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sabato 19 settembre 2009

In fondo all’aula

Karen ha diciannove anni, è nata nella Repubblica Dominicana e vive a Roma. Mi confida che questo è un periodo particolarmente felice per lei perché si è appena diplomata e può realizzare il suo sogno di studiare ostetricia. Dopo una serena attesa di sei mesi, ha finalmente ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno.

Secondo i dati del ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur), nel 2008 gli studenti stranieri presenti nel sistema scolastico nazionale erano il 6,4 per cento degli iscritti. Si considerano “studenti stranieri” i figli di immigrati nati in Italia e quelli immigrati con i genitori, come Karen, che è arrivata qui all’età di dieci anni con la famiglia. Sempre secondo le statistiche del Miur il 34,7 per cento degli studenti stranieri è nato in Italia.

A Karen piace la scuola. Le dà un sette e mezzo. Però dice che non ha mai amato la frase : “Non sa una parola d’italiano”. “Lei cosa ne pensa, prof ?”, mi ha chiesto Karen. Questo anatema contro gli studenti stranieri nasconde tre aspettative sbagliate: che i ragazzi nati all’estero debbano per forza conoscere l’italiano, che sia una mancanza grave se arrivano a scuola senza saperlo e che sia una condizione irreversibile.

Karen parla molto bene l’italiano e lo scrive altrettanto bene. Però preferirebbe ricevere complimenti diversi da “perfino Karen, che è straniera, scrive meglio di te”. La presenza degli stranieri negli istituti superiori non è equilibrata, visto che nelle scuole professionali raggiunge l’8,7 per cento, negli istituti tecnici il 4,8, mentre nei licei non supera il 2 per cento. Solo apparentemente il problema è l’italiano. Il vero problema è la percezione illusoria di un’identità italiana unica così radicata che sembra fisiologica. “E non c’è un rimedio, prof?”.

“Basta applicare il principio dell’inclusione”, rispondo, “fondato sul diritto costituzionale di tutti gli alunni a frequentare la scuola insieme agli altri, senza distinzione di ‘sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali’. La diversità nella scuola c’è sempre. Sono diversi i tipi di intelligenza, i ritmi, i metodi e le tecniche di apprendimento. Diversi i livelli di partenza e le motivazioni personali”.
“Ma se è tutto fondato sulle diversità, perché ancora si fa distinzione tra i figli di cittadini di serie A iscritti tutti in una classe e i cittadini di serie B relegati in un’altra?”.

Un giorno ero in una scuola superiore di una città del nord per un incontro. Volevo coinvolgere i ragazzi in un dibattito civile e vivace e gli ho fatto leggere un articolo che avevo appena pubblicato su Internazionale. Ho chiesto agli studenti di commentarlo. C’era chi era d’accordo e chi no, naturalmente. Ma c’era anche un gruppetto di ragazzi in fondo all’aula che si rifiutava di partecipare e in gran parte erano stranieri.

A un certo punto è intervenuta un’insegnante che era favorevole alle classi differenziate perché ‘i ragazzi italiani non devono rimanere indietro con il programma’. Stavo per elencare alcuni dei metodi usati nell’insegnamento individuale dell’italiano come lingua straniera, in base ai diversi livelli di partenza (modulari, learning by doing, counselling learning e programmazione a spirale). Ma l’ora era finita.

Al momento dei saluti, la professoressa ha ammesso che non sapeva nulla di questioni glottodidattiche e che era intervenuta solo perché gli alunni che difendevano le classi differenziate erano in minoranza. “Allora, Karen, secondo te, i ragazzi che si sono rifiutati di partecipare erano pigri o non capivano l’importanza di comunicare?”. “Forse avevano capito che erano loro i catalizzatori del problema e si erano messi al riparo, prof!”. Helene Paraskeva

Helene Paraskeva è una scrittrice nata ad Atene. Vive a Roma dal 1975.

da Internazionale

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