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sabato 5 dicembre 2009

Fatti processare (l'inchiesta completa)

di Pietro Orsatti su left/Avvenimenti

Mentre appare evidente, rileggendo Spatuzza, che Cosa nostra scelse il terrorismo, fuori da una logica esclusivamente criminale, il premier cerca in tutti i modi di sottrarsi a qualsiasi giudizio legale.
Racconta Gaspare Spatuzza che sia l’attentato di Capaci che quello di via D’Amelio rientravano, se è possibile definirla così, all’interno di un’ottica “mafiosa”, ma che da quel momento in poi Cosa nostra si trovò a percorrere una via totalmente diversa. Utilizzare gli strumenti terroristici, e non mafiosi, all’interno di una strategia ben precisa. «Ci sono morti – racconta ai pm di Palermo nell’ottobre scorso – che non ci appartengono, perché noi abbiamo commesso delitti atroci, però terrorismo, sti cose di terrorismo non ne abbiamo mai fatte per quello che mi riguarda, quindi gli dissi a Giuseppe Graviano: ci stiamo portando un po’ di morti che non ci appartengono. Allora lui per cercare un po’ di incoraggiarci perché non era solo il mio pensiero, era un malessere che già si sentiva all’interno del gruppo, mi disse che era un bene che ci portassimo dietro un po’ di morti così chi si deve muovere si dà una smossa». E poi racconta di una trattativa, di Graviano che spiegava che «c’è in piedi un qualche cosa che se va a buon fine ne abbiamo tutti dei benefici a partire dai carcerati». Terrorismo. Ecco in che cosa si era trasformata Cosa nostra nel ’93, almeno in parte, in un gruppo che utilizzava tecniche e pressioni terroristiche per contrattare politicamente con alcuni poteri. Una nuova strategia della tensione. E non limitandosi ad agire sul proprio territorio, ma a livello nazionale. E secondo Spatuzza, terminale di questa trattativa, sarebbe stato il gruppo che faceva capo a Marcello Dell’Utri e a Silvio Berlusconi. Terrorismo, mafioso, ma sempre terrorismo. Questo l’ultimo capitolo delle tante dichiarazioni, testimonianze e inchieste che hanno riguardato i presunti rapporti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con la mafia che avrebbe accompagnato l’ascesa alla politica dell’attuale premier negli ultimi 15 anni.

Esercizio di memoria
Palermo, ormai una vita fa. Per capire, allora, è necessario tornare indietro nel tempo, scomodando anche altre vicende, e ripercorrere questi anni. Nell’aula bunker ha inizio il processo Andreotti che l’eco del tritolo delle stragi del 1992/93 non si è ancora spento. Il senatore a vita, entrato per la prima volta in un governo nel 1947 e che per sette volte ha ricoperto l’incarico di presidente del Consiglio, entra in aula con i suoi legali, ignorando i flash dei fotografi e i microfoni dei giornalisti. Poi, prima di sedersi, si avvicina ai pm che lo accusano e va a salutarli. Una vita fa.
Mentre Bettino Craxi e mezzo Parlamento sfilavano nelle aule di Milano, il più longevo uomo di governo della Repubblica accettava, quindi, di farsi processare e mica per un reato di poco conto, ma per concorso esterno in associazione mafiosa a Palermo. Altri tempi. Tempi in cui la nascente Forza Italia giocava al “prendo tutto” facendo manbassa dei voti del pentapartito lasciati bradi dal crollo del sistema causato da Tangentopoli. Macchina del consenso, Forza Italia, organizzata da Marcello Dell’Utri sul modello a “cellule” di Publitalia e trascinata su fino al Gotha della politica nazionale, dal leader mediatico Silvio Berlusconi. Un successo prevedibile viste le forze che il proprietario dell’impero Fininvest mise in campo alla bisogna: tre canali televisivi, un network radiofonico, una casa editrice delle dimensioni della Mondadori, un quotidiano e una montagna di quattrini. Mai nella storia della Repubblica, e delle democrazie occidentali, una forza politica appena nata è riuscita nel giro di un anno a conquistare al primo colpo la maggioranza relativa. E invece è proprio questo quello che è accaduto, mentre la Prima repubblica andava a processo. Mentre Giulio Andreotti, il divo, si sedeva a seguire il proprio, da cui poi è uscito indenne solo grazie alla prescrizione. Ma si è seduto, Giulio. Ha accettato di andare davanti ai giudici, ha rispettato i magistrati che lo accusavano, si è difeso a denti stretti e con abilità, e nonostante le ombre lasciate da quella sentenza incompleta e contraddittoria, che ognuno può leggere e interpretare come vuole, innocentisti e colpevolisti non possono certo accusarlo di aver rifiutato il giudizio.

Il processo dei processi
Ben altro è successo, negli ultimi anni, all’altro premier “divo” Silvio Berlusconi, che grazie al lodo Schifani e poi a quello Alfano è riuscito a “estrarre” se stesso dal cosiddetto processo Mills, ovvero da un processo di “corruzione in atti giudiziari”. Finora. Il 4 dicembre, giorno di uscita di questo numero di left, si apre a Milano il processo relativo a Berlusconi ormai decaduti gli impedimenti opposti dalle due norme, entrambe respinte dalla Corte costituzionale. Non potrebbe essere altrimenti, visto i toni della sentenza che riguardano il “corrotto”, ovvero l’avvocato inglese Mills Mackenzie Donald David. Ecco cosa c’è scritto: «Egli ha certamente agito da falso testimone, da un lato, per consentire a Silvio Berlusconi e al Gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse o, almeno, il mantenimento degli ingenti profitti realizzati attraverso il compimento delle operazioni societarie e finanziarie illecite compiute sino a quella data; dall’altro, ha contemporaneamente perseguito il proprio ingente vantaggio economico». Se non ci saranno altri colpi di scena, ovvero qualche escamotage del collegio (parlamentare) di difesa, Silvio dovrà sottoporsi a giudizio. Che risulti colpevole o innocente questo lo determinerà la corte e non Mediaset o Il Giornale. Come è successo per ben altri uomini politici italiani. Quello di Milano è “il processo dei processi”, il più importante. Paradossalmente, si potrebbe interrompere qualsiasi altro dibattimento in attesa che vada in scena questo stralcio. Perché, soprattutto, finora il processo Mills senza la presenza come imputato in aula di Berlusconi rappresenta una contraddizione giuridica unica. Il reato di corruzione prevede che ci siano due soggetti interagenti, un corrotto (Mills, che è stato già condannato) e un corruttore che finora non è stato possibile sottoporre a giudizio, ovvero il premier Silvio Berlusconi.

Il patto innominabile
Altri tempi, altri uomini. Può bastare? Certo che no. Anche perché mentre Andreotti attraverso il suo uomo Salvo Lima si muoveva sul filo del rasoio nella Sicilia dove si stava per scatenare la seconda guerra di mafia degli anni Settanta e Ottanta, l’imprenditore lombardo Silvio Berlusconi e il suo amico e, in alcune imprese, socio Marcello Dell’Utri stavano mettendo in piedi un progetto molto aggressivo per passare dal “mattone” all’editoria, alla televisione e da lì alla grande finanza. Passando anche per la Sicilia, perché no. Quindi è necessario anche capire, grazie a sentenze e testimonianze, quello che stava accadendo, diciamo nel periodo che intercorre fra il 1975 e il 1993, in Sicilia e in Italia. Partiamo da Giulio. Nella sentenza definitiva della Cassazione si legge che Giulio Andreotti con alcuni esponenti mafiosi intrattenne rapporti e fece accordi su temi specifici grazie ai suoi uomini in Sicilia. Leggiamo: «Pertanto la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l’imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra». Ma c’è la prescrizione, quindi non se ne fa nulla.

Non è solo Spatuzza
E andiamo, quindi, all’oggi. Alle dichiarazioni del dichiarante Gaspare Spatuzza che coinvolgerebbero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in un intreccio di relazioni con esponenti di Cosa nostra e addirittura li indicherebbero come terminali di un’evoluzione della cosiddetta trattativa fra Stato e mafia. Una novità? Assolutamente no. Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati due volte per concorso in strage con l’accusa di essere stati i mandanti occulti delle stragi del 1992/93. Il primo procedimento è stato aperto dalla Procura di Firenze, competente sulle stragi mafiose del ’93 a Milano, Firenze e Roma. L’indagine si è conclusa nel novembre del 1998 con un decreto di archiviazione in cui si legge che «le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa Nostra agito a seguito di input esterni» e «all’avere i soggetti di cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il progetto stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto». Nonostante «l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità», gli inquirenti non hanno trovato le prove necessarie a «formulare in termini attendibili la proposizione secondo cui il soggetto politico in via di formazione (Forza Italia), avrebbe preventivamente divisato l’utilizzazione dei risultati del progetto stragista».

Ancora per strage
Mentre il gip di Firenze depositava queste conclusioni, a Caltanissetta i magistrati stavano indagando anche loro sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Raccogliendo le dichiarazioni di pentiti come Brusca, Cancemi, Siino, Cucuzza e Cannella e le testimonianze di Ezio Cartotto e Francesco Cossiga. I magistrati nisseni arrivano a ritenere dimostrata «la sussistenza di varie possibilità di contatto fra uomini appartenenti a Cosa nostra ed esponenti di gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati. Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione come eventuali interlocutori». Anche quest’indagine è stata archiviata.

Dell’Utri lasciato solo a Palermo
Ma le testimonianze raccolte da Firenze e Caltanissetta sono state acquisite in un terzo processo, quello di concorso esterno a carico di Marcello Dell’Utri che lo ha visto condannato in primo grado a nove anni di reclusione e che si avvia oggi alla fase conclusiva dell’appello. Documenti a cui si è aggiunta la testimonianza di un altro collaboratore di giustizia, Antonino Giuffrè, che spiega ai pm che «nel ’93 in Cosa nostra si faceva il nome di Berlusconi». In particolare, spiega il pentito, che quegli anni furono «per Cosa nostra» un «periodo di travaglio, come ho detto, e di sofferenza». E poi conclude: «In modo particolare mi intendo riferire alle promesse di Salvatore Riina e in modo particolare, per quanto riguarda i processi, perché diceva sempre che la situazione si doveva risolvere nel migliore dei modi possibile, che male che andava doveva ritornare come prima. Invece, ci eravamo resi conto che si andava sempre più male, ripeto, signor Procuratore, con l’omicidio di Lima, si chiude un’epoca e si apre un’altra epoca, perché come le ho detto, si vede all’orizzonte una nuova formazione politica che dà delle garanzie che la Democrazia Cristiana o, per meglio dire, parte di questa non dava più. Questa formazione politica, per essere io preciso, è Forza Italia».

Il terremoto Ciancimino
A chiudere il cerchio, poi, arriva anche Massimo Ciancimino, sulla vicenda delle minacce della mafia a Silvio Berlusconi. Il 3 luglio scorso la stampa ha dato notizia del ritrovamento di una lettera scritta a mano in cui Cosa nostra minacciava Berlusconi e gli proponeva un sostegno reciproco. La lettera, sequestrata dai carabinieri nel 2005 in un magazzino di Ciancimino, è rimasta secretata per quattro anni nei cassetti della Procura. Poi il colpo di scena. Nella lettera viene offerto un appoggio «che non sarà di poco» a Berlusconi minacciato però di un «triste evento» se non metterà «a disposizione una delle sue reti televisive». Massimo Ciancimino credeva che quella lettera fosse andata dispersa. Quando i magistrati di Palermo gliel’hanno mostrata e hanno chiesto chiarimenti, dicono alcune fonti, è sembrato terrorizzato. «Si tratta di qualche cosa che è più grande di me», avrebbe detto. Poi ha spiegato ai pm che quella lettera, destinata a Marcello Dell’Utri, venne consegnata personalmente a “Massimino” da Bernardo Provenzano a San Vito Lo Capo in una villa del boss Pino Lipari. Poi Massimo la consegnò al padre, don Vito, in carcere, che avrebbe dovuto «fornire il proprio parere e farla avere a una terza persona». Che la lettera sia stata consegnata o no, quelle minacce sembrano essere arrivate comunque a Berlusconi, che nel 1998, al telefono con Renato Della Valle, disse: «Mi hanno detto che, se, entro una certa data, non faccio una roba, mi consegnano la testa di mio figlio a me ed espongono il corpo in piazza del Duomo».

«Silvio, fatti processare»
Solo dopo, molto dopo, arriva Gaspare Spatuzza e l’intreccio con i fratelli Graviano e Vittorio Mangano. Lo stesso Vittorio Mangano, di cui solo recentemente è emerso pienamente il ruolo che ricopriva all’interno dell’organigramma di Cosa nostra come capo del mandamento di Porta Nuova, uno dei più importanti di Palermo. Quel Vittorio Mangano che ormai, leggendo i vari verbali di interrogatori e le dichiarazioni dei testi, non sarebbe stato altro che una sorta di garante della sicurezza per Berlusconi: Cosa nostra verificava la “salute” del proprio investimento. La domanda, conseguente, è solo una: si può davvero governare autonomamente con un carico tale di sospetti e di possibili nodi di ricatto? E quindi, inevitabile, l’invito che sembra arrivare ormai non solo da parte dell’opposizione ma anche da alcuni autorevoli compagni di coalizione al premier: «Silvio, fatti processare». Come Giulio Andreotti ha fatto una vita fa.

Tratto da: orsatti.info

da AntimafiaDuemila

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