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martedì 13 ottobre 2009

La segreta simmetria tra Pd e Pdl

Democrazia plebiscitaria o democrazia costituzionale? Sovrani assoluti o leader eletti e revocabili? Partecipazione alla vita pubblica o mobilitazioni popolari che durano lo spazio d'un mattino? Il nodo più intricato della transizione italiana sembra arrivare finalmente al pettine. Non solo perché Silvio Berlusconi punta alla resa dei conti finale rilanciando il suo progetto presidenzialista di sempre. Ma perché per la prima volta anche nel Pd diventa ineludibile, dietro le schermaglie congressuali sulle primarie e sulla forma partito, il conflitto rimasto troppo a lungo strisciante sul modello di democrazia.
Conviene addentrarsi in questa segreta simmetria fra i due campi del centrodestra e del centrosinistra, non per tracciare equazioni impossibili ma per cominciare a mettere a fuoco le derive trasversali ai due campi che in venti anni hanno lentamente modificato la costituzione materiale del paese, fino a metterla sempre più in tensione con la Costituzione formale. Detto in altri termini: non si tratta di accusare il centrosinistra di complicità dirette con il progetto berlusconiano di Grande Riforma . Se questo progetto - elezione diretta e senza contrappesi del Presidente (del consiglio o della Repubblica), eliminazione dei poteri di controllo e garanzia attraverso la riforma della magistratura e della Corte costituzionale - venisse effettivamente messo in agenda, non c'è dubbio che troverebbe nel Pd, vuoi di Bersani vuoi di Franceschini, un'opposizione compatta. Il punto non è questo ma quest'altro: aldilà - o al di qua - dell'opposizione al progetto eversivo di Berlusconi, quanto della concezione berlusconiana della democrazia è passato nel senso comune del Pd, nella concezione del partito, della sua leadership e del suo rapporto con l'elettorato?
Il conflitto che nel Pd è in corso sulla questione delle primarie va letto in questa chiave, non come una disputa interna sullo statuto del partito e sulla conta dei consensi a questo o a quel candidato, o come un match tra chi ha più a cuore il voto degli iscritti e chi quello degli elettori. Sul piano tecnico, è stato notata più volte, durante il percorso precongressuale, la singolare anomalia di uno statuto che prevede che all'elezione del segretario di un partito possano partecipare a pari titolo gli iscritti al partito stesso e qualsivoglia cittadino, anche elettore dello schieramento opposto. Ma questa singolare anomalia del dispositivo tecnico è la punta dell'iceberg di una filosofia democratica che va presa sul serio e seriamente vagliata non solo per gli esiti futuri, ma per quelli già operanti nel presente.
Fermamente volute dall'ala più «nuovista» prima del Pds-Ds, poi del Pd, le primarie servivano ad «aprire» la forma partito all'elettorato e a dare un'investitura popolare al segretario, automaticamente destinato a diventare anche il candidato premier del partito o della coalizione guidata dal partito. Sottintendono perciò una precisa concezione - bipartitica più che bipolare - del sistema politico, con relativa «vocazione maggioritaria» del Pd, e una altrettanto precisa concezione della forma di governo, incentrata sulla designazione, se non sulla elezione, diretta del premier. Avallano infine una concezione estremamente personalizzata della leadership, che salta la mediazione (e il controllo) degli organismi del partito per fare leva direttamente sul voto popolare espresso una tantum.
Di questa piramide, è evidente a tutti che almeno un pilastro è crollato alle ultime elezioni politiche: la speranza - se non proprio la vocazione - maggioritaria del Pd, attualmente ridotto a un partito del 26%, costretto per necessità se non per scelta a una strategia delle alleanze, e di conseguenza a ipotizzare la scelta di un candidato premier diverso dal suo segretario. Tecnicamente parlando, basta questo a mettere in questione l'intera impalcatura. Ma di nuovo, non si tratta solo di un fatto tecnico, né di alchimie calcolate a freddo. Si tratta - si tratterebbe - di calcolare i danni nel frattempo già provocati dal modello in questione.
Leadership personale affidata all'uso dei media, sradicamento sociale e svuotamento delle strutture del partito, mobilitazioni emotive ma sporadiche dell'elettorato: quanti vantaggi e quanti svantaggi ha portato questa china, nel Pd e in tutto il centrosinistra? Quante possibilità ha questa segreta simmetria col modello berlusconiano - questo «berlusconismo debole», com'è stato definito - di prevalere sull'originale? Quanto ne mima, sulla forma di governo, la prassi di una riforma di fatto della Costituzione?
Sia chiaro, nulla garantisce che contro tutto questo non prevalgano, nel Pd, tentazioni di un ripristino della «vecchia» forma partito e delle vecchie mediazioni e alchimie fra partiti. Una innovazione reale della forma partito, adatta ai tempi, non si vede ancora all'orizzonte. Ma per le innovazioni spericolate già sperimentate è certamente già tempo di un bilancio.

da Indymedia

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