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venerdì 16 ottobre 2009

Lettera all'Italia infelice

di Roberto Saviano - 16 ottobre 2009

La grande mobilitazione sulla libertà di stampa dimostra che c'è un Paese vitale. Ma anche che raccontare la realtà è l'unico modo per difenderlo.


Se la libertà è divenuto tema di dibattito continuo, quasi ossessivo in Italia vuole dire che qualcosa non funziona. Verità e potere non coincidono mai e quello che sta accadendo in questi giorni lo dimostra. Ci sono lezioni che non si imparano, disastri naturali che si ripetono come se la storia non ci avesse insegnato nulla e sacrifici di persone che hanno lottato per rendere questo Paese migliore che vengono dimenticati se non ignorati o peggio insultati. Qualcosa non funziona perché non si vuole capire quello che è accaduto e che quello che avviene tutti i giorni: non si racconta il presente, non si analizza il passato, tutto diventa polemica, dibattito sterile; tutto si avvita in un turbine di gelosie e di guerre tra bande.

La folla di piazza del Popolo mi ha stupito, stordito, emozionato. Non sapevo cosa dire: quella che avevo davanti era una testimonianza incredibile, non ero più abituato a vedere tanti volti e tanto sole. Da quando tre anni fa sono stato messo sotto protezione e costretto a vivere con la scorta non avevo mai potuto sentire un vento di speranza così forte.

Alla gente in Italia non interessa la libertà di stampa, non si preoccupa per il fatto che sia stata offuscata e minacciata da quello che sta accadendo: la libertà di stampa non è importante perché non la si considera necessaria e utile al proprio quotidiano. Non capiscono quello che stanno rischiando, quanto possono perdere. Se ne accorgeranno solo quando riusciranno a vedere con occhi diversi e comprenderanno che oggi sulla maggioranza dei media la vita non viene raccontata ma rappresentata. Ricostruita secondo luci e dinamiche che la rendono finta. Verosimile ma lontana dal reale: come quelle foto ritoccate al computer per cancellare le imperfezioni, far sparire le rughe, il peso del tempo e gli acciacchi del divenire fino a rendere un'immagine diversa delle persone che così rinunciano persino a specchiarsi.

Ci viene raccontata un'Italia allegra, il Paese del bel mangiare e delle belle donne. Ci viene imposto il modello di un Paese spensierato, in fila per partecipare alla fortuna milionaria delle lotterie e per vincere un posto in un reality show. Ma l'Italia oggi è profondamente infelice e triste. Vive nella cattiveria di una guerra per bande generalizzata, di un sistema animato dalle invidie. E la nostra percezione è così lontana dalla realtà da impedirci anche di renderci conto dell'infelicità. Ho sempre dentro il racconto di un immigrato africano che incontrai a Castel Volturno prima delle riprese del film 'Gomorra': "La cosa che odio degli italiani è la loro gelosia, quell'invidia cattiva che hanno nei confronti di chiunque riesca ad ottenere qualcosa. Quando in Francia lavori molto, riesci a guadagnare e puoi comprarti una bella macchina, ti guardano riconoscendo il risultato. Dicono: "Quanto ha faticato per farcela". Invece quando in Italia ti vedono al volante della stessa auto senti subito che ti stanno dicendo "Stronzo bastardo". Non si pongono nemmeno la domanda su quanti sacrifici hai fatto, scatta subito una gelosia che si trasforma in odio.

Questo accade solo nei paesi dove i diritti divengono privilegi, e quindi dove il nemico non è il meccanismo sociale che ha permesso questo, ma bensì chi riesce ad avere quel diritto. Una guerra tra vicini ignorando i responsabili del disastro.

Questo si combatte solo raccontando quello che non va, perché solo raccontando la realtà di quest'Italia arida si potrà sconfiggere l'infelicità: la libertà di stampa è utile per essere felici. Ed è la Carta fondante gli Stati Uniti ad avere dichiarato vita, libertà e ricerca della felicità come diritti inalienabili, tutelati da quella costituzione che per prima ha riconosciuto libertà di culto, di stampa e di parola. La libertà di stampa è fondamentale per potere credere nella felicità.

Prendete le cronache sulla crisi economica che ogni giorno vanno sui telegiornali e su molti giornali. Non viene mai descritta l'infelicità causata dalla crisi. Si parla del dato finanziario macroscopico, illustrato con indicatori spesso incomprensibili. Si parla della chiusura di questa o quella fabbrica ma non si racconta la quotidianità che si distrugge, la vita che si disumanizza. Per chi resta senza lavoro la crisi significa meno vacanze, meno serenità, meno diritti e quindi meno libertà. Ma tutto ciò non viene raccontato.

Prendete le cronache televisive sulla lotta a mafia e camorra. Si dà enfasi solo agli arresti, che sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. Sono un successo degli investigatori, ma devono servire come elemento per comprendere quali complicità e quali risorse alimentano il mondo criminale. Mi ricordo quando venne resa pubblica l'indagine sul Cafè de Paris di Roma, che tutte le guide internazionali elencano come uno dei locali più celebri, un tempio della Dolce Vita: l'unico commento dei rappresentanti istituzionali furono i complimenti alle forze dell'ordine. Nessuno si è chiesto come fosse possibile che - secondo le indagini - la criminalità organizzata si fosse impadronita di uno dei simboli di via Veneto.

La battaglia per la libertà di stampa per quanto mi riguarda è la battaglia per la possibilità di continuare serenamente a scrivere. Le mie parole hanno il senso della libertà come quelle del fotoreporter Christian Poveda ucciso per avere realizzato un film sui narcotrafficanti del Salvador. Si è parlato poco di questo assassinio perché si pensa che la gente sappia già tutto, ma non è così e le mafie sono terrorizzate dall'idea che la gente leggendo capisca. La responsabilità maggiore per chi racconta queste cose è arrivare alle persone: nulla di ciò che scrivo fa paura, loro hanno paura di chi legge. E oggi non solo sono i mafiosi ad avere paura: la minaccia, con forme diverse dalla brutalità dei killer ma non meno pericolose per la democrazia, è diventata generalizzata. Gli italiani stanno rinunciando a quello per cui Anna Politkovskaja in Russia e Christian Poveda in Salvador sono morti: volevano che nei loro paesi ci potesse essere la libertà di scrivere come in Europa. Quello che sta accadendo da noi non rispetta il loro sacrificio.

L'assenza di serenità ci porta a rinunciare alla libertà di stampa. Sapere che la replica al proprio lavoro non sarà una critica, ma un'offesa o un attentato alla sfera privata spinge ad autocensurarsi, convince a non attaccare qualunque autorità, rende schiavi di ogni potere. Dopo l'editoriale di Augusto Minzolini sul Tg1 mi sono chiesto se si rendesse conto di quello che stava facendo. Avrei voluto dirgli che manifestare per la libertà di stampa significava manifestare anche per lui, anche per il suo futuro: un futuro in cui se si potrà ancora parlare del potere, se lo si potrà criticare è perché qualcuno ha lottato per renderlo possibile. Si è scesi in piazza anche per lui, perché lui domani possa continuare a dire quello che dice oggi anche se dovesse cambiare il potere che difende le sue parole.

Il giornalista non è eletto, rappresenta se stesso o la sua testata, rappresenta le sue idee: non deve rispondere della sua vita privata. Non importa quali siano i suoi orientamenti sessuali o la sua religione: fa domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. È diverso dal politico. Il politico deve rispondere della sua vita privata, il giornalista di quello che scrive.

Fare il politico oggi nell'immaginario è fare il lavoro più semplice e comodo. Mi vengono alla mente le famiglie meridionali in cui il figlio più intelligente fa l'imprenditore e quello incapace il politico. Invece la politica dovrebbe essere una responsabilità pesante e difficile, un mestiere duro. Capisco il fastidio che può avere un politico a essere esaminato nella sua vita privata, ma questo è l'onere della sua missione, fa parte della democrazia.

Oggi bisogna ricalibrare l'immaginario del politico, ritornare a una figura che fa una vita dura e poco divertente. La politica come servizio al Paese e ai cittadini, non come privilegio. La politica è vivere nella difficoltà. Penso al rigore morale di Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e Giorgio La Pira, restano figure di servizio alle istituzioni, nonostante i loro ideali e la loro fede religiosa.

Sono cresciuto al fianco di uomini di destra che non avrebbero mai sopportato questo clima di intimidazione e crudeltà, così come ormai la divisione e la rivalità sono così diffuse che impediscono alla sinistra ogni forma di aggregazione vera. Ogni possibilità di parlare al cuore delle persone. Oggi invece chi racconta cose scomode, chi descrive la realtà infelice dell'Italia viene accusato dalle massime autorità politiche di gettare discredito sul Paese agli occhi del mondo. Chi fa del male all'Italia: chi denuncia i misfatti o chi li realizza? Anche nel caso del film 'Gomorra' di Matteo Garrone c'è stata l'accusa di tradimento, di vilipendio alla nazione. Il film nasce per essere diverso dal libro. È uno sguardo totalmente antropologico, osserva il livello zero della realtà campana. È molto diverso dal libro, ma non ne tradisce lo spirito: sono complementari. È un film che racconta la realtà senza deformarla. Il territorio è fotografato come nessuno aveva mai fatto nel cinema italiano: le Vele di Secondigliano, le discariche di rifiuti tossici, le fabbriche clandestine, i paesi senza speranza.

C'è una scena registrata dalle telecamere sul set. È un capolavoro che dovrebbe entrare anche nel film, un trattato di estetica cinematografica. Ciro e Marco, i due attori avevano paura di essere sparati sul serio dall'uomo che impersonava il killer: le armi erano a salve ma la fiammata troppo ravvicinata avrebbe potuto comunque ustionarli. La sceneggiatura non prevedeva un ruolo per quell'uomo che lì tutti conoscevano. Ma lui ha fatto irruzione sul set: "Ci faccio una figura di merda se io che nella vita ho fatto davvero queste cose non ammazzo nessuno nel film!". I due ragazzi erano perplessi e spaventati: "Ma perché tutti ci vogliono uccidere?". Paura vera, fissata nelle telecamere. Ed è così che si è arrivati a modificare il finale con tanti attori che fanno fuoco su Marco e Ciro.

Io ricordo le vere vittime, quei due adolescenti assassinati per la loro sfida inconsapevole e irrinunciabile ai clan casalesi. Per questo la sceneggiatura non ha voluto mitizzare la mafia, ma descriverla, raccontarla, smontare la sua quotidianità. È questa la novità, la forza di 'Gomorra'. Quello che rende bello Michael Corleone è che si tratta di uomo tormentato, affascinante, potente che ha le sue regole: lo disprezzi ma ti identifichi con lui. In 'Gomorra' questo non doveva accadere. Alla fine del film ti doveva restare addosso il puzzo delle pesche avvelenate dalle discariche clandestine, la miseria della vita di chi aspetta la mesata del camorrista.

'Gomorra' ha raggiunto l'obiettivo. È stato molto visto in tutto il mondo, persino negli Usa hanno compreso la potenza di quella visione 'ground zero'. È stato un film inaspettato perché in molti paesi si attendeva 'Gomorra' come un mafia movie dai toni compiacenti. Non è stato così e si è fatto amare per la sua diversità. Un'esperienza lisergica è stato vederlo nel cinema di Stoccolma accanto alla sede dell'Accademia dei Nobel. Feceva un freddo cane. Ero insieme a Salman Rushdie e in sala c'erano centinaia di svedesi che si sorbivano il dialetto casalese o napoletano senza mai distrarsi, catturati dalle scene di Garrone.

Raccontare la realtà non significa infangare il proprio Paese: significa amarlo, significa credere nella libertà. Raccontare è l'unico dannato modo per iniziare a cambiare le cose.

da: L'Espresso

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