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martedì 21 luglio 2009

IL TAR DI LECCE FERMA L'IMPIANTO EOLICO DI GIUGGIANELLO

Italia Nostra ed i Comuni di Terre d’Oriente hanno ottenuto l'annullamento dell’autorizzazione unica per la costituzione dell'impianto nella zona delle serre, in territorio comunale di Giuggianello

GIUGGIANELLO - Il round al Tar di Lecce s’è concluso a favore di Italia Nostra, che ha avuto alla meglio su Regione Puglia e Wind Service Srl in merito alla realizzazione di un impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica della potenza di 24 Mw,con un progetto che prevedeva 12 pale da collocare all’interno del territorio comunale di Giuggianello, e per l’esattezza nella zona delle serre, sulla Collina conosciuta come “Dei Fanciulli e delle Ninfe”. Il Tar, con sentenza pubblicata il 18 luglio, ha dunque annullato l’autorizzazione unica per la costituzione del parco eolico nella zona, caratterizzata da rinvenimenti archeologici (fra cui il “Masso della Vecchia” e “Monte San Giovanni”) ed un tipico paesaggio rurale, con ulivi monumentali e muretti a secco.

Nel ricorso proposto da Italia Nostra, associazione nazionale volta alla tutela dei beni culturali e naturalistici, era intervenuta anche l’Unione dei Comuni di Terre d’Oriente, costituita dai Comuni di Poggiardo, Otranto, Muro Leccese, Uggiano La Chiesa e Giurdignano. Il Tar ha dunque riconosciuto fondati sette dei motivi avanzati dagli avvocati Andrea Memmo e Valeria Pellegrino, che hanno agito per contro dell’associazione ambientalista e dell’unione di Comuni. Il collegio (presidente Aldo Ravalli, relatore Massimo Santini) ha affermato l’illegittimità della mancata convocazione alla conferenza di servizi indetta dalla Regione Puglia per acquisire tutti i pareri necessari al rilascio della predetta autorizzazione della Soprintendenza archeologica, dei Comuni di Sanarica, Giurdignano e Poggiardo, oltre che del comando provinciale dei vigili del fuoco, ma anche il difetto d’istruttoria in merito all’interesse storico ed archeologico dell’area oggetto di intervento, dato che emergono le rilevanze storica, archeologica ed antropologica della zona.

E ancora: riconosciuta la violazione dell’articolo 12 del decreto legislativo numero 387/2003 che disciplina l’autorizzazione alla costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica derivanti da fonti rinnovabili e prescrive l’obbligo di tenere conto e di contemperare l’interesse all’incremento di tali strutture, incentivate dalla normativa comunitaria e nazionale a seguito del protocollo di Kioto sui cambiamenti climatici dovuti all’effetto serra, e gli interessi del “patrimonio culturale” e del “paesaggio rurale” che dal loro insediamento potrebbero essere irrimediabilmente sacrificati, così come riconosciute anche la mancata acquisizione della valutazione di compatibilità paesaggistica richiesta dal piano urbanistico territoriale per la tutela del paesaggio in relazione al tipo di zona (classificata dallo stesso piano come ambito territoriale C) e d’intervento da autorizzare e la violazione della legge della Regione Puglia che tutela gli ulivi monumentali.

Soddisfazione da parte degli avvocati Pellegrino e Memmo per la sentenza del Tar che, spiegano, “fissa importanti principi di carattere generale sia in merito alla partecipazione al procedimento che in merito all’obbligo di una valutazione comparativa tra l’interesse alla tutela dell’ambiente mediante l’incremento della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e l’interesse alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio rurale che la costruzione di detti impianti può inevitabilmente pregiudicare”. Soddisfazione anche da parte del Forum Ambiente e Salute, rete di associazioni ambientaliste locali, che vigila a tutela del paesaggio e dell’ambiente salentino.

da LeccePrima

Estate: Ministero Salute, ecco le coste non balneabili nel salento


Puglia/salento - Quali sono i tratti di costa italiana non balneabili? Sul sito del ministero della Salute è attivo un monitoraggio in tempo reale delle spiagge off limits per inquinamento o per la presenza di parchi marini, zone militari, porti e aeroporti.

Uno strumento di facile consultazione sia per il cittadino in procinto di partire per le vacanze, sia per gli organismi politici e tecnici. L'aggiornamento avviene sulla base delle ordinanze dei sindaci, i quali rendono esecutivi i divieti di balneazione emessi dalle regioni. Le ordinanze comunali vengono tempestivamente inviate al Ministero, che provvede alla loro pubblicazione online.

Per quanto riguarda la costa salentina da segnalare:

Tratti di costa non balneabili per inquinamento: a Gallipoli 7.118 mt di costa nella zona antistante la città vecchia; a Nardò 983 mt in località Torre Inserraglio; ad Otranto 1.047 mt in località scarico di Punta San Nicola; a Tricase 1.039 mt in località scarico canale del rio; ad Ugento .1039 mt in località Canale Amarea-Punta Macalone e 1.218 mt in località scarico Torre San Giovanni; a Vernole 911 mt in località San Cataldo.
Tratti di costa non balneabili per motivi diversi dall’inquinamento: a Lecce mt. 4.390 in località Torre Venere; a Otranto 202 mt in località Bacino Portuale; a Santa Cesarea Terme 336 in località Porto Miggiano.
Tra le coste più inquinate quella campana: non balneabile l'area di Castel Volturno, e di Sessa Aurunca, ma anche le spiagge di Ercolano, quelle di Giugliano e Bagnoli, e diverse aree di Torre Annunziata e Torre del Greco, oltre a praticamente tutta la costa nel salernitano.

Ma anche in Sardegna alcune zone sono off limits, a partire da Quartu Sant'Elena (un chilometro e mezzo inquinato), Sant'Antioco (nei pressi del depuratore), Orosei e Arzachena, sempre nei pressi di foci e scarichi. Persino un tratto di oltre due chilometri di costa a La Maddalena risulta inquinato nei pressi del porto.

In Sicilia a rischio la costa dell'agrigentino e di Gela, ma anche a Bagheria e nel palermitano diversi chilometri sono non balneabili. Così come nel Lazio sono tabù numerose spiagge della provincia di Latina, tra Formia e Gaeta, oltre ai quattro chilometri di costa a Fiumicino.

Decisamente migliore la situazione in Toscana, dove l'unico tratto interdetto di un certo rilievo è nel pisano, oltre tre chilometri nei pressi di alcune foci.

di Antonio Romano da IlPaeseNuovo

Apo Ocalan prepara la pace

Eppur si muove. Nonostante il governo turco faccia di tutto per dare del paese un’immagine di stabilità, il paese di Ataturk è in fermento. Migliaia di persone scendono in piazza quasi quotidianamente per chiedere al governo di accettare la proposta di pace del Pkk. La società civile si ribella contro l’ingerenza dell’esercito negli affari politici del paese. I sindacati rivendicano il loro ruolo sfidando una legislazione che li penalizza escludendoli da molti luoghi di lavoro. Le donne prendono la parola per dire basta a una violenza domestica e più in generale di genere sempre più pesante. Gli omosessuali occupano le strade per chiedere rispetto.
Ieri si è aperto il secondo processo Ergenekon. La Gladio turca è alla sbarra e il pm chiede l’ergastolo per i generali Sener Euygur e Hursit Tolon, accusati di essere ai vertici dell’organizzazione che negli anni ha ordinato omicidi, pianificato golpe e fatto «sparire» centinaia di attivisti politici e sindacali. Insieme ai generali altre 54 persone sono imputate. Tra loro giornalisti, il presidente della camera di commercio, la moglie di un giudice della corte costituzionale. Altri 86 imputati sono sotto processo dallo scorso ottobre. L’udienza di ieri è stata aggiornata al 6 agosto. Ergenekon è venuta alla luce dopo la scoperta di 27 bombe a mano, il 12 giugno 2007, in una casa di Umraniye, a Istanbul. La casa era di proprietà di un generale dell’esercito in pensione. L’analisi delle bombe ha confermato che erano le stesse utilizzate in un attentato contro la redazione del quotidiano Cumhuriyet, nel 2006.
Ma gli occhi dei commentatori turchi sono da qualche giorno puntati su Imrali, l’isola-carcere in cui da dieci anni è detenuto Abdullah Ocalan. Il leader del Pkk ha fatto sapere tramite i suoi avvocati che tra metà agosto e il 1 settembre renderà pubblica la sua road map. Una proposta di pace che starà al governo turco decidere se cogliere o meno. Il Pkk dal canto suo ha prolungato il suo cessate il fuoco unilaterale fino al primo settembre proprio per consentire al presidente Ocalan di terminare la stesura della «yol haritasi», la road map appunto. Un documento che conterrà le proposte e le considerazioni che in questi mesi sono state discusse e approvate in Kurdistan, Turchia e Europa. Dagli intellettuali alle organizzazioni kurde della società civile, dai rappresentanti politici kurdi ai guerriglieri, tutti hanno avuto occasione di dire la loro sulla formulazione di una proposta per una soluzione negoziata del conflitto kurdo-turco. Nelle settimane scorse Murat Karayilan, membro del comitato centrale del Pkk, ha rilasciato un’intervista al giornalista di Milliyet Hasan Cemal. «Nessuno - dice Karayilan - può sconfiggere il Pkk militarmente e questo è ampiamente dimostrato dal conflitto in atto ormai da 25 anni». «Quando entrambe le parti coinvolte nel conflitto avranno cessato le azioni militari - prosegue -, il passo successivo è negoziare con Abdullah Ocalan. Se la Turchia non vorrà negoziare con Ocalan, l’alternativa è negoziare con la leadership del Pkk. Se anche questo non sarà accettato, l’alternativa è negoziare attraverso il Dtp o un "comitato di saggi", composto da persone rispettate, che potrà avviare un dialogo con lo stato».
Quanto alla deposizione delle armi, come precondizione, Karayilan è chiaro. «Deporre le armi è una fase successiva. Prima le armi devono essere mute. Nessuno deve usarle. Nella prima fase le armi saranno mute, quindi comincerà il dialogo». La richiesta del Pkk è di «un Kurdistan democratico e autonomo. Quello che intendiamo per autonomia non significa federazione. Non si tratta di ritracciare confini. Quella che proponiamo è una soluzione che preserva l’unità dello stato».

Martedì 21 parte il nuovo blog di Orsola Casagrande: notizie da Kurdistan, Paesi Baschi e Irlanda del Nord che non troverete facilmente altrove

di Orsola Casagrande da Il Manifesto

Nel nome di Carlo Giuliani


«Se cercate Carlo guardate il mare» ha detto Haidi Giuliani ieri in occasione della manifestazione che ogni anno si tiene a piazza Alimonda per ricordare quel 20 luglio 2001 quando alle 17,25 e non a e 27, come ha sottolineato il padre Giuliano Giuliani, venne sparato il primo colpo che uccise Carlo dal defender durante il G8 genovese. È stato Gogo, un compagno di scuola di Carlo a leggere un componimento che Carlo scrisse anni fa alla famiglia in cui c’è la sentenza a morte di un uomo con tanto di lettera alla moglie, condanna in latino e motivazioni delle colpe in francese. «Carlo aveva una grande facilità di scrittura e scriveva queste cose a noi, chiuso in una stanza per pochi minuti. Purtroppo quello che sembrava uno scherzo è stata una tragica profezia. Quale corpo fu più esposto del suo?», commenta Haidi. La condanna in latino prevede infatti che il corpo sia esposto appunto al pubblico ludibrio.
Il Comitato ha scelto di concentrarsi nuovamente in piazza Alimonda dove d’altra parte il 20 di ogni mese c’è un appuntamento fisso. Accanto alla cancellata della piazza c’erano ieri fogli stesi come panni con i perché di un’inchiesta affossata e archiviata. Ad esempio «perché il nome di Raffone che dicono essere l’altro occupante della jeep compare solo sabato mattina alle 12,30?» oppure «perché dei vari occupanti della jeep interrogano solo l’autista Cavataio e Placanica?» o ancora «perché il generale Desideri e Truglio decidono di parlare di un politraumatizzato mentre il 118 arrivato già da un quarto d’ora ha già dato conto del foto di un proiettile sotto l’occhio sinistro?».
Tra la folla ci sono i portavoce del Genoa social forum di allora, Vittorio Agnoletto e Alfio Nicotra e anche il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero: «Sono tornato come quasi tutti gli anni perché penso che c’è un valore della memoria. Non ricordare è uccidere due volte – dice Ferrero - È un dovere morale e politico. Se lo stato protegge pezzi dei suoi, è bene che si continui a chiedere giustizia». Sulle responsabilità degli alti vertici al potere torna anche Vittorio Agnoletto: «Sono le verità che fanno paura a questo stato. Hanno paura della Diaz e di Bolzaneto anche se è stata acquisita la verità in sede giudiziaria. Su Carlo non si vuole cercare la verità. L’unica speranza è che dalla Corte europea arrivi l’ingiunzione a riaprire il processo. Placanica probabilmente non è il responsabile. Il vero responsabile è coperto».
Tra la folla centinaia di persone arrivate dal Veneto, dalla Toscana, dal Piemonte e dalla Lombardia. Antonella, milanese, insegnante commenta che «era un manifestante che manifestava in modo pacifico» e che «ricordare è prendere coscienza dei fatti avvenuti per capirne l’importanza. Spiegare il proprio punto di vista senza temere ritorsioni». Giuliano Giuliani gira con una maglietta dei carcerati di Rebibbia «beato chi crede nella giustizia perché verrà giustiziato»: «A questo punto speriamo che sia favorevole la sentenza della Corte europea, che ci restituisca la giustizia che in Italia ci è stata negata», commenta.
Il giornalista Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime del pestaggio alla Diaz (oggi modera un dibattito nel circolo Arci di San Fruttuoso prima della fiaccolata alla scuola) torna a ribadire che «quello che abbiamo visto 20 e 21 luglio sono incompatibili con una democrazia», poi guardando la folla «siamo consapevoli che siamo una minoranza. Non credo che debbano esserci decine di migliaia di persone. La gente che è qui ha molto da dire. Che siano tanti o pochi è irrilevante».
Ad ascoltare e guardare ci sono anche dei ragazzi che sicuramente al G8 2001 non c’erano. «Avevo 12 anni – ammette Chiara - mia mamma mi ha portato un dvd a casa. Ho capito che ci sono stati dei soprusi e che alla fine non hanno dato la colpa al carabiniere e poi sono qui per solidarietà». Dalla Toscana arriva anche uno cuoco bergamasco, Danilo, 18 anni: «Mi dà fastidio che sia passata la storia che stava attaccando i carabinieri. Hanno manipolatole le notizie. Stava resistendo a un’ingiustizia». In piazza anche due nigeriane portate da Francesca, genovese: «Erano davanti alla tv ho spiegato che cosa andavo a fare e hanno sentito la necessità di venire, anche se otto anni fa non erano neppure in Italia. Chissà perché non fanno altrettanto i genovesi». Tommaso un toscano adottato da Genova ricorda il panico, la paura e i lacrimogeni di sabato 21 luglio 2001 in corso Italia «fu traumatico erano luoghi che conoscevo. Genova era già la città del cuore. Rimane una ferita aperta». Sotto a tante parole le note di Renato Franchi & l’Orchestrina del Suonatore Jones, Alessio Lega con «Cantacronache di ieri e di oggi», Marika, Pier e Fabio con «Bricchi, Gotti e Lambicchi» e Marco Rovelli col suo gruppo «libertAria».

di Alessandra Fava da Il Manifesto

Bergamo: Blitz degli antifascisti alla messa di padre Tam ·

Cimitero di Bergamo - Camerati, nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo". Inizia con questa insolita formula la messa officiata da don Giulio Maria Tam nel cimitero di Bergamo. Un raduno nostalgico perfetto in ogni particolare. Almeno fino al blitz della "Bergamo antifascista".

Blitz degli antifascisti alla messa di padre Tam"Camerati, nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo". Inizia con questa insolita formula la messa officiata da don Giulio Maria Tam nel cimitero di Bergamo. Il prete in camicia nera, balzato agli onori delle cronache dopo il saluto romano durante l'inaugurazione della sede di Forza Nuova, è intervenuto per rendere omaggio a tre "martiri della repubblica sociale italiana, crocifissi dai comunisti": Gino Lorenzi, Mario Conticelli, Walter Taboni. Presenti alla funzione, celebrata domenica mattina alle 10.30, circa una cinquantina di persone bardate di tutto punto: ci sono bersaglieri, alpini, croci, standardi, aquile. Un raduno nostalgico perfetto in ogni particolare. Almeno fino al blitz della "Bergamo antifascista". Proprio a pochi minuti dall'inizio dell'omelia di padre Tam, tra un "liberali e comunisti assassini" e l'altro, uno striscione si è srotolato da una gru posta dietro all'altare improvvisato. La scritta, "Bergamo è antifascista", non ha però rovinato la festa agli anziani "camerati", rimasti immobili di fronte agli occhi fiammeggianti di padre Tam, che senza dire nulla ha continuato il suo sermone. Più preoccupate le giovani leve, che dopo qualche minuto di smarrimento, hanno inviato un coraggioso sulla gru a staccare lo striscione, poi sequestrato dalla Polizia presente in forze.
Ecco il comunicato invato da Bergamo antifascista. "Torna ancora una volta a fare capolino a Bergamo il revisionismo storico, con il suo odioso armamentario fatto di menzogne e riscrittura della Storia: protagonista di questa vergognosa operazione è padre Giulio Tam, il "prete in camicia nera", un sacerdote sospeso a divinis dalla Chiesa che ha celebrato una messa al cimitero di Bergamo per ricordare il sotto tenente repubblichino Gino Lorenzi, a detta dei nostalgici "martire della barbarie partigiana". Gli antifascisti di Bergamo - prendendo esempio dai Ribelli della Montagna di Rovetta - non sono stati a guardare, hanno messo in campo una risposta intelligente ed efficace: 6 manichini "fucilati" sono stati appesi alle luci dell'alba fuori dalla sede de "l'Eco di Bergamo" a ricordare i 6 civili inermi fatti trucidare a Gaiarine (TV) da questo "martire" nonchè, durante la commemorazione - che riuniva il peggio della canaglia fascista - magicamente uno stereo sparava a tutto volume le note di "Bella Ciao" e di altri canti partigiani e dalla gru di un cantiere vicino veniva misteriosamente srotolato un enorme striscione che ricordava che la nostra città è antifascista, creando sgomento e rabbia negli occhi torvi dei nostalgici del Ventennio. La Storia non si riscrive, respingiamo qualsiasi attacco strumentale a chi ha liberato l'Italia e i tentativi di distorsione della Storia".

Lunedi 20 Luglio 2009

http://www.bergamonews.it/bergamo/articolo.php?id=13534

da Antifa

OBAMA, GIA' FINITA LA LUNA DI MIELE CON GLI AMERICANI

WASHINGTON - E' durata esattamente 180 giorni la luna di miele tra il presidente Barack Obama e gli americani. Un sondaggio conferma oggi una sensazione già percepibile nel paese: dopo sei mesi la gente vuole risultati concreti, soprattutto sul fronte economico, e la popolarità dell'inquilino della Casa Bianca comincia a perdere quota. Per la prima volta il livello di approvazione di Obama è sceso sotto il 60 per cento (in un sondaggio Washington Post/ABC) con una caduta del sei per cento in poche settimane. E per la prima volta il sostegno degli americani per la grande e difficile battaglia che il presidente Usa sta combattendo sul fronte della riforma sanitaria è sceso sotto il 50 per cento. E' un momento temuto, ma anche previsto, dalla Casa Bianca: la 'crisi economica di Bush' è diventata inevitabilmente 'la crisi di Obama' e gli appelli agli americani ad avere pazienza stanno cominciando a trovare una accoglienza sempre più fredda. Obama sembra particolarmente vulnerabile alla accusa di sostenere un modello di riforma sanitaria che produrrà un notevole aumento del deficit federale: una accusa che non è lanciata solo dai repubblicani ma anche dagli indipendenti e soprattutto anche da molti democratici.

Mentre in aprile il 57 per cento degli americani approvava come Obama stava conducendo la battaglia per la riforma sanitaria adesso tale sostegno è sceso al 49 per cento. E mentre in gennaio il 51 per cento approvava un aumento delle spese federali per salvare l'economia adesso tale percentuale si é ridotta al 40 per cento. E' diventata così ancora più in salita per Obama la strada per far passare al Congresso la legislazione sulla riforma sanitaria, una battaglia già in partenza molto difficile (Bill Clinton venne sconfittò in modo bruciante nel 1994 insieme a Hillary alla quale aveva affidato la responsabilità di pilotare la riforma) ma diventata adesso ancora più difficoltosa per le esitazioni mostrate dai democratici, che in teoria dispongono della maggioranza sia alla Camera che al Senato ma che sono preoccupati per l'aumento del deficit. Obama ha due settimane di tempo, fino al sette agosto, per fare pressioni sul Congresso perché approvi la legislazione prima delle vacanze estive.

La approvazione alla Camera e al Senato di due testi diversi prima della chiusura estiva - inevitabile a causa della complessità della legislazione - consentirebbe poi agli sherpa parlamentari di usare l'intervallo estivo dei lavori per elaborare un testo congiunto evitando così perdite di tempo. E' questa speranza, che ci sia ancora il tempo di farcela, ad avere spinto Obama ad assumere da questa settimana in modo sempre più aperto e aggressivo il ruolo guida della battaglia per la riforma: oggi ha concesso una raffica di interviste, per mercoledì ha in programma una conferenza stampa e ad ogni discorso non perde occasione per martellare il concetto che "é adesso il momento", dopo 50 anni di vani tentativi, "per portare al traguardo la riforma". Obama può investire in questa lotta parte del grande capitale di popolarità conquistato col trionfo elettorale di novembre. Ma proprio per questo motivo i dati dei sondaggi, come quello odierno, che mostrano l'inizio della caduta della sua popolarità sono doppiamente insidiosi per l'inquilino della Casa Bianca che ha disperatamente bisogno di un successo concreto sul fronte del benessere degli americani.

di Cristiano Del Riccio da Ansa.it

IRAN: IL GRUPPO DI KHATAMI VUOLE UN REFERENDUM SU AHMADINEJAD

TEHERAN - La tenuta di un referendum popolare sulla rielezione del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad è stata chiesta oggi da un'importante organizzazione di religiosi riformisti iraniani, alla quale appartiene l'ex presidente Mohammad Khatami. Ma la Guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha invitato tutte le autorità a "fare attenzione a come parlano" e ha nuovamente accusato potenze straniere di essere dietro alle proteste contro la conferma di Ahmadinejad. L'Associazione del clero combattente ha affermato in un comunicato che "poiché milioni di iraniani hanno perso fiducia nel processo elettorale", l'unico modo per riguadagnarla è "l'organizzazione immediata di un referendum su ciò che è successo da parte di organi indipendenti". Anche l'ex presidente pragmatico Akbar Hashemi Rafsanjani, parlando venerdì come guida della preghiera a Teheran, ha affermato che il Paese attraversa "una crisi" e ha invitato il regime a fare tutto il possibile per riguadagnare la fiducia del popolo, compreso il rilascio di tutti gli arrestati. La liberazione degli arrestati, tra i quali figurano numerosi esponenti di primo piano del movimento riformista, è stato chiesto anche da Khatami in un incontro con i familiari di alcuni di loro, così come dall'ex candidato moderato Mir Hossein Mussavi.

Tenerli in prigione, ha affermato Mussavi, citato dal sito a lui vicino Ghalamnews, non risolverà la disputa sul risultato delle elezioni. E accusarli di essere in combutta con potenze straniere è "un insulto". Ma Khamenei, che ha legittimato la rielezione di Ahmadinejad, é tornato oggi ad accusare Paesi occidentali di avere fomentato le proteste di piazza con l'aiuto "dei loro mezzi d'informazione". Teheran ha affermato in particolare che la Gran Bretagna ha ordito un complotto contro le presidenziali e nove dipendenti iraniani dell'ambasciata britannica a Teheran sono stati arrestati il 27 giugno con l'accusa di avere avuto un ruolo nel fomentare le manifestazioni di piazza. L'ultimo di loro ancora in stato di detenzione, Hossein Rassan, è stato rilasciato ieri sera su cauzione. Ma l'ayatollah Khamenei ha anche avvertito che tutte le autorità dello Stato devono prestare "la massima attenzione" alle loro dichiarazioni. Un messaggio che sembra doversi mettere in relazione alle critiche pronunciate da Rafsanjani, seguite da nuove dimostrazioni di piazza e scontri con le forze di sicurezza.

"Se la nazione sente che nelle dichiarazioni fatte da certe autorità vi è un segno di ostilità verso il sistema islamico e certe mani sono al lavoro per aiutare un movimento che cerca di portare un colpo all'establishment, la nazione prenderà le distanze da quelle autorità", ha aggiunto la Guida suprema. Un ulteriore segnale di confusione è stato dato oggi dalla smentita di Esfandiar Rahim-Mashai di una notizia data ieri dalla televisione di Stato in inglese PressTv, secondo la quale aveva deciso di rinunciare alla carica di primo vice presidente alla quale l'ha nominato Ahmadinejad, che tra l'altro è suo consuocero. "E' una voce diffusa da qualcuno che vuole rovinare l'immagine del governo", ha detto Rahim-Mashai, che nei giorni scorsi era stato preso di mira da ambienti fondamentalisti vicini allo stesso presidente per avere detto lo scorso anno che l'Iran può essere "amico del popolo israeliano".

di Alberto Zanconato da Ansa.it

Corsi di formazione, Storace polemico con Vendola

Un corso di formazione gratuito per figure professionali riservato alle donne, di cui almeno il 30% destinato a donne immigrate con regolare permesso di soggiorno. E’ aperto non solo alle donne italiane il bando di ammissione, pubblicato lo scorso 13 luglio, per un corso di formazione della durata di 600 ore. L’obiettivo è creare delle figure professionali in grado di svolgere le operazioni di restauro dei manufatti in pietra leccese e del mosaico, con sede di svolgimento presso la scuola edile della provincia salentina. Ogni ora di frequenza del corso, in programma da settembre a febbraio, frutta 6 euro per le partecipanti. Il bando regionale sfrutta i fondi europei, i cosiddetti Por, e mira a raggiungere una quota non indifferente, il 30%, di figure professionali non italiane anche per favorirne l’integrazione.

Un bando che ha sollevato qualche polemica. In particolare il segretario nazionale de “La destra”, Francesco Storace, ha definito “bizzarro, estroso, versatile ed esagerato” il governatore Niky Vendola, a cui ha posto un interrogativo polemico: “Insegnare un mestiere agli italiani è un reato in Puglia?".

da RepubblicaBari

Lavori forzati e torture per gli eritrei deportati dalla Libia

Le testimonianze di alcuni eritrei respinti in Libia in questi ultimi anni dal governo italiano, a spese del governo italiano e con mezzi italiani. E ridotti in schiavitù.

L’Eritrea sta investendo molto nel turismo. Lungo il mar Rosso ad esempio, a metà strada tra Massawa e Assab, c’è un albergo a Gel’alo che nessun turista dovrebbe perdersi, specialmente se italiano. Se non altro perché è stato costruito da esuli eritrei costretti ai lavori forzati dopo essere stati arrestati sulla rotta per Lampedusa e rimpatriati dalla Libia su voli finanziati dall’Italia.
Proprio così. Non chiedete spiegazioni all’ambasciata eritrea, potrebbero fraintendere. Secondo la propaganda della dittatura infatti, quell’hotel è frutto del coraggio della gioventù eritrea, e in particolare delle forze armate, dal 2002 impegnate in un programma di sviluppo del paese, denominato Warsay Yeka’alo. Noi invece le spiegazioni siamo andate a chiederle agli unici tre che da quell’inferno sono riusciti a scappare e che oggi vivono in Europa. Hanno accettato di parlarci, ma sotto anonimato e a patto di non svelare la città dove oggi vivono sotto protezione internazionale.

I fatti risalgono al maggio del 2004. Un vecchio peschereccio diretto a Lampedusa con 172 passeggeri, in maggior parte eritrei, invertì la rotta dopo essere finito alla deriva e si arenò davanti alla costa libica. Nel panico generale si dettero tutti alla fuga, ma la maggior parte furono arrestati. Dopo un mese nel carcere di Misratah, vennero trasferiti in una prigione di Tripoli. D. aveva ancora le piaghe delle ferite aperte. Insieme a due amici erano stati picchiati e torturati per tre giorni in cella di isolamento per un fallito tentativo di evasione. Un giorno di buon mattino si presentò un’unità speciale dell’esercito. “Caricarono un gruppo di eritrei su un camion, nessuno di noi immaginava cosa sarebbe accaduto, pensavamo si trattasse dell’ennesimo trasferimento”. E invece no. Erano diretti all’aeroporto militare di Tripoli. Dove ad attenderli c’era un aereo della Air Libya Tibesti. Era il 21 luglio del 2004. Nel giro di 48 ore, sotto l’occhio discreto dell’ambasciatore eritreo a Tripoli, partirono altri tre aerei, che rimpatriarono un totale di 109 esuli.

Ad attenderli all’aeroporto di Asmara c’era l’esercito. Dopo un rapido appello furono caricati su dei camion militari e portati a Gel’alo, sul mar Rosso. Non era un carcere, ma un campo di lavori forzati. Fuori città, in una zona arida e isolata. La struttura era circondata da un fitto bosco di arbusti spinosi, che rendevano impossibile ogni tentativo di fuga. Mantenuti sotto strettissima sorveglianza, ogni giorno marciavano scortati dai militari armati per lavorare al cantiere del nuovo albergo di Gel’alo, simbolo del progresso dell’economia del Paese. I prigionieri erano circa 500. C’erano i cento deportati dalla Libia e i duecento deportati da Malta due anni prima, nel 2002. Gli altri erano disertori dell’esercito arrestati lungo la frontiera mentre tentavano di fuggire clandestinamente dall’Eritrea verso il Sudan. La giornata tipo iniziava con l’appello, alle cinque del mattino e poi dalle sei al lavoro nei cantieri, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti, in una delle zone più calde del deserto eritreo, dove le temperature sovente superano i 45°. Per pranzo e per cena il menù era pane e acqua. Rimasero in quelle condizioni per dieci mesi, fino al 30 maggio del 2005. Dopodiché furono trasferiti nel campo di addestramento militare di Wi’yah per essere reintegrati nell’esercito, per il servizio di leva a vita. Tutto questo senza essere autorizzati a ricevere visite o telefonate dei propri familiari, tenuti all’oscuro del loro destino.

La loro storia è confermata da un quarto testimone. Si tratta di uno dei 232 esuli eritrei rimpatriati da Malta nel settembre del 2002 e intervistato dalla documentarista eritrea Elsa Chyrum nell’agosto del 2005. Testimone oculare della morte per stenti di alcuni dei prigionieri per la durezza delle condizioni di lavoro, la denutrizione e la mancanza di cure. “Tutti sanno – dice – che Alazar Gebrenegus, del gruppo dei deportati da Malta, morì per la mancanza di cure, implorando un’arancia”. E se la fame, la sete e il caldo non erano abbastanza, continua il rifugiato, “i prigionieri erano continuamente picchiati”.

Anche questa notizia trova conferma in una terza fonte. Nel rapporto “Service for Life”, pubblicato lo scorso 20 aprile da Human Rights Watch, c’è un intero capitolo dedicato alle torture. Elicottero, otto, ferro, Gesù Cristo, gomma. I nomi in italiano delle tecniche di tortura lasciano supporre che siano eredità delle nostre forze coloniali. Il rapporto conferma che un gruppo di 109 eritrei venne rimpatriato nel 2004 dalla Libia e si sofferma anche sul destino dei rimpatriati da Malta nel 2002. Vennero rinchiusi nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Dahlak Kebir, in celle sotterranee, in condizioni di estremo sovraffollamento, e tenuti alla fame.

Quasi tutti i 3.000 eritrei sbarcati nel 2008 in Italia hanno ottenuto un permesso di soggiorno di protezione internazionale. Eppure l’Italia fa di tutto per bloccarli prima. E non è soltanto la storia dei 76 eritrei respinti in Libia lo scorso primo luglio. Né dei 700 che da tre anni sono nel carcere di Misratah, in Libia. È una storia che inizia proprio con E., D. e M. Già, perché i quattro voli che deportarono il gruppo di 109 rifugiati furono commissionati e pagati dall’Italia, all’interno degli accordi di cooperazione contro l’immigrazione firmati nel 2003 con Gheddafi. Lo dice un documento riservato della Commissione Europea. C’era anche un quinto volo, ma non arrivò mai a destinazione. Perché fu dirottato. Proprio così. Era il 27 agosto del 2004. Gli 84 passeggeri presero il controllo dell’aereo e atterrarono a Khartoum, dove vennero riconosciuti come rifugiati politici dalle Nazioni Unite. Peccato, avrebbero potuto contribuire anche loro al Warsay Yeka’alo Program

tratto da http://fortresseurope.blogspot.com

da Carta

Corte dei diritti umani: il sovraffollamento carcerario è tortura. Italia condannata.

Il signor Kalashnikov è stato il primo cittadino-detenuto a ricorrere alla Corte europea dei diritti umani e a ottenere una condanna di uno stato (nel suo caso la Russia) per gli effetti tragici del sovraffollamento carcerario.
Il signor Izet Sulejmanovic è stato il secondo a ricorrere dinanzi ai giudici europei e a vincere, seppure soli mille euro. In questo caso a essere condannata per trattamenti inumani e degradanti simili a tortura non è stata la Russia ma la nostra Italia. Izet Sulejmanovic per alcuni mesi è stato costretto a vivere nel carcere romano di Rebibbia in soli 2,7 metri quadri (vedi la sentenza Sulejmanovic della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo).
Vivere in un ambiente così ristretto significa non avere spazio per scrivere, stare seduti, muoversi. Significa perdere la riservatezza quando si va in bagno. Significa di fatto stare sempre stesi a letto.
Il Comitato europeo per la prevenzione della Tortura - Cpt, organismo ufficiale del Consiglio d’Europa - ha affermato che lo spazio minimo per un detenuto in una cella singola non può essere inferiore a 7 metri quadri; in una cella multipla ogni detenuto deve avere invece almeno 4 metri quadri a disposizione.

La vergognosa condanna europea del nostro paese è avvenuta nonostante il dissenso - incomprensibile se non per una sorta di spirito di corpo nazionale - del giudice italiano Vladimiro Zagrebelsky.
La capienza regolamentare del nostro sistema penitenziario è di 43mila posti Ietto. Una capienza definita in base agli standard minimi del Cpt di Strasburgo. Oggi i detenuti sono oltre 64mila. Con gli attuali ritmi di crescita saranno 100mila alla fine del 2012.
Ogni detenuto in più oltre la capienza regolamentare quindi vive in spazi non legali e - a dire della Corte europea - inumani e degradanti al punto da configurare una ipotesi di maltrattamento risarcito con mille euro.

A Brescia o a Sassari in 8 metri quadri vivono sei o sette detenuti. Ci sono casi in cui si dorme in letti a quattro piani, dove il piano terra coincide proprio con il pavimento. A Bolzano in poco più di 10 metri quadri vivono dodici detenuti. All’Ucciardone di Palermo in 16 metri quadri dormono sedici detenuti. Uno al metro. Dormono, anche perché non possono fare altro. È difficile stare tutti in piedi contemporaneamente. A Poggioreale a Napoli i detenuti sono 2.700, stipati in una prigione con una capienza di 1.300 posti.

Di fronte a una situazione così drammatica, il parlamento italiano introduce nuovi reati creati dal nulla (immigrazione clandestina) e il ministero della Giustizia presenta un piano di edilizia penitenziaria inutile e privo di copertura finanziaria.
E' lo stesso Comitato di Strasburgo a sottolineare come nuove carceri non abbiano mai risolto il problema dell’affollamento e servono solo ad aumentare i tassi di carcerazione. Siamo in una condizione oggettiva di violazione dei diritti umani certificata da organismi sovranazionali.

Basterebbe un’unica norma per tornare alla normalità: depenalizzare del tutto il consumo di droghe. Libereremmo in questo modo circa 20mila posti inutilmente occupati da tossicodipendenti e piccoli spacciatori costretti al reato da una legge proibizionista. Oggi il nostro sistema carcerario è definito dagli organismi internazionali oggettivamente disumano e degradante, tanto da giustificare un risarcimento economico.

Speriamo che la Corte sia inondata di ricorsi che mettano in crisi (di immagine ed economica) il nostro sistema. Noi siamo a disposizione di quei detenuti che vogliano citare in giudizio lo stato italiano: difensorecivico@associazioneantigone.it.
Un modo democratico per sovvertire uno stato ingiusto.

da IndymediaRoma

Maged Al Molky desaparecido: un altro omicidio di stato?

Quella che segue è la ricostruzione in sintesi di quanto accaduto di Youssef Maged al Molky, espulso dall'italia in Siria in violazione delle più elementari norme giuridiche, e desaparecido da oltre 20 giorni. L'invito è a tutte le realtà in Italia a mobilitarsi per far luce sulla vicenda.
«Mi hanno usato come merce di scambio fra Italia e Siria. Mi stanno mandando verso la morte». Sono le ultime parole, una disperata denuncia lanciata con il cellulare, pronunciate lo scorso 27 giugno da Youssef Maged Al Molky, 47 anni, il palestinese ritenuto tra i principali responsabili del sequestro della nave da crociera Achille Lauro, avvenuto nel 1985, ed espulso improvvisamente dall’Italia con destinazione Siria.

Al Molky, condannato a 30 anni di reclusione dalla Corte d’Assise di Genova per quel sequestro e l’uccisione di un passeggero statunitense di origine ebraica, Leon Klinghofer, ha scontato 23 anni e 8 mesi di carcere, pena ridotta per buona condotta. Appena uscito dall’Ucciardone, nell’aprile scorso, aveva ricevuto un ordine di espulsione nei confronti del quale hanno però fatto ricorso i suoi legali, Gianfranco Pagano, del foro di Genova, e Maria Stella Pagano, di Palermo. Secondo i legali, Al Molky, nato in Palestina da padre giordano e madre siriana, e sposato da 5 anni con una donna italiana che vive in Piemonte, «non ha una cittadinanza riconosciuta, è sposato in Italia e secondo la sentenza deve ancora scontare tre anni di libertà vigilata». In attesa della decisione del giudice di pace di Palermo sul ricorso, Al Molky è stato rinchiuso nel centro per immigrati Serraino Vulpitta di Trapani. A sorpresa sabato 27 giugno, mentre ancora si attendeva la sentenza del giudice di pace, Al Molky è stato prelevato dalla polizia e condotto a Roma da dove a tarda sera è stato imbarcato su un aereo con destinazione Damasco. Secondo quanto riferito alla moglie prima che fosse privato del telefono cellulare, all’uomo sarebbe stato consegnato un lasciapassare della Siria con il quale il Paese arabo accetta di accoglierlo sul suo territorio. «Vado verso la morte» ha continuato a ripetere Al Molky durante il trasferimento da Palermo a Roma. Ed il suo avvocato, da Genova, ha confermato che «poichè molti reati legati alla vicenda dell’Achille Lauro furono compiuti nelle acque territoriali siriane, le possibilità che possa essere condannato a morte sono molto alte». Il legale genovese chiarisce anche che nelle scorse settimane, su interessamento dell’Autorità palestinese, l’Algeria si era dichiarata disposta ad accogliere Al Molky, ma l’uomo si era rifiutato di accettare la proposta ritenendo che, essendo sposato con una italiana, potesse rimanere a vivere in Italia al fianco della moglie.

Nonostante il giudice non si fosse ancora pronunciato (la sentenza, che ha respinto il ricorso, è giunta solo nei giorni scorsi), nonostante la sentenza della corte d'assise di Genova per il sequestro Lauro prevedesse anche 3 anni di libertà vigilata, e soprattutto nonostante sia sposato con una cittadina italiana, l'uomo è stato trasferito in Siria dove rischia una condanna a morte.



Di seguito, l’ultima parte di una testimonianza scritta della moglie di Al Molky, Carla Biano.



“Alle 15.00 del 27 giugno Maged è stato prelevato e portato all’aeroporto di Palermo e da lì a Fiumicino. Nel frattempo sono stati avvisati i giornalisti che l’hanno contattato per sapere cosa stava succedendo. Una giornalista (mi pare dell’Ansa di Genova) ha telefonato al ministero il quale spudoratamente ha risposto che era solo un cambio di cpt e che sarebbe stato portato al cpt di Roma. Perchè tutto di nascosto, falsando le cose? Tutto fatto di sabato con gli uffici chiusi per cui non si è potuto avvertire neanche la rappresentanza palestinese. Alle 19.00 Maged mi telefona per l’ultima volta da Roma dicendomi che da quel momento non poteva più telefonare perchè gli portavano via il cellulare. Appena glielo ridavano mi avrebbe richiamata.

E’ partito da Fiumicino alle 22/22.30 accompagnato da due poliziotti italiani. Arrivato a Damasco mi ha telefonato, alle 2.45 di domenica 28 giugno. Da quel momento…..è sparito.

E’ stato fatto sparire.

Il governo italiano, il ministero dell’interno, quello della giustizia, hanno fortissime responsabilità. Ritengo ci sia stata una violazione di tutte le leggi, anche quelle internazionali; espulso ancor prima che un magistrato emettesse la sua sentenza, sentenza di una corte d’assise violata (aveva ancora 3 anni di libertà vigilata da scontare), espulso in un paese dove (essendo alcuni reati commessi sull’Achille Lauro avvenuti in acque territoriali siriane) può essere riprocessato e condannato a morte nonostante sia già stato condannato dall’Italia e nonostante abbia passato 23 anni ed 8 mesi in carcere.

Quali garanzie ha dato la Siria all’Italia sull’incolumità di Maged? L’Italia gliele ha chieste queste garanzie?

Fatto sta che Maged, dal momento che è arrivato in Siria l’hanno fatto sparire.


Vi ringrazio per l’attenzione.

Carla

da Indymedia

Strategie contro l’estrema destra

Emarginare gli estremisti o allearsi con loro? Secondo Ian Traynor molti li disprezzano, ma poi li copiano.

Baronesse, nobili conservatori, collaboratori del partito laburista, giornalisti ed eurocrati trangugiavano bollicine e sgranocchiavano tartine al formaggio. Ma qui, al quarto piano dell’imponente edificio cilindrico che ospita il parlamento europeo a Strasburgo, l’argomento principale mercoledì scorso erano i britannici in Europa.
E ci si tappava metaforicamente il naso quando il pettegolezzo passava ai due nuovi parlamentari europei in arrivo dall’Inghilterra: Nick Griffin e Andrew Brons del Partito nazionale britannico (Bnp). Erano gli unici a non essere stati invitati al ricevimento a base di champagne offerto dal governo.

Questo è uno dei modi con cui si affronta l’estrema destra: escluderla dalla società per bene e sperare che scompaia. Questa strategia potrà anche funzionare in Gran Bretagna, dove il Bnp è visto dalla classe politica come un fenomeno di disturbo, ma non minaccioso. Ma nel resto d’ Europa, dove il governo di coalizione e la rappresentatività su base proporzionale sono la regola, l’estrema destra – che sia razzista, neofascista, xenofoba o solo populista – non sta sparendo per nulla.

In Italia l’estrema destra è nel governo e occupa i posti principali delle istituzioni. In Austria governa parte del paese. Nei Paesi Bassi è riuscita a trasformarsi nel secondo partito del paese. In Polonia è stata cooptata dal principale partito d’opposizione e, come in Slovacchia, ha fatto o fa parte del governo.

Un fascino pericoloso
L’estrema destra ha avuto raramente un periodo così buono. E il suo successo pone un problema ai partiti politici tradizionali d’Europa. Ma le risposte all’aumento dell’estremismo sono diverse. “Non c’è una linea paneuropea sistematica”, sottolinea Anton Pelinka, professore di scienze politiche dell’università di Budapest. “In Belgio o in Francia i partiti neanche si avvicinano all’estrema destra, mentre in Italia Berlusconi, un populista di destra, l’ha assorbita”.

Quando il nuovo parlamento europeo si è riunito, la settimana scorsa, tra i suoi ranghi c’erano gli antigitani ungheresi, i francesi negazionisti, gli olandesi antislamici, gli austriaci antisemiti, i razzisti italiani, i separatisti fiamminghi e, ovviamente, Griffin, per il quale l’islam è un cancro e che vorrebbe affondare in mare le imbarcazioni piene di immigrati. I gruppi principali del parlamento hanno prontamente cercato di emarginarli tutti, cospirando per mantenere gli estremisti fuori dai posti chiave e dalle commissioni.

Il giro per l’Europa, il quadro è vario. Prendiamo l’Italia. “Berlusconi ha cercato con grande impegno di formare un partito ponte”, ha detto James Walston, un professore all’American university di Roma. Ha assorbito la postfascista Alleanza nazionale e ha dato il ministero dell’interno alla Lega Nord, separatista e antimusulmana.

La strategia di Berlusconi di cooptare elementi di estrema destra e premiarli per il loro sostegno con l’adozione di alcune delle loro politiche, viene replicata in Polonia. L’opposizione di destra del partito Diritto e giustizia dei due fratelli Jaroslaw e Lech Kaczynski, ha assorbito due partiti antisemiti, antitedeschi e ultracattolici.

Il caso francese
Un approccio diverso è quello della Francia o delle Fiandre in Belgio, dove la destra e la sinistra, se necessario, si uniscono per mantenere l’estrema destra fuori dal potere.

Il caso più eclatante è stato quando, nel 2002, la sinistra francese ha votato per il gollista Jacques Chirac pur di mantenere il leader del Fronte nazionale, Jean-Marie Le Pen, fuori dall’Eliseo. Agli inizi di luglio lo stesso scenario è emerso in occasione di un’elezione municipale nel nord della Francia: il Fronte nazionale ha ottenuto più del 47 per cento dei voti, ma è stato battuto da un’alleanza tra sinistra e destra. “In Francia la strategia dell’esclusione ha funzionato”, osserva Pelinka. “Le Pen è quasi finito”.

Ma è una strategia che può funzionare solo se regge l’accordo tra centrosinistra e centrodestra. In Austria, per esempio, non è durata a lungo. I politici tradizionali come Berlusconi sconfiggono l’estrema destra copiando la loro politica e la loro retorica sull’immigrazione, la legge, l’ordine, il nazionalismo e l’euroscetticismo.

Questo articolo di Ian Traynor è uscito sul Guardian con il titolo If you can’t beat ‘em.

da Internazionale

Petrolio, tv, telefoni e pannolini di stato

“Bevi Uvita e diventerai padre a cent’anni”, “Usa pannolini Guayuquito e il bambino sarà felice”, “Chi non usa il telefonino Vergatario è un fallito”. Sono alcune delle pubblicità di prodotti statali trasmessi in Venezuela durante la trasmissione settimanale del presidente Hugo Chávez.Gli spot sono sempre più numerosi, anche perché sono sempre più numerose le aziende nazionalizzate. E saranno sempre di più. Se passerà il progetto Legge di proprietà sociale, al quale il parlamento sta lavorando da aprile, lo stato potrà “dichiarare la pubblica utilità e l’interesse sociale di beni, materiali e infrastrutture, che potranno essere dichiarati di proprietà sociale per soddisfare i bisogni della popolazione”.

Secondo El País, il governo (che nell’ultimo anno ha convertito in imprese di produzione sociale ben 12mila aziende appaltatrici della società petrolifera statale) ha anche invitato i lavoratori a “formarsi militarmente per la difesa della sovranità nazionale”, a creare, insomma, gli eserciti industriali di marxiana memoria.

Nonostante la minaccia di considerare come sospetto antirivoluzionario chiunque non aderisca a queste misure, il dissenso contro la legge cresce. E aumentano le campagne tv in difesa della proprietà privata, come quella del Centro di divulgazione del sapere economico (Cedice) secondo cui saranno i più poveri a rischiare di perdere tutto il loro patrimonio.

da Internazionale

PER PIAZZA ALIMONDA NON C'E' STATO UN PROCESSO

Il 20 luglio 2001 sono colpiti (d'ufficio) da avviso di garanzia per omicidio volontario i carabinieri Mario Placanica, ausiliario al sesto mese di servizio, e Filippo Cavataio, che era alla guida del Defender.
Si aprono così le indagini preliminari condotte dal PM Silvio Franz.
Il 27 agosto 2002 il PM Franz apre l'inchiesta per tentato omicidio a carico di tre manifestanti presenti in piazza Alimonda.
Il 2 dicembre 2002 il PM Franz avanza la richiesta di archiviazione per Mario Placanica (per legittima difesa) e per Filippo Cavataio (nell'autopsia, eseguita dai medici legali Marcello Canale e Marco Salvi, si esclude che il doppio passaggio del Defender sul corpo di Carlo gli abbia potuto procurare lesioni mortali).
Il 5 maggio 2003 la GIP Elena Daloiso decide per l'archiviazione delle indagini, non solo in nome della legittima difesa, come aveva chiesto il PM Silvio Franz, ma anche per "uso legittimo delle armi in manifestazione".
In seguito all'archiviazione dell'omicidio di Carlo cade l'accusa di tentato omicidio a carico dei tre manifestanti indagati, resta però aperta quella relativa a devastazione e saccheggio.

Con l'archiviazione si è voluto cancellare tutto.
· archiviate le circostanze che portano agli scontri in Piazza Alimonda
· archiviata la reale distanza di Carlo dal Defender
· archiviata la presenza di ufficiali di elite dei C.C. a pochi passi dal Defender, che risulta quindi tutt'altro che "isolato"
· archiviati i dubbi sull'identità di chi spara
· archiviate le stranezze "balistiche" della vicenda e le contraddittorie conclusioni dei periti del PM
· archiviato il primo depistaggio da parte della P.S.
· archiviata la ferita sulla fronte di Carlo

Quello che noi chiediamo è un processo, un pubblico dibattimento, che renda possibile discutere delle diverse ipotesi della parte civile, delle contraddizioni di Placanica negli interrogatori. Un processo con periti al di sopra delle parti, dove anche la parte civile abbia la possibilità di poter interrogare e controinterrogare i testimoni.

Vai alla pagina dell'indagine preliminare
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da PiazzaCarloGiuliani

Genova 2001: "noi non dimentichiamo!"


Venezia - Contestato l'ex ministro degli Interni Claudio Scajola

Venezia - L'ex ministro dell'Interno Scajola, oggi ministro per lo Sviluppo Economico, si stava recando in visita privata al Museo della Fondazione Vedova nel pomeriggio di sabato 18 luglio, quando è stato riconosciuto da alcuni giovani che si trovavano nei pressi dei Magazzini del Sale, che, ricordando il ruolo da lui avuto nel G8 2001, lo hanno circondato e hanno iniziato a inveire contro di lui urlandogli le parole "vergogna", "assassino", "Genova non si dimentica".

Immediatamente gli uomini della sicurezza del ministro si sono gettati sui giovani cercando di farli desistere dal continuare con la protesta. Ma di fronte alla tanta gente che popolava la riva limitrofa al ponte votivo del Redentore, e che si andava ad aggiungere al gruppo di contestatori, gli agenti hanno dovuto rinunciare ai loro propositi bellicosi e hanno impacchettato e letteralmente trascinato il ministro dentro l'edificio.

All'entrata di Scajola nel museo sono state molte le persone che si sono complimentate con i ragazzi e hanno espresso la loro solidarietà contro un personaggio chiave in quella che è stata la gestione del G.8 del 2001, nel massacro per le strade, nelle scuole e nelle caserme dove erano rinchiusi i manifestanti.

Dopo pochi minuti Scajola è stato fatto uscire dalla Fondazione utilizzando la porta di sicurezza sul retro per evitare di subire ancora gli insulti delle persone che lo attendevano all'ingresso principale.

A due giorni dall'anniversario della morte di Carlo, Venezia ha espresso il suo disgusto e il suo rifiuto per chi ha contribuito in maniera centrale alla vergogna che è stata la gestione repressiva e assassina del G.8 del 2001 a Genova.

da GlobalProject