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venerdì 20 novembre 2009

L’Assassino dei Sogni

Nel giornale del Manifesto di sabato 14 novembre 2009 sul caso Cucchi ho letto un bell’articolo di Patrizio Gonnella, uno che scrive e sa di carcere.
-Finalmente i media si sono accorti che esiste la violenza istituzionale, che si può morire di botte in prigione, che la tortura non riguarda il terzo mondo.
E una dichiarazione della Fondazione Farefutura:
-In Italia troppi casi Cucchi.
Sulla rubrica lettere di Liberazione di domenica 15 novembre 2009:
-I detenuti picchiati (da sempre)… Ho prestato servizio per oltre 28 anni per compiti di polizia giudiziaria ed ho potuto costatare che il fenomeno, purtroppo, esiste da sempre, almeno fino a quando sono stato in servizio, ed è comune a più corpi di polizia. (Vincenzo Cerceo, colonnello in congedo della Guardia di Finanza, Trieste).
Anch’io voglio dare il mio contributo diffondendo questo racconto che assomiglia molto alla storia che è capitata a Stefano, che è capitata nel passato a molti e che capiterà in futuro ad altri.
Ciao Stefano, a differenza di Maurizio del racconto tu non sei solo, hai una famiglia meravigliosa che sta lottando per te.
Carmelo Musumeci
Carcere di Spoleto

L’Assassino dei Sogni

Questo racconto è frutto esclusivo della fantasia dell’autore. Ma nell’ambiente carcerario si racconta che sia una storia vera perché negli anni ottanta, Maurizio fu veramente trovato impiccato nella sua cella d’isolamento, con il copro pieno di ematomi, che non poteva esserseli fatti da solo.
Più che una prigione gli sembrava una mostruosa creatura di cemento armato.
E in sostanza quel carcere questo era: una creatura che assassinava e mangiava i sogni di chi era dentro.
L’assassino dei sogni odiava la felicità e la speranza e usava le sbarre, i blindati e i cancelli, per non farle entrare.
Maurizio osservava, fra le sbarre, calare la sera ed insieme al buio calava anche la malinconia.
Vide un grosso merlo spiccare il volo con un gran sbatter di ali.
Vide un gatto nero che miagolava sotto la sua finestra, ma lui non aveva nulla da mangiare da gettargli.
Probabilmente aveva più fame lui che il gatto.
Si sentiva profondamente solo e infelice.
Non riusciva a pensare ad altro che al momento in cui sarebbe uscito.
Quel giorno aveva compiuto diciannove anni.
Era dentro per una rapina alle poste.
Il complice che doveva fare da palo se l’era data a gambe alla vista di una pattuglia dei carabinieri senza nemmeno avvisarlo.
Lui non aveva potuto fare altro che alzare le mani perché aveva solo una pistola giocattolo mentre i carabinieri avevano le pistole vere.
Maurizio era un ragazzo difficile.
Aveva i capelli lunghi, neri e mossi, denti bianchi e un sorriso da bravo ragazzo e gli occhi straordinariamente profondi e luminosi.
A tratti i suoi occhi brillavano di una luce triste e opaca.
Non aveva genitori e non ne sentiva la mancanza.
Per sentire la mancanza dell’amore bisogna conoscere l’amore.
Maurizio non aveva conosciuto l’amore di un padre, di una madre, di un fratello e di una sorella.
Non aveva mai conosciuto l’amore di una famiglia.
Aveva conosciuto solo l’odio della gente.
Prima l’odio innocente dei bambini, poi quello dispettoso dei ragazzi e ora quello malvagio e cattivo degli adulti.
Maurizio aveva conosciuto solo l’orfanotrofio, il collegio e ora il carcere.
Maurizio aveva solo sfiorato l’amore.
Aveva conosciuto Anna.
La ricordava con nostalgia.
Ricordava le sua labbra morbide.
Il calore dei suoi baci.
Il seno premuto nel suo petto.
Sentiva ancora il suo odore di ragazza semplice e pulita.
I suoi ricordi gli scalfivano il cuore.
Era stata la sua prima fidanzata.
Forse sarebbe stata l’ultima.
Lo aveva lasciato dopo nove mesi che era entrato in carcere.
Alla sua prima lettera gli aveva scritto che non lo avrebbe mai lasciato.
Alla seconda lettera gli aveva scritto che l’avrebbe aspettato per sempre.
Ma non era colpa sua.
Era colpa dell’Assassino dei Sogni.
Il carcere divora l’amore di chi sta fuori e uccide l’amore di chi sta dentro.
Conservava ancora le sue lettere e le sue fotografie.
Non gliel’aveva mandate indietro.
L’amore in carcere quando finisce non fa rumore, ti spezza solo il cuore.
L’amava, o forse pensava di amarla.
Pensando a lei nel muro della sua cella aveva scritto:
- L’amore in carcere sa di ghiaccio.
Sentì il rumore di numerosi passi nel corridoio.
Si sentiva solo e indifeso, ma d’altronde lo era sempre stato.
Stavano venendo.
Lo sapeva.
Fu colpito da brividi di paura.
In questi casi i bastardi venivano sempre.
Forse l’avrebbero ammazzato di botte.
Ma che gli importava?
Non aveva nessun motivo per vivere.
Forse aveva più motivi per morire.
Aveva tirato un piatto di patate in faccia al brigadiere.
Non lo doveva fare.
Ma era stato più forte di lui.
Non riusciva a stare zitto se gli offendevano la madre che non aveva mai conosciuto.
Il brigadiere Mussolini, così chiamato da tutti per la sua crudeltà, lo aveva chiamato “figlio di puttana” perché lui si era lamentato che le patate erano poche e crude.
Lui si era lamentato perché aveva fame.
Non aveva soldi per comprarsi qualcosa da mangiare.
Nessuno lo andava a trovare.
Nessuno si occupava di lui.
Nessuno là fuori gli voleva bene.
Non c’era mai stato nessuno.
Invece lui voleva bene a tutti.
La porta del blindato si spalancò.
Le guardie entrarono con il passamontagna sulla faccia per non farsi riconoscere.
Solo Mussolini aveva il viso scoperto.
Maurizio, senza nessun segno di debolezza, guardò dritto negli occhi Mussolini.
Il bastardo comandava più del direttore del carcere!
Aveva carta bianca.
Aveva le spalle coperte.
Si diceva che aveva come parente un pezzo grosso al Ministero di Giustizia.
Mussolini aveva lo sguardo gelido e pieno di rabbia.
Invece gli occhi di Maurizio erano gli occhi di un animale in trappola.
Gli saltarono addosso tutti insieme.
Lo riempirono di calci e pugni.
Maurizio soffriva più per le parolacce che gli dicevano che per le botte.
Lui non disse nulla.
Non gridò e non si lamentò, come facevano gli altri ragazzi quando venivano picchiati.
A Mussolini non diede questa soddisfazione.
E le guardie s’incazzarono ancora di più.
Lo picchiarono ancora più forte.
Sentì una botta più forte delle altre in testa poi più nulla.
Si riprese dopo qualche secondo con più rabbia nel cuore.
Respirava a fatica.
Gli arrivò un calcio sul fianco che non lo fece respirare per qualche secondo.
Uno di loro si tolse la cintura e incominciò a picchiare con la fibbia.
Maurizio si rannicchiò in un angolo e si coprì il viso e la testa con le gambe e le braccia.
Il pestaggio durò pochi minuti ma a lui parve un’eternità.
Era nelle celle di punizione e anche se avesse gridato nessuno la avrebbe sentito.
Era solo come lo era sempre stato nella vita.
Nessuno lo poteva aiutare.
Il cuore batteva furioso.
I calci e i pugni più che il corpo gli colpirono l’anima.
Per fortuna aveva un fisico tozzo, robusto e resistente.
Sentiva calore dentro di sé.
Le botte di solito producono calore al corpo.
Si impose con tutte le sue energie di controllare la paura e il dolore che lo dominavano.
L’ultimo calcio, in bocca, come il primo, fu di Mussolini.
Poi se ne andarono come erano venuti.
Solo dopo avere sentito i passi allontanarsi Maurizio pianse.
Pianse amaramente come un ragazzo, perché in fondo era solo un ragazzo.
Cosa aveva fatto di male per essere trattato così?
Aveva solo da farsi perdonare di essere venuto al mondo.
Le lacrime gli scendevano dagli occhi come gocce d’acqua e gli rigarono le guance.
Gli usciva il sangue dalla bocca e dal naso.
Sapeva che sarebbero tornati.
In questi casi, quando toccavi uno di loro, i pestaggi duravano diverse notti.
Aveva dolore dappertutto ma quello che gli faceva più male era l’umiliazione e l’impotenza.
Maurizio cercò di calmarsi e di recuperare la lucidità.
Non era la prima volta che prendeva botte dalle guardie ma questa sarebbe stata l’ultima volta.
Se fossero tornati decise che a uno di loro gliel’avrebbe fatta pagare.
E sapeva già a chi.
Si alzò con fatica.
Si appoggiò al muro.
Fece un respiro profondo.
Si trascinò nel letto e si sforzò di riflettere.
Riordinò i propri pensieri.
Quella notte non sarebbero più tornati.
Sarebbero ritornati la notte successiva.
Se tornavano a picchiarlo non si sarebbe più fatto massacrare senza fare nulla.
Avrebbe tagliato la faccia a Mussolini.
Sì! Avrebbe fatto così.
Quella decisione gli fece bene.
Gli diede forza e determinazione.
Aveva caldo!
Era estate.
Sudava e sentiva l’odore del suo sangue.
Si fece forza.
Si alzò dal lettino per recuperare un po’ di lucidità.
Mosse qualche passo.
Sembrava che le gambe gli potessero cedere da un momento all’altro.
Si sentiva strano!
Fuori tempo.
Fuori luogo.
La testa gli girava.
Aveva la nausea.
Andò al lavandino.
Bevve piano piano un po’ d’acqua perché gli faceva male la gola e non riusciva a deglutire.
Si guardò allo specchio.
Incontrò il suo sguardo.
Rimase a guardarsi fisso per un minuto.
Non si riconobbe.
Vide due profonde ferite in fronte.
Una goccia di sangue gli correva ancora sul filo del naso.
Abbassò le palpebre esausto.
Fu invaso da una tristezza mortale.
Si fece forza.
Poco per volta cercò di reagire.
Poi si disse:
- Io a quel cornuto gli taglio la gola!
Maurizio era pallido e madido di sudore.
Aprì il rubinetto dell’acqua.
Si lavò accuratamente le ferite.
In testa aveva bisogno di punti.
Ma se avesse chiesto l’intervento del dottore avrebbe rischiato di prendere altre botte.
Decise di lasciar perdere.
Tornò a sdraiarsi sul lettino.
Dalla fatica, dai dolori e dall’umiliazione, gli occhi si velarono di nuovo di lacrime.
Ma poi la rabbia del suo cuore asciugò tutte le sue lacrime.
Se la prese con Dio e lo maledì.
Maledì tutto il mondo, ma non maledì Anna.
Con le ultime forze che gli rimanevano scrisse sul muro:
- L’amore vuole dire accettare tutto, anche di essere abbandonato dalla donna che ami.
Poi Maurizio si addormentò.
Non si rese conto di quanto tempo fosse passato che sentì dei rumori.
Pensò che lo stessero picchiando di nuovo.
Ma questa volta i colpi non venivano dalla sua testa ma dal blindato della sua cella.
Una voce lo riscosse all’improvviso:
- Caffè… latte!
Era quell’infame dello scopino.
Alle celle di punizione come lavorante mettevano sempre i confidenti del comandante così riportavano tutto.
- Un attimo! Sto venendo!
Maurizio si alzò con fatica.
- Sbrigati che sto andando via!
Prese un po’ di latte annacquato, il latte vero se lo rubava lo scopino, e un po’ di caffè che sembrava acqua sporca.
Chiese una pagnotta ma l’infame gli rispose che il pane sarebbe arrivato più tardi.
Bevve il latte e il caffè e si sdraiò di nuovo sul letto.
Pensò a cosa fare.
Quella notte le guardie sarebbero venute di nuovo a picchiarlo.
Mussolini sarebbe stato alla testa del branco.
Pensò per diversi minuti poi si alzò e si mise a lavorare sulla branda.
Lavorò per molto tempo finchè una lama del letto non si staccò.
Si mise per ore a sfregarla nel cemento del pavimento per farla tagliente e appuntita.
Poi strappò un pezzo di lenzuolo ed insieme a della carta di giornale ci fece il manico.
Era pronto.
Ora aveva un’arma per difendersi.
Era poco, ma era meglio di niente.
Si mise ad aspettare.
La paura fece passare in fretta la mattinata e fu presto pomeriggio.
Il giorno aveva fretta di lasciare il posto alla sera.
L’ultimo raggio di sole scomparve.
Il buio si mangiò presto il giorno e fu di nuovo notte.
Con il buio la cella diventò il regno delle ombre.
Presto i bastardi sarebbero nuovamente ritornati.
Mussolini non era ancora montato in servizio.
Sarebbe stato di servizio dopo mezzanotte.
Il bastardo con i suoi sgherri sarebbe venuto a l’ora delle streghe.
La notte era quieta e stellata.
La fame lo torturava.
L’appetito gli attanagliava lo stomaco.
Si mise a mangiare la mezza scodella di minestra che aveva messo da parte.
Ritrovò un po’ di energia.
Si sforzò di essere in pace con se stesso.
Si convinse di essere forte come non lo era mai stato.
Invece, Maurizio sudava per l’attesa.
Sudava di paura.
Era acquattato nell’angolo della cella.
Aveva le orecchie dritte.
Attento a ogni rumore.
Avvertiva la rabbia che saliva dentro di sé.
Dalla finestra vide uno spicchio di luna che lo guardava.
Lo osservava.
Forse anche lei voleva vedere come andava a finire.
Anche lei odiava l’Assassino dei Sogni, ma non poteva fare nulla.
Maurizio sentì i rumori dei passi sulle scale.
Poi li sentì nel corridoio.
I rumori degli scarponi cessarono davanti alla sua cella.
Dopo qualche secondo sentì il rumore della serratura che scattava.
Il blindato si aprì.
Le guardie irruppero nella stanza.
La cella si riempì di uomini con il cuore nero.
Davanti a tutti c’era lui.
Mussolini vide che il ragazzo lo stava aspettando.
Vide che il suo viso era cambiato.
Non gli sembrava lo stesso ragazzo della sera prima.
Maurizio era accovacciato in un angolo della cella.
Aveva un fazzoletto attaccato alla fronte.
I suoi occhi erano duri e determinati.
Erano gli occhi di un adulto.
Maurizio sorrideva.
Mussolini pensò:
- Che cazzo ha da sorridere!
Le guardie aspettavano il via per incominciare il pestaggio.
Il primo calcio in bocca e l’ultimo lo dava sempre lui.
La tensione si tagliava a fette.
Maurizio si alzò in piedi con le braccia dietro la schiena.
La paura lo avvolgeva come un’amante.
Mussolini vide i suoi occhi folli, ma era tropo tardi.
Il ragazzo all’improvviso si mosse.
Scattò di colpo.
Scattò in linea retta.
La lama che teneva in mano affondò di taglio nella faccia di Mussolini.
Lui impallidì di colpo.
Le guardie guardarono il loro capo, con una mano sul viso, che indietreggiava.
La sua guancia sanguinava.
Stupore e collera si mescolarono fra loro.
Non sapevano cosa fare.
Erano indecisi se saltare addosso a Maurizio.
Mai nessuno si era ribellato in questo modo.
Il ragazzo parlò calmo:
- Il prossimo che si avvicina gli taglio la gola.
Tutti di domandavano cosa aspettasse Mussolini a dare il via al pestaggio.
Nessuno di loro in quel momento capì che Mussolini voleva di più.
Molto di più.
Voleva di più di una vendetta.
Voleva donare all’Assassino dei Sogni una vita.
Una giovane vita.
La sua autorità tra quelle mura era in pericolo.
Mussolini uscì dalla cella seguito dai suoi sgherri.
L’Assassino dei Sogni sapeva già come sarebbe andata a finire.
Doveva solo aspettare.
Aspettò!
Maurizio pensò che questa volta l’aveva fatta grossa.
Si accorse di essere stanco.
Dalla tensione scoppiò a piangere.
Pianse lacrime di paura domandandosi:
- Adesso che succederà?
L’Assassino dei Sogni lo sapeva.
Era già successo tempo addietro.
E chissà quante volte ancora sarebbe successo.
Maurizio sentì che quella notte la sua vita era in pericolo.
Capì anche che non poteva fare nulla.
Forse le guardie non avrebbero avuto il coraggio di ammazzarlo di botte.
Non poteva fare altro che sperare questo.
In compagnia della paura Maurizio aspettò il suo destino.
Ormai era notte fonda, cosa aspettavano a venire?
Quel silenzio irreale lo preoccupava.
Non aspettò a lungo.
Questa volta non li sentì arrivare perché le guardie si avvicinarono piano.
Sentì solo il rumore ferroso del blindato che si apriva.
Le guardie fecero ressa e si accalcarono per entrare tutte insieme nella cella.
Tutti volevano partecipare all’esecuzione.
Entrarono.
Avevano tutti il passamontagna.
Alcuni avevano pure il manganello e un grande scudo di plastica antisommossa.
Sembravano una marea blu per il colore della loro divisa.
Maurizio si specchiò negli occhi delle guardie per trovare un po’ di pietà.
Ma non ne trovò.
Non parlò.
Non sarebbe servito a nulla.
Spesso le guardie si abituano a picchiare i detenuti come i macellai si abituano alla vista del sangue.
Guardò dritto negli occhi la guardia che era più indietro di tutti.
Più che dal copro e dalla stazza lo riconobbe dagli occhi d’assassino.
Era Mussolini.
Era venuto anche lui.
Era venuto a vedersi lo spettacolo.
Le guardie gli saltarono addosso.
Lo bloccarono per le spalle.
Lui spinse, scalciò, tirò pugni, ma la sua fu una resistenza senza speranza.
Maurizio dimostrò una forza inaspettata ma inutile.
Si agitò, resistette, poi accettò il suo destino.
Non riuscì a divincolarsi.
Lo presero di peso.
Una guardia strappò un lenzuolo.
Lo legò fra le sbarre.
Fece un cappio e lo mise al collo del ragazzo.
Maurizio intontito dalla paura seppe che lo stavano ammazzando e decise che non gli dispiaceva più di tanto.
La vista incominciò ad annebbiarsi.
In un angolo del suo cuore passò un pensiero di Anna.
Chissà cosa stava facendo in quel momento.
Tutta la vita aveva cercato l’amore e quando non lo aveva cercato più l’aveva trovato, ma l’Assassino dei Sogni se l’era mangiato.
Presto avrebbe tolto il disturbo da un mondo che non l’aveva mai voluto e accettato.
Quei pochi ricordi della sua giovane vita si presentarono nella sua mente come non accadeva da tempo.
Le guardie gli misero lo sgabello rovesciato lì vicino e mollarono il suo corpo.
Maurizio cercò di respirare, poi rinunciò a farlo.
Non sarebbe servito a nulla.
Era stanco.
Non aveva più motivo di stare al mondo.
Per la verità non aveva mai avuto un motivo.
Non l’aveva chiesto lui di venire al mondo.
E come il vento ora andava via.
Chissà se qualcuno l’avrebbe pianto!
Forse Anna?
No! Nessuno l’avrebbe pianto.
Le guardie uscirono.
Chiusero il blindato.
Maurizio non pregò Dio e non lo maledì.
Non gli importava più nulla di nessuno.
Neppure di se stesso.
L’ultimo suo pensiero lo donò ad Anna.
Come era vissuto ora moriva solo come un cane.
Persino la luna se n’era andata.
Maurizio aveva poco.
Aveva solo la vita da perdere.
Solo quella poteva perdere.
E la perse.
Sentì per l’ultima volta l’odore della vita.
Si lasciò andare.
Ormai era notte buia e profonda.
Una buona notte per morire.
Emise l’ultimo respiro e morì.
La morte lo avvolse a sé e se lo portò via.
Lasciò all’Assassino dei Sogni solo il corpo appeso fra le sbarre.

Carmelo Musumeci
Carcere di Spoleto – novembre 2008

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