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sabato 5 settembre 2009

Il momento perduto di Barack Obama

Per Barack Obama l’autunno si annuncia caldo, anzi rovente. Basti pensare al putiferio che sta suscitando una quisquilia come il discorso – annunciato per martedì mattina – del presidente a tutti gli scolari per la riapertura delle scuole. Un atto rituale, quindi scontato, ma i genitori di destra sono insorti: «Non voglio che mio figlio sia indottrinato da un presidente marxista», «voglio prima leggere quel che dirà per non esporlo ai veleni liberal». Alla fine Obama ha detto che renderà pubblico il testo del discorso lunedì. Ma non è bastato a placare gli animi.
È solo un sintomo del veleno che ormai circonda una presidenza nata sotto i migliori auspici appena otto mesi fa. E non importano tanto i nuovi minimi di consenso toccati dai sondaggi: conterà solo il sondaggio del novembre 2010, per le elezioni di metà mandato, per rinnovare tutta la Camera e un terzo del Senato.
Obama si trova in un impasse su tre fronti: Afghanistan, disoccupazione e riforma sanitaria. In Afghanistan, è ormai preso nella trappola che si era costruito da solo in campagna elettorale: allora aveva promesso escalation a Kabul per bilanciare il disimpegno da Baghdad e non alienarsi tutto il complesso militar-industriale. Ora lo sganciamento dall’Iraq è ancora parzialissimo (ma almeno i soldati Usa non muoiono più, chiusi come sono nelle loro basi), mentre l’Afghanistan si sta confermando come “il cimitero degli imperi”: le perdite della coalizione toccano record mai raggiunti in sette anni di guerra.
Lo staff di Obama e si rende conto delle implicazioni politiche di un’equazione escalation afghana = escalation in Vietnam. Il problema per il presidente è che non ha la forza per opporsi ai generali, ma nessuno sa in che cosa potrebbe mai consistere una vittoria sul terreno: spazzare via i taleban è chiaramente impossibile. Né c’è la minima idea su una strategia di sganciamento.
A prima vista l’economia parrebbe più favorevole a Obama, se (e solo se) è vero che la recessione sta esaurendosi. Ma le banche e, in parte, Wall street, si sono riprese solo perché la maggior parte del denaro riversato dal governo (cioè dai contribuenti) è fluito sulle banche stesse che lo hanno usato anche per giocare di nuovo in Borsa: da qui il rialzo dei vari mercati. Ma quanto è stato fatto finora va catalogato sotto la voce «socializzazione delle perdite», mentre pochissimo è andato ad alimentare l’occupazione e accrescere il potere d’acquisto della «classe media»: senza queste due misure, qualunque rilancio dell’economia potrà basarsi solo su un’altra bolla del credito e cioè sullo stesso meccanismo che ha provocato la crisi. Un piccolo indizio della gravita della situazione: gli acquisti per la riapertura delle scuole sono crollati, cioè i genitori sono restii a comprare persino zainetti, quaderni e accessori. Senza contare i dolori prossimi venturi per General Motors e Chrysler (e quindi per Fiat), ora che gli incentivi alla rottamazione sono finiti, aggravando ancora i problemi di disoccupazione.
Sulla riforma sanitaria, ormai non passa giorno senza che Casa bianca e leadership democratica non annuncino un passo indietro o un ridimensionamento. Gli strateghi repubblicani sono riusciti a dare un seguito e un’eco mediatica inauditi all’«Obama stacca la spina a nonnina», cioè alla tesi che la riforma imporrà l’eutanasia su tutti gli anziani per ridurre i costi del servizio sanitario. Di fronte alle assemblee comunali prese d’assalto da vegliardi imbufaliti, la reazione dei parlamentari democratici è stata inefficace, se non imbelle. Ormai l’obiettivo è portare a termine non la migliore riforma sanitaria possibile, ma una riformetta qualunque, pur di averla alle spalle l’anno prossimo.
Obama è perciò prigioniero delle piattaforme bipartisan su cui ha costruito la sua vittoria elettorale. Per vincere aveva proposto: 1) uno scambio tra Kabul e Baghdad per accontentare la sua base di colombe (che esigeva il ritiro dall’Iraq) ma non irritare i falchi; 2) un’uscita dalla crisi favorevole al mondo della finanza e delle banche, in cambio dell’appoggio elettorale che Wall street gli ha garantito; 3) una riforma sanitaria al ribasso per non avere contro di sé le lobbies: e infatti case farmaceutiche e assicurazioni avevano foraggiato la sua campagna assai più di quella di Bush, anche perché scommettono sempre sul cavallo favorito.
Il risultato è quindi il contrario di quello a cui punta ogni buon stratega, da Clausewitz in poi: invece di animare le proprie truppe e scoraggiare i nemici, Obama sta infiammando gli avversari e demotivando i sostenitori: in questa dinamica delle forze, più che nell’istantanea del potere, sta il suo vero impasse politico. Di fronte a una destra scatenata che brandisce il bisnonno morente e i discorsi agli scolaretti, il popolo di Obama è ora preso da scoramento per i regali alle banche e il delinearsi di una riformetta sanitaria e un’escalation in Afghanistan. Nei siti di discussione delle sinistra Usa leggi sempre più domande tipo: «Dove è finito il movimento della pace? Perché non ci mobilitiamo per la riforma sanitaria con la stessa aggressività con cui la destra si mobilita contro di essa?» Il paradosso è che, in economia, come sulla sanità, Obama è considerato un pericoloso rivoluzionario marxista dalla destra, proprio mentre la sinistra si sente abbandonata da lui e lo vede pronto ai compromessi più disonorevoli.
Nella politologia Usa il concetto critico è il momentum, quel che in fisica si chiama impulso o quantità di moto: non tanto la forza di cui disponi, ma lo slancio: puoi essere davanti, ma se stai frenando, stai per perdere, mentre puoi stare dietro, ma se in accelerazione, la vittoria ti arriderà. Ecco, per Obama il problema è che ormai ha perso momento, si è esaurita la spinta propulsiva dovuta alla sua elezione. Ora, riacquistare un impulso perso è assai più difficile che mantenerlo. Ma è questo il compito che l’aspetta. In altre parole, si gioca tutto nei prossimi mesi.

da IlManifesto

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