbare il manovratore hanno richiamato al silenzio le proprie strutture di base, dopo che esse stesse erano state tra le principali animatrici di quel movimento.
Su quell'esperienza è necessario essere chiari, fare autocritica “senza se e senza ma”, dire in modo esplicito che mai più ci sarà da sinistra un voto favorevole ad una guerra; dirlo nelle condizioni attuali è forse facile, ma va assunto come impegno solenne per il futuro, indipendentemente da qualunque collocazione istituzionale.
Questa chiarezza è indispensabile per compiere un passo successivo altrettanto necessario: rilanciare in autunno una campagna per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan puntando a ricostruire quell'amplissimo fronte che aveva portato migliaia di bandiere a sventolare su decine di municipi, centinaia di chiese e migliaia di posti di lavoro e di centri di aggregazione.
Una campagna contro la/e guerra/e che potrebbe benissimo unificarsi ad una altrettanto necessaria campagna contro il nucleare, un modello energetico che in sé riassume sia la concentrazione di potere tipico dei sistemi militari e sia gli elevati rischi di stragi degli innocenti caratteristico di ogni conflitto attuale

di Vittorio Agnoletto da Il Manifesto

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