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sabato 5 dicembre 2009

PIERPAOLO PASOLINI - IO SO

"Pagine corsare"
Saggistica
Io so i nomi dei responsabili...
di Susanna Cotugno
http://loriscosta.ilcannocchiale.it/post/2138360.html

«Io so i nomi dei responsabili delle stragi italiane», così scriveva Pier Paolo Pasolini il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera, in un articolo che sarebbe stato poi ricordato come il “Romanzo delle Stragi”. Un anno dopo, il 1 novembre 1975, rilascia un'intervista a Furio Colombo per "La Stampa", che per espressa volontà di Pasolini stesso, viene pubblicata con il titolo: "Siamo tutti in pericolo". Il giorno dopo, il 2 novembre 1975, giorno dei morti, il corpo dello scrittore viene trovato privo di vita all'Idroscalo di Ostia.

Pino Pelosi detto “la Rana”, un “ragazzo di vita” romano di 17 anni, fermato dai carabinieri a un posto di blocco, confessa immediatamente l’omicidio.

Pelosi racconta di come Pasolini quella sera l’abbia convinto a “farsi un giro” sulla sua auto,
un’Alfa GT. Arrivati all’Idroscalo, Pasolini ha tentato un approccio sessuale ma Pelosi si è rifiutato. Ne è sorta una lite di inaudita violenza, che si è conclusa con la morte del poeta. Picchiato a sangue, massacrato, e schiacciato con l’auto durante la fuga di Pelosi. Un delitto maturato nell’ambiente degradato delle borgate romane. E un delitto omosessuale. Niente di più chiaro e semplice. Se non fosse che tante, troppe cose non quadrano.

Errori della polizia
Una serie di errori ha inficiato lo svolgimento delle indagini, soprattutto nelle prime ore successive al delitto. La polizia, giunta all’Idroscalo di Ostia alle 6.30 di domenica mattina 2 novembre, trova una piccola folla intorno al corpo di Pasolini, e non pensa minimamente ad allontanarla, così come non si cura di recintare il luogo del delitto per impedire la cancellazione di tracce importanti. E infatti, non essendo stata circondata la zona, tutte le eventuali tracce sono andate perdute dal passaggio di auto e pedoni diretti alle baracche o all’adiacente campo di calcio, oppure da semplici curiosi. Nel campo di calcio lì vicino, inoltre, dei ragazzi giocano a pallone, che ogni tanto va a finire proprio vicino al cadavere di Pasolini.

Non viene neanche notato che sul sedile posteriore dell’Alfa GT di Pasolini c’è, bene in vista, un golf verde macchiato di sangue, e che lontano dal cadavere, tra le immondizie, c’è una camicia bianca, anch’essa sporca di sangue. Se ne accorgeranno solo tre giorni dopo. Inoltre, fino a giovedì mattina, l’Alfa GT viene lasciata aperta e senza sorveglianza nel cortile di un garage dove i carabinieri depositano le auto sequestrate. Chiunque avrebbe potuto mettere o togliere indizi, lasciare o cancellare impronte.

La polizia torna sul luogo del delitto solo nella tarda mattinata di lunedì 3 per tentare una ricostruzione del caso, ma senza nessuna misura precisa, e con le tracce ormai inesistenti.
Solo da giovedì gli investigatori iniziano a interrogare gli abitanti delle baracche e i frequentatori della Stazione Termini (luogo in cui Pelosi ha raccontato di essere stato “adescato” da Pasolini).

Infine - e questo ha davvero dell’incredibile - sul luogo del delitto non è mai stato convocato il medico legale. E il cadavere venne lavato prima di completare gli esami della scientifica. È chiaro che polizia e carabinieri, certi di poter archiviare il caso come omicidio omosessuale, oltretutto con l’assassino reo confesso già in carcere, hanno ritenuto superfluo ogni accertamento sul cadavere che poteva invece servire per le successive indagini.

È possibile che la polizia abbia commesso così tanti e clamorosi errori tutti insieme?

Dopo questa pessima conduzione delle indagini, ci si aspetterebbe che il massimo responsabile venisse sospeso dall’incarico. Invece, il dottor Ferdinando Masone, capo della squadra mobile di Roma durante le indagini, è diventato questore di Palermo e poi di Roma, e in seguito addirittura Capo della Polizia. Ruolo che ha ricoperto fino al 2000, quando è diventato segretario generale del CESIS: il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza, cioè l’ente che coordina l’attività dei servizi segreti (SISMI e SISDE) in nome del presidente del consiglio.

Bugie di Pelosi
Gli interrogatori di Pino la Rana, a cominciare dal primo, la notte stessa del 2 novembre, sono pieni di bugie. Innanzitutto, il mistero dell’anello. Pelosi racconta agli inquirenti di aver perso, durante la colluttazione, un anello d’oro con una pietra rossa, due aquile e la scritta “United States Army”. Verrà poi accertato che quell’anello non poteva averlo perso in quel modo, ma poteva solo averlo lasciato di proposito sulla scena del delitto. Perché? Per farsi incastrare? O perché qualcuno aveva deciso di usare Pelosi prima come esca e poi come capro espiatorio, incastrandolo con l’anello?

Pasolini fu colpito violentemente non con un oggetto solo, ma con due bastoni, uno più lungo e uno più corto, e con due tavolette di legno. Pelosi descrive la colluttazione come una scena violentissima, in cui lui ha avuto infine la meglio. Risulta però difficile credere che un paletto di legno marcio abbia potuto provocare simili ferite e contusioni. Soprattutto risulta difficile capire come un ragazzo di 17 anni, magro e di corporatura esile, sia riuscito, da solo, a prevalere su un uomo alto, atletico, sportivo, esperto di arti marziali com’era Pasolini. Anche perché Pelosi non aveva sul corpo alcuna ferita di rilievo, e i suoi indumenti non presentavano alcuna traccia di sangue. Esame approfonditi di tutti i dati obiettivi (sopralluogo, interrogatori di Pelosi, reperti, bastone, tavola, vesti, lesioni di Pasolini), non solo smentiscono il racconto di Pelosi sulla dinamica di tutta l’aggressione, ma inducono soprattutto ad avanzare con fondatezza l’ipotesi che Pasolini sia stato vittima dell’aggressione di più persone. Pelosi non può aver fatto tutto da solo.

Rapidità del processo
Il caso Pasolini si risolve in pochissimi mesi. La sentenza di primo grado viene proclamata il 26 aprile 1976. Pino Pelosi viene dichiarato colpevole di omicidio volontario in concorso con ignoti e condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione. Ma se il Tribunale dei Minori, presieduto dal giudice Alfredo Carlo Moro (fratello del presidente della DC Aldo Moro), ha contemplato il “concorso di ignoti”, nella sentenza di appello tale ipotesi verrà scartata e di fatto cancellata definitivamente dalla Cassazione nel 1979.

In ogni caso, l’impressione è che non solo gli inquirenti, ma anche i giudici avessero la stessa preoccupazione di chiudere in fretta il caso. Inoltre, sembra che il vero obiettivo del processo sia quello di fare di Pasolini un mostro, un omosessuale pervertito che corrompe e violenta i ragazzini. E per questo è stato usato Pelosi, che quindi pagherà per delle colpe non sue o almeno non del tutto; sarà il capro espiatorio utilizzato da dei mandanti e manovratori rimasti ignoti e impuniti.

Ritrattazione di Pelosi
Il 7 maggio 2005, però, c’è il colpo di scena: nel corso della trasmissione televisiva “Ombre sul giallo”, Pelosi rivela di non essere stato solo quella sera del 2 novembre 1975, come invece aveva sostenuto fin dal primo interrogatorio e sempre ribadito. Trent’anni dopo, confessa di non essere stato lui a uccidere Pasolini, ma tre uomini sulla quarantina che, con accento siciliano o calabrese, insultavano lo scrittore chiamandolo “sporco comunista”.

Perché, dunque, all’epoca ha mentito e si è accollato colpe non sue? Perché ha aspettato trent’anni per parlare? «Ero un ragazzino - dice Pelosi - avevo 17 anni. Avevo paura, perché quelli che hanno ucciso Pasolini mi hanno picchiato e hanno minacciato di morte me e la mia famiglia se avessi raccontato la verità». E allora perché raccontarla adesso la verità? Non ha più paura di fare la stessa fine del poeta? «Sono passati trent’anni, quelli che mi hanno minacciato e che hanno ammazzato Pasolini, saranno morti o comunque vecchi». Ma si tratta solo degli esecutori materiali del delitto. Chi è il mandante? Dopo le dichiarazioni di Pelosi nel 2005, l’inchiesta è stata riaperta, ma poi ancora una volta archiviata, in quanto secondo i giudici non vi erano nuovi elementi rilevanti per continuare.

Molte ipotesi sono state avanzate sul mandante o mandanti dell’omicidio di Pasolini. Da alcuni è stato ritenuto un omicidio politico, ma le motivazioni vere sono più complesse e pericolose. I mandanti sono plausibilmente molto in alto, e di essi si parla in un romanzo scritto da Pasolini stesso: Petrolio.

Possibili moventi: Petrolio, il caso Mattei e la pista Cefis
Nel 1972 Pasolini inizia a scrivere quello che può essere considerato il suo vero “romanzo delle stragi”: Petrolio, rimasto incompiuto e pubblicato postumo. E forse è proprio in Petrolio che si trova la chiave della sua morte, legata a un altro mistero italiano: la “strana” morte di Enrico Mattei. Pasolini era venuto in possesso di informazioni scottanti, riguardanti il coinvolgimento di Eugenio Cefis (morto nel 2004) nel caso Mattei. In Petrolio descrive la storia dell’Eni e in particolare quella del suo presidente Cefis, attraverso il personaggio inventato di Troya.

L’indagine del giudice Calia
Secondo il sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, che ha indagato sul caso Mattei (depositando una sentenza di archiviazione nel 2003), le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragi italiane fasciste e di Stato. In particolare, nel 2002 Calia ha acquisito agli atti i frammenti su "L’Impero dei Troya" (da pagina 94 a pagina 118 di Petrolio) che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980. Tra le altre cose, vi è anche una “profezia” della strage della stazione di Bologna.

Il giudice Calia ha messo agli atti anche il mancante “Lampi sull’Eni”, di cui ci rimane soltanto il titolo (sotto l’Appunto 21), essendo l’intero capitolo misteriosamente scomparso nel nulla, come altre 200 pagine del romanzo. Non è una mancanza da poco, se si considera che in “Lampi sull’Eni” doveva presumibilmente comparire il grosso della vicenda legata all’economia petrolifera italiana. Secondo la testimonianza di Guido Mazzon, cugino del poeta, il paragrafo mancante fu trafugato, e fu Graziella Chiarcossi, nipote ed erede di Pasolini, a dirglielo («sono venuti i ladri, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo»). Di recente la Chiarcossi si è affrettata a smentire il tutto e ribadire, con singolare insistenza, che di Petrolio non manca una virgola. A chi credere?

Negli Appunti 20-30, “Storia del problema del petrolio e retroscena”, Pasolini arriva a fare direttamente i nomi di Mattei e di Cefis. Vi è, poi, un appunto del 1974, in cui Pasolini scrive che «in questo preciso momento storico, Troya (ovvero Cefis) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo».

La fonte di Petrolio
Il giudice Calia ha scoperto un libro, che è la fonte di Pasolini, pubblicato nel 1972 da
un’agenzia giornalistica, Agenzia Milano Informazioni (Ami), a cura di un fittizio Giorgio Steimetz: Questo è Cefis. (L’altra faccia dell’onorato presidente). Si tratta di un pamphlet sulla vita, sul carattere e sulla carriera del successore di Mattei alla guida dell’Eni. Racconta alcuni passaggi biografici, da quando Cefis fu partigiano in Ossola (con alcuni risvolti poco chiari) alla rottura con Mattei nel 1962, mai perfettamente spiegata; dal rientro all’Eni al salto in Montedison. Pasolini ne riporta interi brani, ne fa la parafrasi, elenca le stesse società (petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità e della comunicazione) più o meno collegate a Cefis, vi assegna acronimi o sigle d’invenzione, ad esempio la reale “Iniziative Partecipazioni Immobiliari” è trasfigurata in “Immobiliari e Partecipazioni”, “DA. MA” in “Am. Da”, “System-Italia” in “Pattern italiana”.

Non è facile individuare chi si celi dietro lo pseudonimo di Giorgio Steimetz, qualcuno ha supposto Corrado Ragozzino, titolare della stessa Agenzia Milano Informazioni, ma di certo si tratta di una persona ben inserita negli affari interni dell’Eni. Il suo libro è immediatamente sparito dalla circolazione e oggi non compare in nessuna biblioteca nazionale e in nessuna bibliografia.

Scrive lo stesso Steimetz: «Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni». E Pasolini in Petrolio scriverà: «Non amava nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire».

Dietro l’agenzia Ami, che pubblicò solo quel titolo, c’era il senatore democristiano Graziano Verzotto, segretario regionale della Dc (corrente Rumor) ai tempi di Mattei, di cui fu amico personale, nonché presidente dell’Ente minerario siciliano, cui l’Eni di Cefis aveva impedito la costruzione di un metanodotto tra l’Africa e la Sicilia. Legami pericolosi, di cui Pasolini era ben conscio. Tetra coincidenza, Verzotto riuscì a sfuggire a un attentato nel 1975, e così affermò all’epoca il suo legale Ludovico Corrao: «Siamo convinti di trovarci al centro di una congiura spietata, con obiettivi di giustizia sommaria». Verzotto ha rilasciato a Calia una lunga deposizione, in cui per spiegare l’incidente aereo dell’ottobre 1962 esclude l’ipotesi delle “Sette Sorelle”, quella dei servizi segreti francesi e la pista algerina, arrivando ad asserire che colui al quale la morte di Mattei ha giovato di più, è il successore di Mattei stesso, Eugenio Cefis.

Come faceva lo scrittore, due anni dopo un' uscita così fulminante, a conoscere quel libro-fantasma, fino a farne la fonte del suo Petrolio? Si sa che Pasolini tanto fece che riuscì ad averlo, quel libro, come dimostra una lettera del 20 settembre 1974 inviatagli dallo psicoanalista Elvio Fachinelli, in cui si parla delle fotocopie del «libro (...) ritirato». Le fotocopie sono conservate tra le carte di Petrolio. Nell' archivio pasoliniano del Gabinetto Vieusseux, nella stessa cartella che contiene le fotocopie dello Steimetz, si trovano altri materiali preparatori del romanzo: articoli su Cefis pubblicati dalla rivista dello stesso Fachinelli, L' erba voglio; un «Discorso commentato di Eugenio Cefis all' Accademia militare di Modena», pronunciato il 23 febbraio 1972; i ciclostilati di altre conferenze dello stesso presidente, addirittura l' originale di una conferenza intitolata «Un caso interessante: la Montedison», tenuta l' 11 marzo ' 73, presso la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con annotazioni a margine (dello stesso Cefis) mai pronunciate. Infine, diversi ritagli di giornale sui «segreti dell' Eni». In uno degli appunti progettuali del romanzo (16 ottobre ' 74), Pasolini ci informa dell' intenzione di inserire nel libro il testo integrale dei discorsi di Cefis, che avrebbero dovuto fare da «cerniera» tra una prima e una seconda parte.

Pasolini era quindi venuto in possesso di documenti che provavano il coinvolgimento di Cefis nel caso Mattei e, prima di essere ucciso, stava per pubblicare il tutto nel romanzo Petrolio. Prima di lui, però, un giornalista del quotidiano L’Ora, che aveva iniziato a indagare sulla morte di Mattei, aveva fatto una brutta fine: Mauro De Mauro, che stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film Il caso Mattei. De Mauro venne eliminato quando ormai aveva scoperto la verità. Poco prima dell’incontro previsto con Rosi, infatti, il giornalista scomparve nel nulla il 16 settembre 1970. Stranamente, come Pelosi nel caso dell’omicidio di Pasolini, anche la figlia di De Mauro parlò di “due o tre uomini” che portarono via il padre nella loro macchina e che non lo vide mai più.

Si è spesso detto e ripetuto che Pasolini è stato ucciso perché era un intellettuale “scomodo”. Certo, e non solo per via delle sue critiche al sistema, bensì soprattutto per le sue accuse. Fondate, precise, documentate da prove reali di cui era venuto in possesso. Come scrisse sul Corriere della Sera un anno prima di morire, egli sapeva.

Pier Paolo Pasolini è stato ucciso per questo: perché probabilmente sapeva la verità sulla morte di Enrico Mattei. Sapeva chi erano i mandanti di quello che in seguito si rivelò non un incidente aereo ma un abbattimento in volo: venne certificato, infatti, che nell’aereo era stata inserita una bomba di 150 grammi di tritolo, che si attivò durante la fase iniziale di atterraggio, forse con l’apertura del carrello. Già all’epoca dei fatti, alcuni testimoni dichiararono di aver visto l’aereo esplodere in volo. Il testimone principale, il contadino Mario Ronchi, rilasciò alcune interviste agli organi di stampa e alla RAI (che ne censurò le affermazioni), ma in seguito ritrattò la sua testimonianza.

Ecco quanto scrisse Flavio Santi su Liberazione nella sua recensione al libro di Gianni D'Elia. Il petrolio delle Stragi. Postille a 'L'Eresia di Pasolini (Milano, Effigie, 2006): “Chi tocca Mattei muore. Perché scende nel cuore di tenebra dell’Italia, fatto di corruzioni, complicità politiche e industriali (da un appunto del Sismi, Cefis risulta il fondatore della Loggia P2), servizi segreti deviati, golpisti (Cefis fu indicato come finanziatore del fallito golpe Borghese del 1970), stragi di massa usate come strumento politico (in un discorso del 1986 a Salsomaggiore Amintore Fanfani, cui Cefis era legato profondamente, definì la morte di Mattei «il primo gesto terroristico nel nostro Paese»: ma da dove gli veniva tutta questa certezza, visto che solo dieci anni dopo, nel 1997, il pm Vincenzo Calia giunse alla conclusione dell’incidente doloso?). Se poi aggiungiamo che negli ultimi anni di vita Cefis si era interessato a società televisive (già in passato aveva tentato di scalare il Corriere della Sera, proprio negli anni in cui vi scriveva Pasolini...), e che una delle società accomandanti della Edilnord Centri Residenziali, già Edilnord s.a.s. del socio piduista Berlusconi, si chiamava Cefinvest... Semplici, per quanto inquietanti, casualità? [...] gli intellettuali, questo Paese che li detesta e li disprezza fino a ucciderli, a farsi carico della giustizia. Perché la porta della giustizia, come ricorda Walter Benjamin emblematicamente citato da D’Elia, è lo studio, la volontà di capire. E se i tribunali chiudono porte e indagini, non può e non deve tacere l’intelligenza dell’intellettuale e la sua ricerca della verità. Ma, come già sapevano gli antichi, la verità genera odio. Odio omicida, nel caso di Pasolini - come scrive D’Elia: «Pasolini con Petrolio ha scritto la critica dell’economia politica delle stragi in Italia, prefigurando il passaggio dal regime di Cefis (nell’ombra) al regime del Caf (Craxi- Andreotti- Forlani) e poi di Berlusconi.

Odio censorio e repressivo nel caso del libro di D’Elia, la cui recensione è stata “sconsigliata” nelle redazioni dei principali quotidiani nazionali (e sappiamo che ci sono mille modi, uno più subdolo dell’altro, per mettere a tacere una notizia). Come dire: Mattei, e quanto ne consegue, fa paura ancora oggi.

da Pasolini.net

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