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lunedì 7 settembre 2009

L’AMICO QUALSIASI

“Qualsiasi” è l’italiano medio, scontento, convinto di avere e di rappresentare una dignità culturale. Il rappresentante di quell’Italia che si prende molto sul serio, perennemente arrabbiata, e che perciò si ritiene in dovere di essere critica, perché “il mondo è in costante debito”.

Tra le mie conoscenze ricorderò Qualsiasi. Nel mio taccuino trovo molti appunti che lo riguardano. Ecco il primo: “I secoli hanno lavorato per produrre questo individuo di stanche ambizioni, furbo e volubile, moralista e buon conoscitore del codice, amante dell’ordine e indisciplinato, gendarme e ladro secondo i casi. Nazionalista convinto, vi dice come si doveva vincere l’ultima guerra e a chi si potrebbe dichiarare la prossima. Evade il fisco ma nei cortei patriottici è quello che fiancheggia la bandiera e intima ai passanti: giù il cappello”.
Q. è davvero un uomo qualsiasi: purtroppo egli è convinto di essere qualcuno. E’ però soddisfatto del suo nome, che porta con umile civetteria. Abita in una casa qualsiasi, che adorna di oggetti qualsiasi: spende molto per questi oggetti (ha vivissimo il senso della proprietà) ed è convinto così di allietarsi l’esistenza. Le sue macchine musicali sono potenti, egli le tiene in moto tutto il giorno, impedendo ai vicini di pensare. Segue il progresso per nelle minuzie, ma no trascura la tradizione. Crede che la poesia sia fatta di buoni sentimenti, oppure di crudeli perversità. Non si stima molto abile, ma ha fiducia nel suo buon gusto: senza questo buon gusto il cattivo gusto non avrebbe tanto dilagato nel suo paese. Qualsiasi è padre affettuoso: ama i figli per le soddisfazioni che dovranno dargli in avvenire ed ha un unico vero amico: se stesso. Se poi ci addentriamo ad esplorare le sue idee morali e politiche troviamo di che giustificare largamente le avversioni che hanno ridotto il suo paese nelle attuali deplorevoli condizioni e il Re a vivere in un albergo senza pagare il conto. Ha un animo senza dubbi, un cervello lucido: non si pone problemi che non abbia risolto in anticipo. Potevo coglierlo a contraddirsi tre volte nella stessa frase, potevo metterlo alle strette con le sue stesse affermazioni. Allora, da uomo che rinuncia alla lotta per generosità, concludeva che – dopotutto – non gliene importava nulla.
Lo frequentai negli anni che seguirono la grande sconfitta; e ancora oggi gioca a fare lo scontento. E’ scontento di sé e del suo paese che vorrebbe tranquillo, confortevole, simbolico come la Svizzera – un paese dove non si rubano le biciclette. La folla lo infastidisce con le sue eterne, mal formulate minacce, ed è convinto che il popolo non ami le cose belle, che lui ama, e che non abbia ideali disinteressati – che lui ha. “Il popolo” dice spesso “è sporco, si accanisce nella piccola compravendita, è superstizioso, pronto a derubarvi, prontissimo alle barricate, soprattutto se si tratta di farle con i vostri mobili”. Egli sente, quindi, come massimo dei suoi doveri, di controllare il popolo, di impedirgli di far pazzie. Miglior alleato in quest’impresa gli sembra l’esercito, il quale, se non ha generali abbastanza validi per vincere le guerre, ne ha sempre per tenere a bada chi non vorrebbe farne.
Qualsiasi è anche scontento della storia che lo sovrasta. Per la verità si tratta di una storia ingrata, che gli ha limitate tante aspirazioni. Gli ultimi avvenimenti hanno insinuato nel suo animo questa verità: che la morale si modella sull’economia. Si meraviglia perciò, anzi finge di meravigliarsi, che certi concetti una volta tenuti in gran conto – come l’Onestà, l’Onore, la Tolleranza, l’Umanità – siano scaduti a tal punto da essere invocati da tutti e osservati da nessuno. Non si chiede se, per caso, quei concetti non servirono troppo a salvare la sua concezione dell’esistenza, cioè la sua stessa esistenza, a scapito di quella degli altri.
Un confuso scetticismo lo invita a conquistarsi un benessere personale ad ogni costo. Sospirando ammette che “siamo in un paese di ladri”: si difenderà col furto. Il furto è talmente entrato nelle sue abitudini che ruba senza accorgersene: vi chiede la matita per segnarvi un indirizzo e dopo se la mette in tasca. Dai massacri che hanno insanguinato la sua terra, ha cavato l’insegnamento del suo diritto alla vita comoda, difesa dalle leggi e dalla polizia. Dice che paga la polizia per essere difeso da quelli che non possono pagarla. Dice anche di no avere idee politiche perché gli sembra inutile averne in un’epoca in cui le armi permettono ad un’idea armata di sopraffarne altre mille disarmate. Se gli osservate che nessun arma può uccidere un’idea, vi risponderà che il più piccolo temperino può uccidere però un uomo: lui.
Quanto alla libertà, che la trascorsa dittatura gli negava, ha imparato a farne a meno. Neanche oggi se ne preoccupa: preferisce l’ordine, da quel bravo disordinato che è. Se gli ricordate che già una volta ha rinunziato alla libertà per i treni in orario, vi risponderà che i treni in ritardo sopraffacevano egualmente la sua libertà, perché quel ritardo scaturiva da un’intransigenza politica, non dalla cattiva qualità del carbone.
Non ebbe un Sigfrido tra i suoi antenati e nemmeno uno di quei cavalieri che partivano senza provviste alla difesa della vedova e dell’Orfano. I proverbi gli hanno insegnato che l’audacia è superflua, quando non è esclusivamente retorica. E il sole, il bel sole del suo paese che tanto piace ai turisti, gli ha impedito di credere a ciò che non può essere provato, fatta eccezione per i miracoli e le statistiche. Il suo concetto preferito è la povertà del paese: “I pezzenti sono poveri”, questa è la sua massima.
Si tratta in verità di un paese piene di montagne e di abitanti, di fiumi asciutti e di brevi pianure, con un sottosuolo inadeguato, sordo ad ogni trivellamento. Non è più nemmeno il giardino del mondo, come una volta. Nell’antico mare quella penisola era un trampolino verso altre terre, altri continenti; oggi è un corridoio senza uscita: arrivati in fondo bisogna tornare indietro. Perciò Qualsiasi soffre di evasionismo. Quando gli dissero che le aquile avrebbero volato daccapo in suo onore, ci credette: e ci crederà sempre, benché oggi dica di non credere più a nulla. Ma è inutile che cerchiamo di frugare nelle ampie riserve di propositi che la sua speranza custodisce ancora: allo stesso modo, i materassi di certi vecchi mendicanti sono pieni di biglietti fuori corso.

Ecco un terzo appunto sul mio taccuino: “Non credere ai conterranei che gli somigliano e che non la pensano come lui. Odia e disprezza anche un poco gli stranieri, benché gli ammiri per i motivi più futili. Crede realmente solo a se stesso, si sente migliore di coloro che lo circondano per strada, al caffè, ovunque. Si rammarica sovente di essere costretto a vivere fra imbecilli. La notte s’addormenta sorridendo di pietà al ricordo di imbecilli che ha dovuto salutare, intrattenere, persino lodare”.
Frequentandolo, mi sono convinto che le sue colpe sono immense, ma ereditarie: egli ha potuto soltanto aggravarle con una certa ben curata ignoranza. Sono secoli Che chiede tuttavia di conoscere gli articoli di quell’armistizio che fu firmato in suo nome da un venerato plenipotenziario, dopo la sconfitta che gli inflisse la Coscienza. Da quel giorno, vive alla giornata.
Arrivato ultimo al gioco delle nazioni, era fatale che vi perdesse quel po’ di prudenza e di criterio che aveva messo in serbo coi secoli. Avrebbe potuto vivacchiare con la vendita delle indulgenze, preferì lavorare come gli altri, e ben presto rimase disoccupato. Non aveva confini e li volle, per accorgersi che è quasi impossibile difenderli, giacché i popoli vicini, per non rovinare le loro colture agricole, usano darsi battaglia sul territorio del suo paese, che offre vasti campi operativi, specie nelle regioni settentrionali.

di Ennio Flaiano

ENNIO FLAIANO

Ennio Flaiano nasce a Pescara, il 5 marzo 1910. Ha studiato architettura, passando poi al giornalismo ed alla critica cinematografica e teatrale: nel 1939 è recensore per il settimanale "Oggi", quindi collabora a "Documento", "Cine Illustrato", "Mediterraneo", "Star", "Domenica", "Il Mondo". La sua attività di sceneggiatore inizia con "Pastor Angelicus" (1942) di Romolo Marcellini, ed è destinata a continuare, parallela alla sua carriera di scrittore, con non minore fortuna.
Come narratore, esordisce nel '47 con il romanzo "Tempo di uccidere", vincitore del Premio Strega: dal libro verrà tratta nel 1989 una versione per il cinema, diretta da Giuliano Montaldo.
Mentre i suoi articoli di critica, cronaca e costume proseguono senza interruzione sulle pagine di "L'Europeo", "La Voce Repubblicana", "Il Corriere della Sera", egli firma innumerevoli soggetti e sceneggiature che trovano realizzazione in oltre 60 film: nella sterminata mole di titoli, ricordiamo "Roma città libera" (1948), "Guardie e ladri" (1951), "La romana" (1954), "Peccato che sia una canaglia" (1955), "Le notti di Cabiria" (1957), "La dolce vita" (1960), "La notte" (1961), "Fantasmi a Roma" (1961), "La decima vittima" (1965), "La cagna" (1972).
In particolare, il rapporto con Fellini - cominciato nel '51 con "Luci del varietà" e durato sino a "Giulietta degli spiriti" (1965) - si rivelerà intenso e assai fruttuoso: l'ironia, lo sguardo lucido e impietoso del Flaiano gioveranno non poco alla riuscita di molte pellicole del regista riminese, da "Lo sceicco bianco" (1952) a "I vitelloni" (1953), da "La strada" (1954) a "Il bidone" (1955), fino a quel capolavoro che è "Otto e mezzo" (1963).
Tornando alla vicenda letteraria del Nostro, meritano menzione i due volumi di racconti e satira "Diario notturno" (1956) e "Una e una notte" (1959), cui faranno seguito "Il gioco e il massacro" (1970, Premio Campiello), i 5 testi teatrali di "Un marziano a Roma e altre farse" (1971) e "Le ombre bianche" (1972).
Nei due tomi di "Opere. Scritti postumi" ed "Opere 1947-1972" della collana Classici Bompiani (1988 e 1990) sono confluiti i suoi testi letterari, mentre un'ampia scelta dei carteggi è stata riunita in "Soltanto le parole" (1995).

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