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lunedì 14 settembre 2009

Darfur, un nuovo appello inascoltato dal Sudan mentre riprendono gli scontri

Da quando lo scorso marzo il governo sudanese ha espulso dal Darfur tredici organizzazioni non governative, di cui è stato chiesto il reintegro a più riprese e da più voci, il coordinamento umanitario nella regione ha subito un considerevole ridimensionamento. Le conseguenze hanno colpito l’intera popolazione assistita dai volontari delle Ong cacciate, che finora sono state sostituite con operatori locali non in grado di offrire gli standard del precedente intervento.

Inutili gli appelli rivolti a Khartoum di supplire ‘adeguatamente’ a tali mancanze. Se non fosse per Ocha, il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, le condizioni sanitarie e la distribuzione alimentare sarebbero praticamente nulle. Ma si riesce ‘solo’ a impedire il collasso del sistema, a ‘garantire’ una qualità della vita ai limiti della sopravvivenza.
Ma c’è di più. Il regime guidato da Omar Al Bashir (su cui pende un’incriminazione del Tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità) ha sequestrato fondi e mezzi delle organizzazioni espulse (le sole MSF-Francia e Olanda ed Oxfam avevano depositato nelle banche sudanesi 5,2 milioni di dollari e apparecchiature molto costose), riservandosi il diritto di utilizzarli a propria discrezione. Nonostante l’appello della Commissione Europea e della Gran Bretagna, che avevano chiesto la restituzione ai legittimi proprietari, ciò non è avvenuto.
Anche i donatori che avevano finanziato i progetti seguiti dai cooperanti internazionali hanno chiesto di poter decidere l’uso di tali fondi per altri programmi da loro indicati, ma il Sudan ha risposto che dopo l'espulsione delle 13 organizzazioni ‘non gradite’, i loro veicoli, le loro apparecchiature sarebbero stati assegnati ai gruppi locali mentre con il denaro sarebbero stati pagati gli stipendi, negli ultimi sei mesi, del personale impegnato al posto dei volontari internazionali.

Ue e GB non hanno gradito e hanno ribadito, attraverso un comunicato alla Reuters dei rispettivi portavoce, che quei beni appartenevano alle Ong a cui erano stati assegnati e solo loro potevano decidere come utilizzarli.
Il ministro per gli affari umanitari del Sudan ha però nuovamente rigettato la richiesta dicendo che “per contratto, stipulato dalle organizzazioni con il Governo, nessun donatore può porre un limite all’uso dei fondi i quali possono essere usati dagli altri gruppi che lavorano sul campo”.

E così non sapremo mai cosa è stato davvero fatto con i soldi destinati al Darfur e finiti nelle mani del regime ritenuto responsabile del conflitto e della crisi umanitaria in atto nella regione.
Intanto, sul fronte militare (giusto per ‘confermare’ quanto affermato nelle scorse settimane dal generale Martin Luther Agwai, comandante uscente del contingente Unamid, che aveva dichiarato ‘la guerra in Darfur è finita’…), sono stati registrati nuovi scontri nel Jebel Marra, una vasta area controllata dal Sudan Liberation Movememt di Abdel Wahid el-Nur, il leader della fazione del movimento che non sottoscrisse gli accordi di pace di Abuja nel 2006.
Un portavoce dei ribelli ha dichiarato al Sudan Tribune che l'esercito del Sudan lo scordo 7 settembre avrebbe attaccato le loro postazioni nel nord della provincia, in particolare Korma e Ain Siro, uccidendo 11 guerriglieri e costringendo alla fuga più di sei mila civili, tra cui numerose donne e bambini.

Sempre grazie al Sudan Tribune, una delle poche voci libere che ancora riescono a raccontare ciò che succede nel più grande paese africano, è stata resa nota una proposta per 'risolvere' la crisi del Darfur avanzata dall’Unione africana: una commissione per accertare la verità e favorire la riconciliazione sociale, come avvenne a suo tempo in Sudafrica, e l'istituzione di tribunali speciali che processino i presunti autori di crimini di guerra perpetrati nei sei e più anni di conflitto nella regione sudanese.

Volendo leggere 'positivamente' le intenzioni del comitato guidato dall'ex presidente sudafricano Mbeki, nato in seno all'Unione Africana con l'intento di porre fine all'instabilità nell'area. ci si scontra con la volontà manifestata di esautorare il Tribunale penale internazionale, mal visto da gran parte dei paesi africani, dall'inchiesta che ha portato all'incriminazione del presidente del Sudan Omar Al Bashir.

L'Ua vorrebbe 'affidare' la giustizia a una gestione locale affinchc si arrivi a un compromesso tra il processare gli esponenti del governo sudanese all'Aia e garantire loro immunità o un giudizio poco credibile. Ma i ribelli del Jem (il Movimento per la Giustizia e l'Uguaglianza che continua a combattere contro il regime di Kharyoum), ha già fatto sapere chiaramente che si opporranno "a qualsiasi tentativo di istituire corti o sedi di processi nel modo descritto dal Sudan Tribune perché sarebbe solo una via d'uscita per Bashir". Insomma il Jem, come gran parte degli osservatori internazionali e dei cooperanti, continua a ritenere la Corte Penale Internazionale l'unico organo 'lecito' a occuparsi del Darfur.

E come non essere d'accordo quando in Sudan e in molti altri stati aderenti all'Ua si viòla quotidianamente ogni basilare diritto umano! Basti pensare alla vicenda di Lubna, Ahmed Hussein, giornalista sudanese ed ex impiegata dell'Onu, arrestata e condannata perché indossava i pantaloni.

da Articolo21

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