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sabato 3 ottobre 2009

Raccolta clandestina


Questo è un articolo del 13 agosto de Il Manifesto che descrive la situazione dei braccianti extracomunitari in un altro paese del foggiano; dopo Palazzo San Gervasio abbiamo scoperto Rignano Garganico.Di seguito un articolo più recente -16 settembre- apparso sulla Gazzetta Del Mezzogiorno. Le situazioni di terzo mondo si ripetono ovunque quando i soggetti interessati sono invisibili, bisognosi e impotenti.

La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, vicino Foggia, il lavoro prosegue come ogni anno. Contando sulle tante braccia di immigrati che per lavorare accettano qualsiasi condizione

di Giusi Marcante - FOGGIA
Baracche di cartone e nylon tenute insieme da fasce di plastica nera, le stesse che si vedono abbandonate sui campi dove fino a qualche giorno fa c'erano i pomodori. La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, una decina di chilometri a nord est di Foggia, la raccolta prosegue come ogni anno.Contando sulle tante braccia di immigrati senza documenti che per lavorare accettano qualsiasi condizione e si spostano da una parte all'altra dell'Italia, di raccolta in raccolta in raccolta, di sfruttamento in sfruttamento. La nuova legge non rappresenta un problema per le centinaia di ragazzi che affollano «il ghetto» di Rignano. «Quando hai fame non può essere questa la tua preoccupazione», racconta più di uno. E d'altronde non sembra essere un problema neanche per i «caporali» che lucrano sui magri guadagni dei raccoglitori, e per le aziende dei produttori perché il pomodoro va raccolto altrimenti marcisce. Da fine luglio agli inizi di settembre c'è bisogno di più manodopera possibile.

Lo chiamano il ghetto e una ragione c'è. E' un alternarsi continuo di costruzioni in muratura semi diroccate e di baracche dove di solito vanno ad abitare gli ultimi arrivati. Se passate da queste parti vedrete diversi uomini che spingono dei passeggini, non ci sono neonati dentro anche se c'è qualche bambino che abita tra le baracche. Servono a caricare il bidone dell'acqua, bene tra i più preziosi e che il Comune ha portato sotto forma di cisterne di plastica dopo che i sindacalisti della Flai Cgil sono andati a denunciare che lì non c'era neanche quello. Qualcuno gode del lusso di una casetta tutta (o quasi) per sé. E' del «capo nero», qui chiamano così il caporale non italiano, sul muro qualcuno ha scritto con della pittura rosa e verde «Nigeria». Le stime dicono che al ghetto ci sono un migliaio di persone, sono tutti africani, quasi tutti maschi. Qualche ragazza c'è, anche lei dalla Nigeria: «Non vogliamo avere niente a che fare con loro», spiega un ragazzo del Ghana alludendo a un modo di guadagnare che lui non condivide. E' l'11 agosto: martedì pomeriggio e sono circa le sei al ghetto, molti lavoratori sono rientrati dalla campagna. Chi ha avuto la «fortuna» di lavorare tutto il giorno può aver passato anche dodici o quattordici ore in campagna. Ha riempito una decina di cassoni con i pomodori. Il cassone è il grande contenitore di plastica che poi finisce dritto sul camion, i tir arrivano sul campo e caricano direttamente per poi scaricare alle aziende di trasformazione. Sulla strada da Foggia a Salerno in questi giorni è una processione continua di camion ma da due anni un imprenditore salernitano ha impiantato qui un'azienda che trasforma l'oro rosso. Contraddizione tra le contraddizioni: a Foggia non esisteva una fabbrica che lavorava il pomodoro. Tra i cassoni il più diffuso è quello da tre quintali. Al lavoratore immigrato vanno tre euro, a volte tre euro e mezzo su cinque complessivi: questo significa che il caporale succhia due euro da ogni cassone.

Dhembelè, così dice di chiamarsi, non ha i documenti. E' un ragazzo di 23 anni e viene dal Mali. Martedì ha iniziato a lavorare alle 12, ha fatto solo mezza giornata. Meglio di Lafya che ha 30 anni e viene anche lui dal Mali: «Il n'y a pas de travaille aujourd'hui». Non c'è lavoro ed è rimasto a terra, come lui altri ragazzi che abitano in una costruzione accanto ad una chiesa vuota sempre nella campagna di Rignano. Non è il ghetto ma la situazione non è diversa: niente elettricità, niente acqua corrente. In quella che forse poteva essere la canonica ci sono alcune tende, in un'altra stanza ci sono centinaia di scarpe e alcuni panni stesi ad asciugare. I ragazzi, qui ci abitano in centocinquanta, giocano a dama. Due sono appoggiate per terra, come pedine hanno i tappi delle bottiglie d'acqua, quelli bianchi e quelli rosa. «Non ho i documenti - spiega Lafya - sono in Italia dal 2007, quando finisce il lavoro qui io torno a Rosarno (in Calabria dove c'è la famosa cartiera trasformata in baraccopoli, ndr) e poi inizio la raccolta dei mandarini». L'irragionevolezza del reato di clandestinità sprofonda negli occhi di questo ragazzo che si sente in una trappola da cui crede di non poter uscire «in Italia se vuoi lavorare devi avere i documenti e se non hai i documenti niente lavoro». La raccolta per questo 2009 è un po' tardiva, il tempo ha fatto sì che i pomodori stiano maturando con un lieve ritardo. Il boom del lavoro è atteso dalla settimana prossima. Ma è numerosa anche l'offerta di braccia e quel che emerge è la sua diversificazione.

«Quello che sta avvenendo nelle campagne è anche una guerra senza confini tra poveri - spiega Daniele Calamita, segretario della Flai Cgil di Foggia - oltre ai lavoratori di origine africana ci sono i comunitari: romeni, bulgari, polacchi e albanesi. Per loro ci sono maggiori possibilità di lavoro perché non hanno problemi con i documenti». Gli africani quindi sono l'ultimissimo gradino di questa piramide di sfruttamento ma Calamita fa parlare i dati per fornire un altro segnale che è arrivato dalle campagne del foggiano. Dopo l'estate del 2006, le inchieste giornalistiche (come quella di Fabrizio Gatti) che hanno svelato la realtà della piana della Capitanata ci sono stati maggiori controlli. A suo tempo l'ex ministro Giuliano Amato aveva addirittura emanato una circolare in cui esortava i questori a rilasciare permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale agli stranieri che denunciavano i loro sfruttatori. I numeri raccontano che dai 4500 immigrati iscritti negli elenchi anagrafici dell'Inps nel 2006 si è passati ai 16 mila del 2008. «Ma per la maggior parte di questi lavoratori i padroni hanno fatto figurare alla previdenza solo pochi giorni di lavoro, due o tre - prosegue il segretario - è evidente che non è così. Per questo dico, il numero dei lavoratori iscritti è aumentato ma per loro quante giornate verranno denunciate?». I produttori si lamentano, dicono che il pomodoro viene pagato una miseria. «Le aziende parlano di nove centesimi al quintale ma i soldi che vengono dati ai lavoratori sono sempre quelli anche quando il pomodoro valeva molto di più».

Nelle campagne non ci sono solo invisibili, si possono trovare lavoratori che hanno i documenti e ci sono diversi rifugiati politici. Assicura di avere il permesso di soggiorno anche Prince, trentenne del Ghana, che con un quaderno «coordina» il lavoro di altri connazionali in un campo sul Gargano non lontano da Lesina. «Vengo da Milano, ho lavorato in una fabbrica che adesso ha chiuso - racconta - adesso sono qui ma io vorrei tanto poter lavorare in una radio». Al ghetto intanto nel tardo pomeriggio arriva un camioncino stipato di gabbie di plastica dove ci sono circa duecento polli, vivi. Attorno al camion si accalca una ressa di persone, è una lotta autentica non per prendere e portare via ma per acquistare. Un pollo, un euro e ogni ragazzo ha in mano il denaro. In pochi minuti vengono venduti tutti ma all'italiano con occhiali e cappellino che è stato sommerso da questi ragazzi non va bene. «Non è possibile lavorare così, non si può in questo modo, quanti mi saranno fuggiti senza pagare. Io lo so, qui in mano non ce li ho tutti i soldi che avrei dovuto avere. Io ve lo dico se si continua così non torno più». Il venditore di polli queste parole le pronuncia metà in italiano, metà in dialetto. Ma non è un problema, per chi parla inglese e francese e mastica l'italiano comprendere quello che dice un foggiano arrabbiato non è difficile. «Hai ragione non succederà più» assicura un abitante del ghetto. I polli intanto sono spariti dentro le baracche, qualcuno prende le pietre e le dispone a cerchio. Poi prende una pentola con dell'acqua e accende il fuoco. Anche qui a Rignano il sole si prepara a tramontare.

il manifesto 13 agosto 2009
http://www.ilmanifesto.it


Inferno per immigrati a Rignano Garganico

di GIANLUIGI DE VITO Mercoledì 16 Settembre 2009
Nessuno s’aspettava il ghetto dei nuovi schiavi alle porte della città. E invece succede che la vergogna mette tenda anche sotto gli occhi dei residenti. Via Pitagora, Trinitapoli: il giorno dopo la scoperta ci si interroga. Un buco come water.

Dovevano dividersi quel buco un centinaio tra romeni e bulgari. 68 tende, 112 neocomunitari che lavorano come stagionali nella vendemmia e nella raccolta degli ortaggi e che per abitare in quel «lager» pagavano 15 euro a settimana. Come è possibile? I carabinieri hanno denunciato il pensionato proprietario del suolo, ma questo non basta a dare risposte.

Il Foggiano, la nuova provincia della Bat e il Nord Barese non si liberano del marchio infame di terre ostili che si prestano a impiantare township. Poco più di cinquanta chilometri più avanti e un altro ghetto a Rignano, questa volta più noto, ripropone scene che vorresti appartenessero al passato remoto. E invece è la Pummarò Valley. Più feroce che mai. È il crocevia di manodopera negra. È la più grossa africopoli rimasta a ridosso di Foggia. Le altre sono più in là, verso la costa garganica, nella zona di Manfredonia e nella valle dell’Ofanto, a Cerignola.

A Borgo Tre Santi, vicino a Cerignola, appunto, la Regione ha fatto nascere un albergo diffuso. Così pure a Torre Guiducci, a pochi chilometri da Foggia, sulla direttrice per Manfredonia. Si tratta di ostelli per stagionali. Altri ne sono previsti, ma per ora sono rimasti sulla carta. «Ospitano poco più di 40 immigrati, solo col permesso di soggiorno. Troppo poco», tuona Daniele Calamita, segretario generale della Flai provinciale di Foggia.

I numeri del 2009 che lo stesso Calamita ritraggono bene la schiavitù che non passa in archivio: 4mila i soggiorni autorizzati dal decreto flussi per gli stagionali. A questi vanno aggiunti 7mila neocomunitari (romeni, bulgari e georgiani in testa) e almeno 5mila irregolari. Quasi tutti sono richiedenti asilo in attesa della decisione della commissione territoriale per i rifugiati o con un diniego verso il quale hanno fatto ricorso. E comunque l’esercito dei Pummarò Valley quest’anno tocca una quota poco al di sotto dei 20mila. Erano di più lo scorso anno quando le giornate erano meglio retribuite. La crisi pesa.

«Ma la pagano i più deboli, i clandestini», incalza Calamita. Anche qui basta farsi sorreggere dalle cifre per capire. Gli ettari destinati a pomodoro sono stati 25mila quest’anno, in Capitanata; 30 mila nel 2008. Gli agricoltori giustificano la contrazione dicendo che è sempre più costoso assicurare un prodotto che non vada a male. Troppi virus, e troppo cari i pesticidi. E questo spiegherebbe perché la Pummarò Valley si sta spostando verso il Gargano e all’interno del Tavoliere: Lesina, Poggio Imperiale, San Severo, Lucera. Qui le terre non sono ancora state sfruttate dalle colture intensive e il rischio di virus alle piantagioni di pomodoro è più basso.

Il fatto è che delocalizzare non vuol dire sfruttare meno. Anzi. I produttori dicono di guadagnare, quest’anno, dai 9 ai 12 centesimi di euro al chilo a fronte dei 17 centesimi del 2008. Il prezzo è quello fissato dai titolari dei pomodorifici, vale a dire dalle industrie della trasformazione che hanno stretto le cinte approfittando della crisi congiunturale. Sta di fatto che la squadra di immigrati viene pagata al capo nero calcolando per ogni stagionale 5 euro al massimo per cassone raccolto. In tasca agli sfruttati finisce in pratica circa un centesimo, due al massimo, per ogni chilo raccolto. E gli altri 7-10?

Lo sfruttamento è una ferita che sanguina. Il caporale trattiene dalla paga del “suo” operaio anche quello che non t’aspetti: gli fa pagare il trasporto, dai 2 ai 5 euro a seconda della distanza; gli fa pagare il cibo, 4-5 euro per un panino con una scatoletta di tonno da discount; anche l’acqua potabile fresca nella tanica di plastica costa 50 centesimi. Quello che non t’aspetti sono i 50 centesimi per ridare energia alle batterie del cellulare scarico. Così va l’era dell’oro rosso. Non che i risultati non ci siano stati. Almeno a giudicare dalle parole delle organizzazioni sindacali. Lo stesso Calamita commenta quello che è accaduto negli ultimi anni: «Gli elenchi anagrafici indicano le persone assunte almeno per una giornata lavorativa e registrano quest’anno 16mila immigrati su un totale di 34mila lavoratori in agricoltura. L’anno scorso erano 14mila su 32mila, e non dobbiamo dimenticare che nel 2007 erano appena 7.474».

Le campagne di tutela danno i frutti e anche la legge regionale sull’emersione dal lavoro nero, voluta dall’ex assessore della giunta Vendola, Marco Barbieri, ha in qualche modo inciso. Ma resta il fatto che la Puglia non ha ancora una legge regionale sull’immigrazione mentre il lavoro contadino nostrano si modifica, diventa espressione di una riorganizzazione in chiave neoliberista che vede l’espulsione del lavoro autoctono dequalificato dalle campagne e lo sfruttamento delle braccia immigrate specie nelle zone limitrofe all’insediamento dei centri di ingresso via mare. La Puglia come la Sicilia e la Calabria. Il Foggiano e il Salento come il Trapanese, il Ragusano e il Crotonese. Sfruttamento in salsa mediterranea.

Fonte: lagazzettadelmezzogiorno.it

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