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venerdì 11 settembre 2009

Cile, 11 settembre 1973. La lezione del golpe


Il golpe in Cile interruppe tragicamente un’esperienza a cui molti guardavano con interesse e simpatia. Soprattutto spazzò via la speranza che la sinistra potesse raggiungere il potere per via pacifica, tramite elezioni.

La ragione dell’enorme impatto emotivo conseguente al colpo di stato dell’11 settembre 1973 in Cile risiede non solo nella feroce repressione che ne seguì, ma soprattutto nel fatto che il golpe interruppe tragicamente un’esperienza a cui molti guardavano con interesse e simpatia. Ne scaturì un vivace dibattito politico che dura tuttora.
Il golpe spazzò via le speranze che anche nel “cortile di casa” degli Stati Uniti la sinistra potesse raggiungere il potere per via pacifica, tramite elezioni.


I drammatici fatti cileni costituirono il presupposto per l’elaborazione, da parte del vertice del PCI, della strategia del compromesso storico: Berlinguer ne trasse infatti la conclusione che alla sinistra, per governare, fosse necessario un accordo con le forze cattoliche e moderate.

Più di recente la sinistra neoliberista ha fatto ricadere le responsabilità politiche del colpo di stato cileno sull’”estremismo massimalista” di coloro che avrebbero spinto per una radicalizzazione dell’esperienza di governo di Unidad Popular provocando in questo modo l’ostilità delle classi medie e delle masse cattoliche e la reazione degli Stati Uniti e del capitale internazionale.

La morale sarebbe che non è possibile alcuna vera alternativa e che una sinistra di governo non può alienarsi il consenso dei “poteri forti”.

In realtà per quanto Allende sia stato un politico di grande statura morale, vi furono errori politici clamorosi del gruppo dirigente di Unidad Popular che si rilevarono decisivi.

A proposito delle nazionalizzazioni va ricordato innanzitutto che quelle più importanti (delle miniere di rame, carbone e ferro) furono votate all’unanimità dal Parlamento cileno l’11 luglio 1971 e quindi è difficile descriverle come una trovata bizzarra di settori estremisti.

Va anche detto che poco prima, il 4 aprile il 36% delle elezioni dell’anno precedente era già diventato il 51%, a dimostrazione del fatto che le misure a difasa delle classi meno abbienti riscuotevano grande consenso.

Che successe dopo?

Era chiaro fin dalla investitura di Allende che i fascisti cileni, gli USA e i loro servizi segreti, le multinazionali puntassero al golpe. Ma Allende credette che un assoluto legalitarismo potesse costituire una strategia difensiva efficace contro i golpisti: pensava che non dando adito a pretesti il golpe non ci sarebbe stato.

Non capì che ai suoi avversari interessava ben altro che la legalità del governo cileno...

Fu quindi trascurata o addirittura osteggiata la creazione di organismi di contropotere e di controinformazione (eppure per le elezioni del 1970 erano nati ben 15mila comitati di UP, diffusi in modo capillare in tutto il paese) e fu votata una legge per “il controllo delle armi” che fu usata dalle forze di polizia a senso unico contro le organizzazioni di sinistra, mentre i terroristi fascisti di “Patria e Libertà” avevano piena libertà di movimento.

Non si mise in atto alcuna strategia efficace per assumere il controllo delle Forze Armate, o perlomeno per dividerle. Appena 20 giorni prima del golpe il generale Pratts, uno dei pochi ufficiali di vertice leali al governo, si dimise cedendo alle pressioni delle lobby fasciste indicando come suo successore proprio Pinochet.

Di fronte alle difficoltà provocate dalla strategia golpista (attentati, serrate, provocazioni) si cominciò a fermare il processo di trasformazione, causando la demoralizzazione dei militanti e la diminuzione del consenso popolare.

A rafforzare questa interpretazione può essere paragonato l’esito del golpe in Cile con quello del golpe in Venezuela dell’aprile 2002.

Fatti i debito distinguo (certamente la situazione internazionale non è la stessa) si vede che in Venezuela, di fronte a una strategia golpista del tutto simile, le forze popolari hanno reagito e l’esercito non ha seguito i generali promotori della ribellione.

Come scrive Gennaro Carotenuto “I motivi del rovesciamento della fortuna golpista vanno ricercati dunque nel campo popolare e nell'evoluzione delle forme di militanza, nel modello di stato inclusivo alla base della Costituzione bolivariana, nei meccanismi partecipativi che innescano il senso di cittadinanza, nel diverso ruolo dei partiti”.

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Salvador Allende (2004), di Patricio Guzman
Il cineasta cileno Patricio Guzman ha realizzato un vero e proprio ritratto filmato della figura del Presidente cileno Salvador Allende (Valparaìso 1908-Santiago del Cile 1973), alternando materiali d’archivio a riprese effettuate nella contemporaneità, attraverso l’utilizzo di interviste (giornalisti, politici, ma anche operai), di discorsi del Presidente, e delle testimonianze dei familiari.

Interessante l’edizione della Feltrinelli, distribuzione Fandango, dove nei contenuti speciali è presente un altro film di Guzman, La memoria ostinata (1997). All’interno del cofanetto è presente anche un libro, ormai marchio di fabbrica delle edizioni Feltrinelli, dal titolo Companero Presidente a cura di Danilo Manera, il quale raccoglie testimonianze e racconti di scrittori cileni, riportando, inoltre, alcuni degli ultimi messaggi del Presidente.

Questo film ha vinto il premio come miglior documentario al Festival di Lima nel 2004. Nello stesso anno ha concorso anche al festival di Cannes e di Locarno, nella selezione ufficiale.

La trama del film
Come più volte ho sottolineato, imbattendomi nella recensione di documentari, risulta difficile definire e delineare una trama in senso classico, a maggior ragione se il documentario viene realizzato manipolando vari filmati, utilizzando lavori altrui, e soprattutto mischiando materiale d’archivio con riprese attuali.

In questo modo il lavoro di Guzman risulta un accorato riesame della figura del Presidente cileno Allende: dall’infanzia alla laurea in medicina (parentesi che lo avvicinò alla povertà e alle malattie), dai primi approcci alla politica all’ascesa al potere il 5 settembre del 1970, sino al fatidico 11 settembre cileno del 1973, dove un golpe di Stato decretò la fine del sogno del socialismo allendiano.

Attraverso varie testimonianze attuali, familiari, amici, ma anche persone comuni (avvicinate dal regista addirittura porta a porta, “alla Michael Moore”), Guzman tenta di elaborare una sorta di diario del ricordo, raffigurando la figura di El Chicho (soprannome dato ad Allende in gioventù) non solo attraverso l’operato dello stesso, ma anche attraverso la memoria e gli insegnamenti che il Presidente ha lasciato nell’immaginario comune.

E’ davvero interessante notare come Guzman arrivi a domandarsi se la figura di Allende abbia inciso nella memoria dei cileni, poiché nel cammino delle riprese incontra anche indifferenza e contrarietà. Inoltre l’autore sottolinea come il documentario sia l’unica opera tendente a fare luce su Allende, sui suoi insegnamenti, e soprattutto sulla sua morte, dove aleggiano ancor oggi misteri mai svelati.

Sono oramai appurate le “interferenze” (per utilizzare un termine moderato) della C.I.A., e del presidente Nixon, come testimonia del resto all’interno del documentario lo stesso ex-ambasciatore americano a Santiago del Cile al tempo dei fatti.

Considerazioni
Come ho rimarcato precedentemente l’opera di Guzman risulta affettuosa, sincera, vissuta con sensibile partecipazione. Questi sono gli stessi sentimenti che l’autore provò trent'anni prima, a cospetto della figura di Allende e dei suoi precetti politici, e soprattutto morali. Successivamente Guzman verrà imprigionato durante la tremenda dittatura di Pinochet.

Ci si riconosce sentimentalmente nell’operazione del regista cileno. Non si ha scelta, ponendosi davanti ad una figura politica del genere, maledettamente assente al giorno d’oggi. Allende, infatti, uomo vicino al popolo, fervente sostenitore di una democrazia socialista, audace portatore di valori etici, fu uno degli uomini che contribuì a cambiare la politica, e il potere di pochi, rivolgendosi alle masse, ascoltando le voci delle classi meno abbienti, utilizzando sempre come strumento di lotta politica la “rivoluzione” pacifica.

Fu questo tipo di approccio che scalfì la Storia politica sudamericana e mondiale, in quanto unico (o meglio uno dei pochi) tentativi rivoluzionari di ascesa al potere senza armi. Quelle armi che, sotto l’egida dei capi militari, tra cui Pinochet, e sotto la regia statunitense nixoniana, lo fecero capitolare nel settembre del 1973, con il bombardamento de “La Moneda”, residenza del governo.

Piuttosto di cadere in mano ai golpisti Allende si tolse la vita, sparandosi un colpo in testa. E’ questo forse uno dei pochi peccati che viene riconosciuto allo statista. Molti, infatti, ritengono che il corso della dittatura sarebbe stata più lieve con Allende in vita.

Stupendo il finale. Il poeta Gonzalo Millan, dopo i terribili fatti del settembre ’73, recita una poesia dove gli avvenimenti sembrano andare a ritroso, ricomponendosi come se non fossero mai accaduti. In sostanza Guzman chiede di ricordare e di non dimenticare il credo allendiano di una vita “mas justa y mas libre”.

da Indymedia

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