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sabato 12 settembre 2009

Videocracy intervista ad Erik Gandini



La censura del trailer di Videocracy nasce dal timore che aumenti l’impatto sul pubblico del documentario denuncia del regista italiano che lavora in Svezia. Erik Gandini, autore di Videocracy, coglie il collegamento tra la sua opera precedente Gitmo, dedicata al carcere di Guantanamo e l’inchiesta sul rapporto tra media e potere nel nostro paese. “In entrambi i casi – spiega Gandini – con un sorriso lasciano trasparire impressioni e cancellano i fatti”.

Noemi rilascia un’intervista a Sky e dichiara “non ho paura di nulla”. Gli italiani che descrivi in Videocracy forse dovrebbero recuperare un po’ di sobrietà, di ritegno…

“Io ho paura. Lei non ha paura? Io ho paura. Questa situazione mi fa paura. Questo modo di lanciare così innocuo, così divertito, così divertente, così intrattenente. Nel film vedi questo mondo che non vorrebbe mai raccontare di sé stesso. Ha il monopolio di se stesso. Si racconta da solo. Da filmaker. Voglio raccontare la mia versione delle cose. Mi prendo la libertà di farlo. Con lo stesso linguaggio di questo mondo, con le immagini, con il cinema”.

Erik, a 20 anni sei andato in Svezia. Hai trascorso gran parte della tua vita professionale all’estero. Il tuo punto di vista è sicuramente…esterno rispetto al nostro. Tra le cose che ti fanno paura c’è anche quest’immagini che proiettiamo all’esterno?

“Non sono certo straniero. Sono Italiano. Né si può dire in esilio chi vive in Europa. Certamente ho un’esperienza in più in Svezia. I miei amici. Ti assillano di domande sull’Italia e non capiscono. Sempre domande spesso incredule, a volte divertite, a volte un po’ sprezzanti. L’Italia fa un po’ ridere. Videocracy l’ho fatto per un pubblico straniero. Il progetto è così. L’ho fatto per i miei amici in Svezia per far veder che non c’è niente da ridere”.
“Queste prospettive esterne. Il fatto di confrontarsi con una visione diversa, con un altro punto di vista, fa sempre bene. Rispetto a questo mondo dello spettacolo ci vorrebbero molti più interventi da un diverso punto di vista”.

C’è un dato di fatto. Negli ultimi mesi tre direttori di grandi testate (Corriere della Sera, Stampa e Avvenire) sono stati messi all’indice da Berlusconi o dai suoi giornali non perché schierati contro Berlusconi ma semplicemente perché non affidabili come vorrebbe: tutti e tre son cambiati.

“In realtà lui si preoccupa dell’Unità. E’ come dire micro-management Quando personaggi tanto potenti si preoccupano di problemi tanto irrisori… la stampa in Italia non lo minaccia più di tanto. A livello di pubblico incidono relativamente poco…
Prendiamo il trailer che è stato censurato. E’ evidente che questa televisione non vuole che si parli della televisione con il linguaggio della televisione ma da un altro punto di vista. Ci deve essere il monopolio, l’assoluto controllo di quello che appare in televisione. Berlusconi lo ha anche dimostrato negli ultimi giorni anche con le minacce alle testate. Anche nei confronti di giornali stranieri. Questa guerra contro la libertà di espressione è importante”.

Ecco. Il trailer. Cosa può aver costretto Rai e Mediaset a censurarlo?

“Io non so. Uno dei trailer vedi immagini di vecchi programmi Mediaset con tette e culi, per altro proiettate molto più rapidamente dell’originale, che finiscono con Berlusconi che applaude ad una parata militare. Se scrivessi il messaggio di questo trailer. Una frase. Il vestito di Berlusconi è alla base del suo potere odierno. E’ una frase che se la scrivi non è una novità, anche se la scrivi mille volte non fa effetto. Se descrivi lo stesso concetto con il linguaggio della televisione, in trenta secondi, con lo spot da trenta secondi, esprime la più potente forma comunicativa. Se esprimi le stesse cose con le immagini anziché le parole e le inserisci in un contesto televisivo diventa pericoloso. “Penso che nel mio lavoro in particolare, riappropriarsi di questo linguaggio, per me, per la mia vita… è importante”.

A mio parere c’è un piccolo scoop in tutto il tuo impianto che narra di videocrazia. La suoneria del telefonino di Lele Mora (si sente faccetta nera mentre appaiono simboli nazisti e fascisti, ndr.).

“Non so se sia uno scoop. Più che un fatto ideologico, mi sembra vi sia una questione di non etica, di non valore. Non credo che Lele Mora sia un fascista convinto che legge i libri sul fascismo. Che fa propaganda. Fa invece parte di un sistema di disvalori come dice Moretti. E’ proprio che non importa assolutamente avere un’etica a questo mondo. Ho pensato a questo sogno di Berlusconi che avrebbe potuto fare dell’Italia, in politica, quello che ha fatto con le sue società, con il successo del Paese. Quel che accaduto, invece, è che il berlusconismo ha portato questa cultura senz’etica di questo mondo della televisione commerciale dentro la politica e dentro tutto il Paese. In questo senso la suoneria di Mora è sintomatica”.

“E’ un mondo che propone pochissimi valori. Insomma, quattro cose: il successo personale, l’apparenza, i soldi, l’egoismo. Questo è riconducibile alla figura di Berlusconi. Se parli di scoop, penso più alle dichiarazioni del regista del Grande Fratello, Fabio Chiatti…”

Qualcosa riunisce le figure di Berlusconi, Mora e Corona.

“Il film è raccontato in modo cinematografico. Chiaro che c’è un legame tra loro tre ma con una gerarchia. Ovviamente. C’è un legame generazionale. Di generazioni diverse che però in qualche modo ripropongono una certa cultura e la rifanno per il presente”.

Fabrizio Corona che fa la doccia restituisce in qualche modo l’impressione di qualcosa o qualcuno che lustra il nulla. Rappresenta il nulla e lo rappresenta al meglio.

“Se hai avuto quest’impressione, ne sono contento”.

Ma quando li riprendevate, non si rendevano conto dell’immagine che stavano offrendo? Persino nel paradosso che riuscivano a rappresentare con quelle dichiarazioni, quegli atteggiamenti. Il lettone bianco piuttosto che la doccia nudo?

“Nel loro mondo il documentario penso che non esista come forma. Esistono i programmi grossi, di grande impatto, in televisione. Esistono questi programmoni che loro fanno con gli spettatori. Il mio progetto per quella televisione non li interessava più di tanto…”.

Esatto. E’ l’impressione che si coglie guardando il film. Che dessero queste interviste come una… concessione…

“Sono veramente curioso di loro. Mi interessavano proprio come persone. Li ho potuti incontrare a fatica. Fabrizio è molto difficile… è impegnato. Il mio progetto è marginale nella sua vita”.

Un altro personaggio del tuo documentario è quel ragazzo che vuol diventare qualcuno sulla scena. Rappresenta molto l’italiano medio. Il giovane italiano medio.

“L’ho visto ad un casting. Un provino per un programma televisivo. E’ molto sincero, molto tenero. Molto diretto, in modo molto poco intellettuale. Quando dice che la televisione ti pone dieci gradini più in alto degli altri. Che quando vai in televisione diventi immortale. Quando è disposto a fare tante cose per andare in televisione capisci che per lui non è un hobby. E’ sul serio. Ha investito. Nella sua vita di operaio in fabbrica, al tornio, quel mondo è il paradiso. Però è anche solo. Tutti questi protagonisti sono tutti soli. Hanno un progetto assolutamente individuale. Se riesce va bene a loro stessi. Il concetto è: i soldi fanno bene a te.
“Non c’è niente di collettivo, di altruista in questo. In questo sogno in cui tutti sono avvolti sono completamente soli. Ed è un po’ la cosa che vivo dell’Italia di questo momento. Il messaggio che viene dall’alto è quello di pensare a se stessi, alla propria famiglia, ai propri amici e basta. Soprattutto a se stessi. Non c’è un progetto collettivo in atto. In Svezia si respira in modo diverso. Ci sono i progetti collettivi della società. L’ecologia, la parità dei sessi. Vanno a prescindere dall’appartenenza politica. In Italia questo manca moltissimo. Il berlusconismo conferma questo egoismo di base”.

Erik, nel tuo lavoro di documentarista sei passato da Guantanamo al fortino dei media di Berlusconi. E’ sempre un problema di libertà.

“Il legame tra Guantanamo e le televisioni di Berlusconi è più vicino di quanto si pensi. Guantanamo è un posto totalmente aberrante ma che viene raccontato da loro giocando moltissimo sulle impressioni. Sull’impressione che lì tutto vada bene. Lì, ci sono queste guide bionde con gli occhi azzurri, molto gentili, ti fanno fare un giro della base per tre giorni, in albergo. Le guide rappresentano una facciata esterna molto innocua. Mi rendo conto che così come è stato raccontato Guantanamo, assolutamente sulle impressioni, non sui fatti, si percepisce l’idea che va tutto bene a livello di opinione pubblica. La stessa cosa c’è in Italia, fortissima, con questa cultura di videocrazia in cui le impressioni sono tutto. Basta dare i messaggi emotivi… tipo: Noemi era semplicemente un rapporto di padre buono che si preoccupa di una ragazza giovane che tutto si risolve. I fatti non contano, solo le impressioni.

Erik, sei nato a Bergamo. Quando hai scoperto di essere nato in Padania? E che sensazione hai provato?

“L’ho scoperto negli anni in cui andavo molto in Bosnia. Ho fatto i miei primi film a Sarajevo, in Bosnia nel ’94, ’95. Mi sono scontrato con la realtà balcanica totalmente ossessionata dall’idea di popolo. Il mio popolo è diverso dal tuo popolo. Io sono serbo tu sei musulmano. Siamo uguali. Abbiamo la stessa lingua. Siamo imprescindibili. Però siamo più preoccupati dalle differenze tra di noi che dalle cose familiari. In questo contesto che faceva veramente paura, ho scoperto la stessa mentalità nella zona in cui sono nato e cresciuto, nel Bergamasco, dove c’era molto questa rinascita di identità del popolo padano. E… ho avuto paura anche lì”.

pinofinocchiaro@iol.it

di Pino Finocchiaro daArticolo 21

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