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mercoledì 23 settembre 2009

Mar Jonio, 21 settembre 1987: ultimo giorno di luce per la Rigel

Una delle navi dei veleni potrebbe avere lo stesso nome di una stella. Rigel

La stella più luminosa della costellazione invernale del guerriero Orione che era uomo prestante e, ironia della sorte, figlio di Poseidone, dio del Mare, con il dono di camminare sulle acque. Invece la nave oggi è ancora un relitto ben nascosto sotto le acque joniche. La stella, e la costellazione che domina, sorgono ancora molto tardi e non saranno visibili nella volta celeste notturna prima dell'inverno, quando non rimarranno più avvolte nella luce del sole che avanza. Avvolta nell'oscurità è invece l'imbarcazione che porta questo nome giacente dal 21 settembre 1987, con ogni probabilità, negli abissi del mar Ionio a poco più di mille metri di profondità, venti miglia a largo di Capo Spartivento, in acque internazionali.

Oltre venti anni fa, infatti, sulla costa jonica della nostra provincia una nave colava a picco mentre il mare era piatto, come spesso accade in settembre da queste parti. Nel mar Jonio un nave che affonda, affonda bene perchè la profondità delle acque è peculiarità tale da essere appetibile per chi deve nascondere qualcosa che non deve essere trovata. Appetibile per faccendieri senza scrupoli e un affare da non perdere per Natale Iamonte che deve solo acconsentire, consigliare il punto giusto e rendere tutto inconoscibile. Nessun Sos venne mai lanciato. Non c'è n'era alcun bisogno perchè era tutto organizzato. Tutto andava secondo i programmi e, dopo l'affondamento, ad attendere l'equipaggio c'era una nave jugoslava diretta in Tunisia. Da allora di ogni suo componente si sarebbero perse le tracce. Le coordinate fornite alla compagnia assicurativa Lloyd's erano errate dunque nessun relitto venne mai individuato in fondo al mare e dunque nessun carico passò mai al vaglio di addetti ai lavori. Solo una condanna per truffa emessa dal tribunale di La Spezia nei confronti di caricatori e armatore, perchè provato fu il naufragio doloso dell'imbarcazione. L'incognita, in tutti questi anni, ha continuato ad avvolgere l'equipaggio, il relitto, il carico. Inoltre fu insolita anche la durata del viaggio del cargo che, partito dal porto di Massa Carrara il 9 settembre 1987, avrebbe impiegato 12 giorni per percorrere 800 miglia e raggiungere il mar Ionio, con presunte soste in mare aperto, non risultando un loro approdo successivo in altri porti italiani. Nessun porto di destinazione. Nessuna sosta intermedia. Noto solo quello di partenza, in Toscana, a Massa Carrara. E il carico? Secondo le risultanze investigative rigorosamente diverso da quello dichiarato al personale portuale, evidentemente non importante per nessuna rotta commerciale lecita, visto che nessuno lo ha reclamato, e invece destinato ad essere dimenticato e a giacere per decenni in fondo al mare, nascosto, sconosciuto. Ma con ogni probabilità pericoloso.

Un carico ancora oggi ignoto ma su cui il sospetto di nocività si è radicato nell'ambito dell'inchiesta seguita all'esposto di Legambiente e che il procuratore reggino Francesco Neri ha condotto, con la preziosa collaborazione del capitano Natale De Grazia, negli anni Novanta. Un'inchiesta archiviata per impossibilità di proseguire le indagini in assenza del relitto ma che ha evidenziato alcuni elementi di indubbia gravità. Alla data dell'affondamento corrispondeva una nota inequivocabile - lost in ship - riportata sull'agendina di Giorgio Comerio, industriale lombardo ideatore di un sistema di interramento sottomarino di siluri contenenti rifiuti tossici. Una nota che già allora orientava le indagini alla conclusione più drammatica. La nave trasportava rifiuti pericolosi e rientrava tra le cinquanta affondate nel Mediterraneo in cambio di profumate ricompense alle cosche dei luoghi. Una conclusione prossima alla verità. Troppo vicina ad una verità scomoda e quindi altamente pericolosa. Lo sa Anna Vespia, moglie di Natale De Grazia, colpito mortalmente da un malore improvviso e inspiegabile mentre si dirige a La Spezia, porto di importanza strategica per questi traffici, per acquisire informazioni sulla Jolly Rosso, partita da lì prima di arenarsi in Calabria nel dicembre del 1990, e per acquisire i piani di carico di 180 navi sospette. L'inchiesta giudiziaria reggina, infatti, aveva nel proprio specchio di indagine lo spiaggiamento a Formiciche di Amantea della Jolly Rosso su cui ha indagato per anni anche il procuratore paolano Francesco Greco.

Oggi Legambiente chiede con forza che si torni ad indagare sull'affondamento della motonave maltese Rigel, affondata 22 anni fa. Oggi, in ragione del tasso del Cesio 137 registrato nel torrente Oliva, in corrispondenza del quale si sospetta siano stati interrati i fusti contenuti nella Jolly rosso arenatasi a largo di Amantea nel 1990, per non essere riuscita ad affondare come previsto o forse diretta con i fusti pericolosi in Libano, il sospetto di presenze tossiche radioattive in Calabria permane. Oggi quello stesso sospetto si ingigantisce in ragione dell'alto tasso di mortalità per patologie oncologiche accertato nell'area radioattiva lungo la strada provinciale 53 tra i comuni cosentini di Aiello Calabro e Serra d'Aiello, in ragione del ritrovamento a 483 metri di profondità del relitto Cunsky a largo di Cetraro, in provincia di Cosenza, nell'ambito del nuovo corposo filone di indagine del procuratore capo di Paola Bruno Giordano. Si spera non sia troppo tardi per arginare il danno che quei fusti in fondo al mare dal 1992 potrebbero aver causato alla salute del mare, dell'ambiente e delle persone. Se fosse radioattivo il contenuto dei fusti, come parrebbe dal tipo di blindatura, solo il tasso di nocività e la capacità di contaminazione delle sostanze conservate in fondo la mare per decenni potrebbero fornire la risposta sulle conseguenze. Si cercano ancora gli altri due relitti: Yvonne A e Voriais Sporadais indicati dallo stesso pentito Fonti già nel 2006 e affondati rispettivamente a largo di Maratea e di Genzano. Oltre trecento bidoni contenenti scorie radioattive viaggiavano, secondo le dichiarazioni del pentito, su quelle tre imbarcazioni.

I racconti e le testimonianze si incrociano e si sovrappongono. Parla Francesco Fonti, ex narcotrafficante di Locri e collaboratore chiave delle diverse indagini; ne parla nel 2002 al cospetto degli inquirenti di Catanzaro e Potenza e nel 2006 al pm antimafia di Catanzaro Vincenzo Luberto. Parla Gianpietro Sebri, portaborse del socialista Luciano Spada, davanti alla Commissione parlamentare sull'omicidio Alpi-Hrovatin nel 2004. Ma ancora prima, nel 1995 al pubblico ministero reggino Francesco Neri, di navi dei veleni parlano già Renato Pent, industriale lombardo, Aldo Anghessa, spesso coinvolto in operazioni di intelligence internazionale, e Marino Ganzerla, imprenditore mantovano, raccontando di discariche marine come fulcro di interesse di una attiva lobby affaristico criminale italiana e di truffe alle compagnie assicurative. Le indicazioni rese erano e sono sovrapponibili, dunque attendibili. In particolare sarebbe stato lo stesso Fonti a riferire circa le trattative tra Giorgio Comerio e Natale Iamonte per l'affondamento della Rigel.

Nonostante ciò nessun sostegno venne prestato alle indagini, come di recente dichiarato dal sostituto procuratore generale Francesco Neri, allora pubblico ministero, mentre a Reggio Calabria torna l'incubo del carico mai rinvenuto della Rigel e del relitto mai individuato. Nessuna sonda venne inviata negli abissi dello Ionio, ha continuato il procuratore Neri, per la ricerca di un relitto che non poteva non esserci. L'affondamento era avvenuto, come certificato dall'Imo, Istituto dell'Onu competente per la Sicurezza nella Navigazione. Nessuna fiducia venne riposta nelle ricerche in mare della Rigel e delle altre imbarcazioni. Forse perchè Fonti, adesso in attesa che gli sia rinnovato il programma di protezione, ha parlato delle navi a perdere solo nel 2002. E sull'utilizzo di strumentazioni oggi più moderne si è espresso anche Alberto Cisterna, sostituto procuratore nazionale antimafia, che dopo il 1996 si occupò dell'inchiesta sugli affondamento sospetti tra cui rientra a pieno titolo anche quello della Rigel. Con essa anche la Mikigan, affondata il 31 ottobre 1986 a largo di Capo Vaticano, la Four Star affondata il 9 dicembre 1988, la Yvonne A e la Voriais Sporadais affondate nel 1992 rispettivamente a largo di Maratea e Genzano, nel cosentino, la motonave Aso affondata al largo di Locri il 6 maggio 1979. Poi ancora la Monika e la Aouxum. Ma la lista è lunga in Calabria e non solo. Interessate sono anche gli abissi in corrispondenza delle coste siciliane, pugliesi e greche. Lunga come la lista delle procure che hanno indagato. Dalla Toscana alla Liguria. Dalla Basilicata di Nicola Maria Pace alla Calabria di Francesco Neri e Natale De Grazia.

Particolarmente forte sarebbe l'asse Calabria - Somalia dove, occorre ricordarlo senza sosta, esiste una strada di 350 chilometri, costruita da ottanta imprese italiane, che collega Boosaaso e Garoowe. Una strada deserta, che non serve. Anzì forse serviva e serve per nascondere i fusti che fanno ammalare la gente, quelli che per essere interrati hanno bisogno che si indossi una tuta bianca. Quelli che hanno un teschio marchiato sopra. Quelli che Ilaria Alpi e MIran Hrovatin, giornalista del Tg 3 e cineoperatore, avevano denunciato prima di quel crudele giorno - 20 marzo 1994 a Mogadiscio - in cui i loro corpi vennero crivellati da colpi di arma da fuoco. Forse occorre anche ricordare che il certificato di morte di Ilaria Alpi era in possesso di Giorgio Comerio. E non ve ne sarebbe ragione se non fossimo in presenza di un intreccio aggrovigliato che non tollera intrusi e cercatori di verità.

Forse occorre ricordare che il tempo è prezioso. Prezioso come le verità che non ne hanno più, come le vite ormai spezzate che non chiedono più nulla all'attesa se non quella stessa verità. Prezioso come le vite il cui futuro è legato a quelle stesse verità.
Anche quest'anno Rigel sorgerà in cielo. Speriamo non sia l'unica Rigel a mostrarsi e ad essere mostrata.

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