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giovedì 22 ottobre 2009

Si ricomincia dall'immigrato

di Karim Metref

Una lettera aperta scritta da un membro del Collettivo autorganizzato immigrati di Torino su quello che significa, e potrebbe significare, la manifestazione del 17 ottobre e perché non va archiviata come una tra le tante manifestazioni antirazziste tenute in Italia da venti anni in qua.

Sabato 17 ottobre 2009 alle 14.30, da Piazza della Repubblica a Roma, partiva una manifestazione che in aspetto assomigliava a tutte le altre. Ma la protesta del 17 ottobre, nonostante l’aspetto, era molto diversa. Profondamente diversa nella sua essenza stessa.Da 20 anni, dall’uccisione di Jerry Masslo nel 1989 a Villa Literno fino a oggi di manifestazioni antirazziste in Italia ce ne sono state tantissime. Ma questa è stata la prima manifestazione nazionale contro il razzismo e contro le leggi razziste convocata e maggiormente sostenuta da organizzazioni autonome di immigrati. Gli immigrati non erano soltanto molto numerosi in piazza come è stato segnalato in molti media. Questa volta non hanno fatto solo da portabandiere o da comparse per portare un po’ di colore nel corteo come erano soliti. Questa volta gli immigrati erano l’anima di questa manifestazione. Questo fatto, però, o non è stato chiaro a tutti o addirittura non è piaciuto per niente.
Fin dall’inizio, il Comitato 17 ottobre è stato guardato con diffidenza. Ignorato dal mondo della politica e di conseguenza anche da quello dei media potenti. In effetti la manifestazione del 17 ottobre sembra piovuta dal cielo. Ne hanno parlato un pochino alcuni «piccoli» giornali di sinistra ma timidamente, nelle ultime settimane. Le grosse macchine che di solito mobilitano per le grandi manifestazioni della sinistra [Cgil, Arci…] si sono mosse solo negli ultimi giorni. I partiti più grandi, alcuni hanno fatto finta di niente e altri hanno affidato la questione al loro reparto «immigrazione», di solito poco numeroso e poco influente. Gli unici a crederci oltre ai comitati degli immigrati sono state piccole organizzazioni, piccoli partiti extraparlamentari, movimenti di base… Che hanno fatto insieme a centinaia di immigrati uno straordinario lavoro di informazione e sensibilizzazione capillare nelle strade, nei luoghi di lavoro, nei luoghi di raduno della gente, quella vera, quella che lavora per vivere, quella che subisce la crisi in pieno. Al punto che negli ultimi giorni le direzioni dei partiti sembra siano state confrontate ad un dilemma importante: o continuare a negare la loro solidarietà e affrontare l’ennesima incomprensione da parte delle loro basi o raggiungere il corteo all’ultimo minuto. E hanno per la maggior parte scelto la seconda soluzione.

Alla partenza da Roma ovviamente c’erano tutti, o quasi. Ormai la vetrina era allestita e tutti volevano un posto in primo piano. Come al solito, partiti, sindacati e grosse associazioni hanno inondato il corteo di bandiere, magliette, capellini, striscioni, palloncini e chi più ne ha più ne metta. Non si sono fatti sfuggire questa occasione per praticare il loro sport favorito: quello di calpestarsi i piedi a vicenda a ogni manifestazione unitaria.
L’accordo stabilito, tra il comitato 17 ottobre e le varie organizzazioni presenti, di lasciare la testa del corteo al comitato unitario e di schierare le loro truppe dietro è stato più o meno rispettato dalle basi [anche se numerose bandiere hanno giocato a rincorrersi fino alla testa del corteo]. Ma le grosse personalità l’hanno completamente calpestato. Il comitato organizzativo ha dovuto fare la caccia al politico per rimandarli indietro, a stare un po’ insieme alle loro basi. Alcuni sono stati richiamati all’ordine varie volte… alcuni sono rimasti testardamente in testa di corteo nonostante le richieste e gli accordi.
Una nuova prova se ce ne fosse bisogno che se da una parte la gente «normale» è matura per un nuovo modo di fare e vivere la politica, le classi dirigenti rimangono il principale ostacolo a tale cambiamento.

Perché, anche se non si è visto ma, la manifestazione del 17 ottobre ha segnato un nuovo modo di protestare, di fare politica. Ed è giusto che questo cambiamento venga dai comitati di immigrati.
L’immigrato nel mondo ricco del Nord in genere e in Italia oggi in modo molto particolare rappresenta il gruppo sociale sul quale le ingiustizie dell’ultra liberismo arrogante si esercitano con più ferocia. Come l’ebreo nell’inizio del secolo in Europa, come il nero negli Stati Uniti del dopoguerra, l’immigrazione costituisce in Italia una specie di popolo-classe utilizzato per colmare i buchi causati dallo sfascio del patrimonio pubblico. Vittime delle vittime. Schiavi degli schiavi. Braccia sfruttabili a volontà a disposizione di piccoli agricoltori, industriali e imprenditori edili strangolati da un mercato controllato dai grandi gruppi che pretendono prezzi sempre più bassi. Servi e serve a disposizione di una famiglia strangolata dalla quasi assenza di welfare e di politiche per la cura di anziani e bambini. Capri espiatori a disposizione di una politica, che non può e non vuole nemmeno più dare risposte ai problemi veri, e che li usa come spauracchio per tenere i cittadini lontani dalle domande vere. Una schiavizzazione cominciata con il rapporto stretto tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno della legge Turco-Napolitano normalmente proseguito nella Bossi-Fini per concludersi del tutto logicamente nell’attuale Pacchetto sicurezza. Rendendo l’immigrato sempre più vulnerabile, sempre più ricattabile.

E come nell’Europa del Novecento e come negli Stati Uniti del dopoguerra, è dai diritti di chi più di tutti è senza diritti che comincia la lotta per migliorare la vita di tutti. Oggi, in Italia, la lotta per la dignità e i diritti di tutti ricomincia dalla lotta dei migranti.
La manifestazione del 17 ottobre non è una piccola sfilata tutta gentile che dice che il razzismo è una brutta cosa e basta. La manifestazione ha un piattaforma. Una piattaforma volutamente radicale. Troppo radicale per chi vuole essere politicamente corretto ma non affrontare mai i problemi alla base.
La manifestazione del 17 ottobre chiama quelli tra i politici e i membri della società civile italiana che hanno ancora a cuore i valori della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza a tornare alla politica vera. Quella che si fa con la gente vera. Non da Floris, non da Santoro, non da Vespa! Non quella che scalda le poltrone, non quella che si focalizza sui festini e le veline di Berlusconi.
Ma quella che parla dei temi che Berlusconi [e credo anche tanti dell’opposizione] non vorrebbe sentire. Quella che tratta delle vere cause della crisi. Che parla di lavoro, di scuola, di sanità, di sociale e ambiente. Di beni pubblici che non devono diventare beni di pochi.
Di quella politica che non fa finta che la questione del sociale si ferma ai confini dell’Italia. Di quella che affronta le questioni nazionali e internazionali insieme perché il mondo è più che mai un tutt’uno. Di quella che non nasconde all’Italiano che se le ragazze di Benin City vengono a prostituirsi in Italia è perché la Shell-BP, la Total, la Chevron e soprattutto la Agip hanno ammazzato il mare, i laghi e le terre di cui viveva il loro popolo.
La politica vera che non cerca di abbindolare la gente con la storia che «l’immigrazione è una buona cosa. Perché porta braccia alla nostra economia e ringiovanisce la popolazione».
Come se fosse vero che milioni di persone costrette a lasciare la propria terra fosse una buona cosa. Come se paesi interi che si svuotano della loro linfa vitale fosse una buona cosa. Come se decine di migliaia di bambini che crescono in Moldavia, Romania, Ucraina, Polonia… senza la madre [perché la madre sta ad accudire qualche anziano o i bambini di una altra donna in Italia] potesse essere una buona cosa.
Come se fosse una buona cosa che un ragazzo che nasce a Bamako e che non ha, per poter almeno sognare un vita dignitosa, altra scelta che attraversare il deserto a piedi e poi il mare su una qualche imbarcazione di fortuna per, se sopravvive… venire a vendere accendini a Brescia.
Come se per ringiovanire la popolazione italiana non ci sarebbero modi per permettere ai giovani di avere bambini e poterli crescere senza paura e senza che sia un fardello insopportabile. Come se anche la produzione dei bambini si potesse delocalizzare verso luoghi dove viene a costare meno.
A tutto questo richiama la piattaforma volutamente radicale del 17 ottobre. Richiama ad una politica che si azzarda a ripensare il mondo e non si limita a gestire soltanto quei pochi spazi lasciati a disposizione dal mercato e dalla finanza internazionale. Richiama a un ritorno ai valori. Richiama a ricominciare dagli oppressi. Per ricordare che: i diritti o ce li abbiamo tutti o non ce li ha nessuno. Per far suonare il campanello d’allarme, per dire che non c’è più tempo da perdere. O ci svegliamo e ci decidiamo a cambiare radicalmente prima noi stessi e il nostro modo di pensare e di fare politica o le cose andranno solo peggiorando. Per i paesi poveri prima, per i migranti dopo e poi per tutti. Ma veramente tutti quanti!

da Carta

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