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sabato 1 agosto 2009

Pescara - Una banda di poliziotti taglieggiatori e razzisti

L’inchiesta partita a maggio del 2009 e diretta con rigore e coraggio dal pm, Giuseppe Bellelli, che ha affidato le indagini ad un reparto della stessa polizia, la Squadra mobile, ha permesso di smascherare questo gruppo d’azione, i cui componenti facevano (ora sono stati sospesi) tutti parte del distaccamento della Polizia stradale di Pescara Nord.Il gip Luca De Ninis nell’ordinanza d’arresto li definisce «una banda di taglieggiatori in uniforme»: una associazione a delinquere che usava da tempo una tecnica collaudata per cercare di spillare soldi agli autotrasportatori stranieri che avevano la sventura di essere fermati.
Invece della multa (a volte non necessaria) veniva proposto di pagare una somma (dai 10 euro ai 250) per proseguire il viaggio senza problemi.
Ai domiciliari sono così finiti Cristian Micaletti, 37 anni di Milano, residente a Francavilla al Mare, assistente di Polizia, Marco Di Lorenzo, 40 anni di Pescara, assistente Capo, Carlo Voza 40 anni di Basilea, assistente capo, Gaetano Margiotta, 40 anni di Sulmona, assistente capo, Francesco Marulli, 43 anni di Chieti, assistente.
Ai domiciliari anche Mario Plevani, 46 anni di Pineto, vice sovrintendente, «capo indiscusso», scrive il gip De Ninis, della banda e ritenuto anche il più esperto nell'attività di taglieggiamento, «capace di ottenere consistenti somme di denaro senza dilungarsi in estenuanti stillicidi di piccole concussioni».
La sua posizione è quella più grave dal momento che detiene il grado più alto e avrebbe dovuto vigilare sulla correttezza dell'operato dei suoi collaboratori.
Si sta poi vagliando la posizione di Franco Evangelista, 38 anni di Collecorvino, assistente capo, al momento indagato a piede libero che sarebbe entrato marginalmente nell’inchiesta per via di alcune conversazioni con gli indagati principali.

LUNGHE GIORNATE DI LAVORO

Le giornate di lavoro degli agenti potevano essere molto intense. Non tanto per il carico di lavoro “regolare” (secondo il gip addirittura tralasciato) ma per questa attività secondaria che per l’accusa erano riusciti a mettere in piedi.
«Da un lato», scrive il gip De Ninis, «si disinteressavano totalmente delle disposizioni emanate del capo ufficio che pretendeva maggior impegno sotto il profilo della verbalizzazione e non si occupano di adempiere agli interventi demandati dalla sala operativa».
Ad esempio una volta non soccorsero un automobilista in difficoltà e continuarono a fermare camionisti e a battere cassa.
Una tecnica rodata, chissà da quanto tempo, «senza la necessità di accordi preventivi», assicura il gip: tutto andava liscio seguendo un canovaccio ben definito e rodato. Fino a quando un camionista non si è ribellato e dopo essere stato fermato a Pescara è arrivato fino a Bologna è ha sporto denuncia.

«FERMIAMO QUEL SALAME»

Ma come funzionava il presunto trucchetto?
Gli agenti erano sempre due per ogni automezzo e si posizionavano nei pressi dal casello Pescara Nord della A14, spesso preferivano la carreggiata nord che consentiva di fermare gli autotrasportatori in una posizione defilata.
Da lì riuscivano a vedere tutto e soprattutto scegliere accuratamente le proprie vittime: le targhe poi erano un dettaglio fondamentale per “sorteggiare” i fortunati da spellare: polacchi, austriaci, turchi, ma anche spagnoli e inglesi erano considerati i “migliori”.
Tutti con poca dimestichezza con l’italiano, tutti disposti a “mediare” pur di non dover pagare multe salate e soprattutto tutti in transito e con poche possibilità di fermarsi a sporgere denuncia.
Una volta avvistata la preda la pattuglia si lanciava all'inseguimento del mezzo facendolo fermare su una delle piazzole. Qui si avvicinavano e cominciava la “trattativa”.
Prima si chiedeva di controllare il cronotachigrafo per poi passare alla contestazione dell'eccesso di velocità, anche se non c'era.
Per far ritirare la multa (310 euro il prezzo di quella ufficiale e la decurtazione di 5 punti) scattava la richiesta di denaro: dai 10 ai 250 euro secondo quanto lo straniero di turno aveva in tasca.
Mosse ripetute decine di volte secondo l'accusa, che riuscivano a fruttare un interessante guadagno giornaliero.

SI DIVIDEVA SEMPRE TUTTO

«Ho fatto sei», oppure «ho fatto otto» erano le frasi ricorrenti degli agenti intercettati per riferirsi alle decine di euro conseguiti con le vittime. A fine giornata si divideva sempre.
«Tutto questo accade sistematicamente in tutti gli orari dei turni di servizio, anche in occasione di rotazione dei componenti», scrive il gip.
Il tutto è stato possibile scoprirlo solo grazie alle intercettazioni delle microspie messe nelle auto di servizio gli agenti della squadra mobile diretta da Nicola Zupo. In questo modo poliziotti che indagavano hanno ascoltato i colleghi… e ne hanno sentite delle belle.
«Questo è andato meglio di prima..»., si commentava a lavoro finito. «Il gelato...bè, insomma ci esce quasi una vaschetta......di un chilo a testa....io mezza e tu....(incomprensibile)», quando il bottino era mediamente soddisfacente.
E i camionisti dell’Est Europa erano considerati i migliori, quelli cioè dai quali si riuscivano ad ottenere le somme più elevate.
«Che razza è quello?», si domandano gli agenti mentre il mezzo si avvicina «Si eccola Pola! Polacchia!>
E poi ancora. «Vai ad acchiappare quello lì. È un altro polacco (…) prendi pure il secondo. Abbiamo fatto doppietta. Questo mo lo faccio e l'altro lo fai tu»

DU IU SPIC INGLISC?

Secondo il gip gli agenti «intimoriscono lo straniero con l’abuso della loro funzione e poi, mostrandosi più comprensivi e magnanimi si dichiarano disposti a non elevare la contravvenzione in cambio di una somma di denaro di importo inferiore alla multa».
Ma perchè scegliere sempre camionisti di lingua straniera?
Ovvio: perché le difficoltà di comunicare agevolavano la contrattazione ed era quasi impossibile per le vittime riuscire a far valere la propria posizione o cercare di spiegare che non si era superato alcun limite di velocità.
Ma a volte anche per gli agenti era difficile farsi comprendere e così si procedeva a gesti.

«Ce li hai questi per pagare» chiese Di Lorenzo a uno straniero indicando i soldi. «Ce li hai questi per pagare (riferendosi al denaro), ce li hai questi?
«Vaffanculo», intervenne Voza, «va ti pigliano pure per il culo…»

Sulla strada arrivano anche dei turchi:

Voza: «vediamo sto salame».
Di Lorenzo: «adesso fermiamo un altro stronzo e poi ti fermi»
Voza: «facciamoci l’altro turco»

E qualche volta anche i bulgari:

Margiotta : «Andiamo a vedere..»
Micaletti: «Con calma»
Margiotta: «che è bulgaro? Cosa è?»
Micaletti: «boh»
Margiotta: «Bulgaria! Bulgaria! Si arresti»

A volte gli agenti erano così gentili da chiedere ai malcapitati quasi una “offerta spontanea”. All’apertura del portafoglio poi si lasciava anche qualcosa per il pranzo.

Marulli: «gli ho dato trenta»
Margiotta: «gli hai ridato? Gli hai ridato i soldi per mangiare?...va bene questo se ne va in Ungheria!»

A volte però oltre alla consegna dei soldi gli agenti riuscivano anche ad ottenere prodotti trasportati dal camion. Era l’8 maggio, Margiotta e Marulli si fecero dare delle piante, le caricano in macchina e le portano alla centrale. Durante il tragitto in macchina si commentò anche l’”acquisto”.

Margiotta: «Adesso sto andando. Questi sono i duroni, tu non hai il giardino a casa?»
Marulli: «si è pure seccato uno, aspetta!»
Margiotta: «Questi costano, eh! Questi un innesto di questo ci vuole 50 (incomprensibile) ….innestato, non è selvatico»


TUTTI INSIEME AL BANCOMAT

Quando gli autotrasportatori non avevano il denaro contante a disposizione gli agenti li scortavano al bancomat.
Successe il 18 maggio, alle ore 21.05. Alla fine però il bancomat non funzionò e i poliziotti si accontentarono di pochi spiccioli.

Micaletti: «questo ci segue»
Plevani: «questi in Romania ai bambini a sei mesi gli danno mezzo bicchiere di Vodka per farli dormire…il bancomat sta qui eccolo!»
Micaletti: «cerco un altro più comodo?»
Plevani: «no questo!»

Micaletti: «dove cazzo vai?»
Plevani: «chi è?»
Micaletti: «Dovrebbe stare dietro l’angolo»
Plevani: «l’angolo dove?»
Micaletti: «Capocchia! Ciccio! Treness! Dovrebbe stare dietro! Around the corner! Ah?»
Plevani: «Umh sei pieno di risorse!»
Micaletti: «Facile..»
Plevani: «Come gli hai detto? Non..»
Micaletti: «Ah, ah, Around the corner»
Plevani: «ah, così si dice?»
Micaletti: «dietro l’angolo»
Plevani: «Ah, ah Around come? Dove lo hai appurato questo?»
Micaletti: «questo mi è rimasto impresso quando…c’hai presente Unit 1 Unit 2, le prime pagine dell’inglese»

Ma il bancomat non funzionava e l’inglese divenne sempre più uno ostacolo. E mentre aspettavano i due agenti fecero un po’ di pratica con la lingua:

Plevani: «tra fifteen e fifty che differenza c’è?»
Micaletti: «fifteen è 15, fifty è 50»
Plevani: «eh, ci vuole un po’ di pratica…»

Intascano 50 euro e si salutarono

Micaletti: «ciao, ciccio ciao»
Straniero: «grazie»
Plevani: «è andata bene, non valeva la pena rischiare»

IL PREZZO SI FA DI VOLTA IN VOLTA


Il prezzo non era mai lo stesso ma secondo quanto emerso dalle indagini il gioco di squadra tra gli agenti poteva essere determinante.

Voza: «ehi noi fermiamo tutti, Italia, Poland, Austria. Tu oggi first (primo, ndr) stop quindi controlliamo il tuo, quindi tu ce li hai gli euro per pagare?»
Plevani: «hai 1000 euro?»
Straniero: «No fattura?»
Plevani al collega: «prendigli 30 (euro)»
Voza: «mi ha dato solo 20»
Plevani: «solo 20? Fai quello che ti pare..»
Straniero: «30?»
Plevani: «altre 10, altre 10, prendi 30»
Plevani: «lui ci voleva dare di più..»
Voza: «così è più contento pure lui»

A FINE TURNO SI FA IL CONTO

A fine turno, secondo quanto emerso dalle indagini, si facevano i conti del denaro incassato

Voza: «ieri noi siamo stati molto fortunati»
Marulli: «tutte cinque e dieci (cinque e dieci euro fatti consegnare dai camionisti, secondo l’accusa, ndr) Mica tutun, tutun, tutun! Conviene più la botta buona»
Voza: «io con Mario ne ho fermati tre! Eh, abbiamo fatto subito sei (60 euro, secondo l’accusa, ndr). A Testa, eh! Con tre camion! Lasciati immaginare quanto…! Invece ieri abbiamo fermato…abbiamo fatto un sei! (60 euro, ndr)».

Si scherzava anche sui guadagni e su possibili denunce…

Voza (con tono scherzoso): «io non ti mollo se non mi lasci il tuo salvadanaio»
Micaletti: «io non ti do un cazzo, non ti do, vammi a denunciare»
Voza: «so dove abiti, vengo a rapinare il tuo cane, quando mi dai i soldi te lo ridò»

Alessandra Lotti 31/07/2009 7.14

http://www.primadanoi.it/modules/bdnews/article.php?storyid=22000


Intanto i poliziotti sono comparsi questa mattina davanti al gip per essere interrogati.
Hanno peferito non rispondere e avvalersi della facoltà di non rispondere.
Ha parlato, invece, respingendo ogni addebito, il settimo poliziotto indagato per concussione. Per lui la Procura aveva chiesto l'obbligo di dimora.

Eppure secondo la ricostruzione del pm, Giuseppe Bellelli, e del gip, Luca De Ninis, i sei indagati -che oggi devono rispondere di associazione a delinquere e concussione - avevano messo da parte il loro ruolo istituzionale ed erano diventati altro.
«Plevani, Micaletti, Margiotta, Marulli, Di Lorenzo e Voza», scrive De Ninis, «agiscono sistematicamente e professionalmente in maniera deviata rispetto ai propri compiti».
E si parla anche di «uomini in divisa» il cui unico scopo sarebbe quello di «conseguire profitti illeciti», di «un autonomo e pericoloso corpo separato dall’istituzione di appartenenza delle cui insegne e dei cui poteri gli appartenenti si avvalgono abusivamente per commettere reati».
Il pm Bellelli contesta anche l’aggravante della «scorreria in armi»: «pistole in dotazione legittimamente indossate e mai impiegate per commettere i reati contestati che però potevano rafforzare la capacità intimidatrice delle vittime».


PEDINAMENTI E CONTROLLI LUNGO L’AUTOSTRADA

E così la polizia “buona” (ovvero la Mobile) ha dovuto seguire passo passo il comportamento dei colleghi dopo la prima denuncia arrivata da un autista straniero al commissariato di Altedo, provincia di Bologna.
L’uomo raccontò di aver dovuto sborsare una tangente per evitare la multa.
Per verificare il lavoro della Stradale nelle auto di servizio sono state messe delle cimici e sono state dislocate sulla tratta autostradale tre unità operative della squadra Mobile, collegate via radio tra di loro e con personale in servizio in sala ascolto.
Il personale della sala ascolto, grazie al Gps riusciva in tempo reale a seguire gli spostamenti degli agenti della stradale.
Le informazioni raccolte venivano comunicate alle auto della Mobile sul posto che riuscivano a vedere così gli equipaggi nel momento in cui si effettuavano i controlli dei mezzi pesanti esteri.
Dopo il controllo gli agenti della Mobile fermavano nuovamente gli autisti dei mezzi pesanti, li identificavano e facevano loro domande (con l’aiuto di interpreti) su quello che era accaduto, anche a 30-50 km di distanza. Questo ha permesso di snellire e velocizzare moltissimo l’inchiesta hce infatti si è chiusa nel giro di un paio di mesi.

I RACCONTI DEI CAMIONISTI: LA STORIA E’ SEMPRE QUELLA

Sono almeno una trentina i racconti dei camionisti riportati nell’ordinanza (per un totale di appena 500 euro guadagnati dagli agenti).
Tutti hanno fatto mettere a verbale la stessa dinamica: veniva contestata loro una infrazione (a volte non commessa) e prospettata la possibilità di pagare subito una somma di denaro contante per evitare la multa.
A nessuno veniva rilasciata una ricevuta o un documento che attestasse la verbalizzazione dell’infrazione.
In alcuni casi la Squadra mobile, visionando il cronotachigrafo ha riscontrato effettivamente dei superamenti dei limite della velocità da parte degli autotrasportatori.
Superamenti che, però, non erano stati sanzionati dai colleghi della stradale che avevano preferito chiudere un occhio per assicurarsi piccole cifre, «venendo meno ad un atto del proprio ufficio», sottolinea il gip.

Sempre dal racconto dei camionisti la Squadra mobile ha scoperto che spesso i colleghi della stradale scrivevano su un foglietto di carta la somma richiesta.

Raccontò una delle vittime:

«Ha riempito (il poliziotto, ndr) una sorta di modulo con i miei dati e poi su un foglio bianco ha scritto la somma di 300 euro. Io ho fatto capire che non avevo quei soldi. L’uomo (il poliziotto, ndr) allora ha sbarrato la somma e ha scritto 200 euro. Io ho di nuovo contestato di non avere quella cifra (…). Io ho scritto 20 euro. Il poliziotto ha fatto una smorfia dicendo che non andava bene e io ho scritto 50 euro e il poliziotto ha detto che andava bene»

Ma c’era anche chi faceva richieste a voce. Ecco un altro racconto di un autotrasportatore:

«Il poliziotto mi ha detto a voce che dovevo pagare 300 euro. Io quindi gli ho consegnato il passaporto con all’interno 50 euro. Il poliziotto ha preso la banconota e mi ha restituito il passaporto. Guadagno 700 euro le multe che prendo le pago di tasca mia..»

SOSPETTI DI ESSERE OGGETTO DI INDAGINE


Non sono mancate, inoltre, le occasioni durante le quali gli agenti sotto inchiesta hanno temuto o intuito che qualcuno li stesse tenendo sotto controllo.
Un giorno un poliziotto trovò all'interno dell'autovettura di servizio un pezzo di un oggetto che non riuscì ad identificare ma che sembrava una specie di antenna. Con tono preoccupato lo mostrò al collega e si domandarono se non servisse per controllarli.
«Non è che è una cosa per incularci. Va bo’... st'antenna però è un po' strana st'antenna... per inculare a noi? Dove l'hai trovata?»

I sospetti più forti quelli di Di Lorenzo che notò una macchina già vista in altre due occasioni mentre controllavano autisti stranieri.
L’agente si mise in contatto con il proprio comando per accertare l’intestatario.
La risposta accentuò i dubbi: «appartiene alla polizia» ma non venne specificato il comando di riferimento.

Gli inquirenti, che intanto ascoltavano grazie alle microspie, decisero di mettersi in contatto con il comando della Stradale di Pescara Nord per chiedere l’assistenza di una pattuglia, simulando un servizio di polizia giudiziaria in corso. Una tecnica per confondere le acque, insomma.
Ma i due non risposero affermativamente: Di Lorenzo e Micaletti preferirono fermarsi a fare un sonnellino «a conferma della natura dei personaggi», scrive il gip.

Sono stati ascoltate anche altre conversazione durante le quali gli agenti mostravano sospetti.

Margiotta: «come fanno a risalire eventualmente a …cioè, sai cosa sto pensando..»
Micaletti: «ma impossibile, impossibile quello no. Se stanno dietro..»
Margiotta: «come quelli dell’altra notte? Tu pensi che ci stavano dietro?»
Micaletti: «Non lo so. Però ho avuto fortuna. Perché, non so per quale motivo quella macchina mi è rimasta impressa! Capito? E’ stata una botta di culo perché se mi ricapitasse altre cento volte non me ne accorgerei, poi è strano che dopo aver fatto l’accertamento, dopo dieci minuti hanno chiamato loro pure»
Margiotta: «abbiamo chiamato noi»
Micaletti: «no, noi abbiamo chiamato il comando e dopo dieci minuti il Coa ha richiamato, dopo che ci aveva dato già il risultato!» (il risultato che la macchina era della polizia, ndr)
Margiotta «eh!»
Micaletti: «però effettivamente hanno continuato a fare lo stesso tratto andavano su veloce ed in giù andavano piano! Perché aspettavano qualcuno fuori!»
Margiotta: «Eh, hai ragione dopo, io la mattina dopo ho comprato il giornale. Per vedere se avessero fatto qualcosa»
Micaletti: «non c’era niente?»
Margiotta: «non c’era un cazzo»
Micaletti: «Eh, il giorno dopo ancora sì»
Margiotta «Ah si? Qua sopra?»
Micaletti: «non lo so se qua sopra però dice che la squadra mobile aveva preso un ex proprietario (incomprensibile)…ho letto la locandina…non ho comprato il giornale»

Si cominciò a sospettare che ci fosse qualche collega che potesse tradire… ma di sicuro non all’interno del proprio gruppo.
Gli indagati, infatti, scrive De Ninis, «presuppongono l’esistenza di un vincolo preesistente, grazie al quale ciascuno deve poter contare, per la loro turpe pratica di taglieggiamento, sull’appoggio e sulla copertura degli altri».
«Appoggio e copertura», continua il gip, «che divengono attivi nel momento in cui si profila il pericolo di una indagine esterna così tutti i componenti del gruppo sono messi in allerta per fare fronte comune».
Anche se le intercettazioni si sono protatte solo per 30 giorni le condotte criminose «sono assolutamente ininterrotte», scrive infine De Ninis. Per il pericolo di reiterazione del reato è stato così disposto l’arresto e la sospensione dal servizio.

Alessandra Lotti 31/07/2009 13.10

http://www.primadanoi.it/modules/bdnews/article.php?storyid=22019

da Indymedia

Quale democrazia per l'Afghanistan?

Ma quale democrazia stanno difendendo le truppe occidentali impegnate sotto la regia degli Usa? Solo qualche giorno fa, i soldati italiani hanno rischiato di lasciare sul campo altre vite umane per contrastare un attacco contro Mohammad Qasim Fahim, candidato con Karzai alla vicepresidenza. Fahim è uno dei più potenti signori della guerra, responsabile del massacro realizzato nei primi anni '90 a Fashar in Kabul con 700 morti e oltre un centinaio di donne violentate; Fahim è stato ex ministro della difesa di Karzai rimosso dallo stesso presidente perché impresentabile all'opinione pubblica mondiale e soprattutto al popolo afgano. Un personaggio che dovrebbe essere immediatamente arrestato e comparire dinnanzi ad una corte internazionale per i crimini contro l'umanità. Fahim, come Rabbani, Qanuni, Massoud, Dostum, Khalili, Ismail Khan, è indicato dalle donne di Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) come uno dei principali criminali di guerra che Rawa pone sullo stesso piano dei talebani, per la sua ferocia e tasso di criminalità. Fahim non è un caso isolato, il governo Karzai è pieno di signori della guerra e di narcotrafficanti a cominciare dallo stretto entourage famigliare del presidente Karzai.
La produzione di oppio nel 2001 era inferiore alle 200 tonnellate, ora ha superato le 8000. Il fallimento della politica della coalizione è totale, evidente in ogni campo.
In questo contesto privo di qualunque significato suonano le parole del Presidente del Consiglio: “Noi dobbiamo essere là e far crescere la democrazia” e altrettanto inaccettabili risultano le frasi che gli hanno fatto immediatamente eco pronunciate dagli aspiranti segretari del Pd invocanti la compattezza nazionale per sostenere “i nostri ragazzi”.
I “nostri” militari stanno rischiando la vita per garantire la permanenza di un governo di delinquenti.
Non è vero che non c'è scelta; non è vero che o si sta coi talebani o con i signori della guerra.
Se veramente l'occidente fosse desideroso di sostenere, non con le armi, ma politicamente ed economicamente chi da decenni lotta per il rispetto i diritti umani e per la democrazia, gli interlocutori non mancherebbero: dalle migliaia di donne militanti in Rawa, a Malalai Joya, deputata indipendente, espulsa dal parlamento per aver denunciato i signori della guerra, a Bashardost Ramazan, candidato alla presidenza, che da anni denuncia la corruzione delle autorità afgane alimentata anche da fondi neri attraverso i quali Usa e Gran Bretagna si garantiscono la connivenze dei governanti in carica, a Hambastagi un partito fondato nel 2002 che si pone come obiettivo “la costruzione di una società democratica, in un sistema secolare contro il fondamentalismo e i signori della guerra”, solo per citare le realtà più conosciute.
Tutti costoro sono totalmente ignorati dalle diplomazie occidentali, nemici giurati dei talebani rischiano ogni giorno la vita per mano dei sicari del governo Karzai.
Non c'è quindi un prima e un post elezioni in Afghanistan rispetto al quale definire un'eventuale exit strategy come ha dichiarato Berlusconi, in attesa di ricevere ordini aggiornati da Washington.
In questo contesto le parole di Bossi risuonano solo come parte di una partita tattica per ridisegnare i rapporti di forza nella maggioranza. Bossi sa che la maggioranza degli italiani non ha mai condiviso la guerra, sa che forte è il rischio di contare altri morti tra i soldati italiani, sa che di fronte alla crisi economica le risorse sono scarse e che le missioni costano.
Tutti elementi ben presenti anche nelle recenti dichiarazioni di Di Pietro: “L'IdV da sempre contraria alla guerra”; affermazioni tanto nette quanto false se confrontate con la storia del suo partito. Ma anche l'ex Pm sta giocando la sua partita tattica nella competizione con il Pd e e nel tentativo di annettersi quanto più possibile i voti della sinistra in enorme difficoltà sul terreno della rappresentanza.
Non credo che queste dichiarazioni estive provenienti da molteplici e differenti sponde, porteranno ad un ritiro delle nostre truppe in tempi brevi; ma che se ne cominci a discutere, anche se per motivi non sempre nobili, è un fatto positivo.
Ma qui cominciano i problemi, i nostri problemi; le difficoltà di coloro che tra il 2001 e il 15 febbraio 2003 hanno costruito il più grande movimento pacifista di tutta Europa, di coloro che sono contro le guerre“senza se e senza ma”, di coloro che sono contro l'esportazione forzata della democrazia in Afghanistan e dovunque, di quelli che credono in un mondo multipolare, in relazioni diverse tra sud e nord, di quelli che sono consapevoli che, se non si riducono i consumi e non si modifica completamente il modello economico, le guerre saranno inevitabili per il controllo delle limitate fonti energetiche. Parlo di noi, di coloro che quando si oppongono alla guerra non hanno in mente piccoli vantaggi tattici, ma pensano che questo sia uno dei passi essenziali per la costruzione di un mondo diverso.
Ma parlo anche di una sinistra che ha accettato di scambiare tutto questo per garantire la sopravvivenza di un governo; di leadership politiche di allora che hanno contribuito a rompere l'unità di un movimento immenso per piegarlo ad una ragione di Stato. Limitandomi all'esperienza personale, ben ricordo il fastidio con il quale fu accolta la mia lettera aperta rivolta dalle pagine di questo giornale ai parlamentari della sinistra perché non votassero la missione in Afghanistan.
Parlo anche di grandi organizzazioni storiche della sinistra sociale e sindacale che per non disturbare il manovratore hanno richiamato al silenzio le proprie strutture di base, dopo che esse stesse erano state tra le principali animatrici di quel movimento.
Su quell'esperienza è necessario essere chiari, fare autocritica “senza se e senza ma”, dire in modo esplicito che mai più ci sarà da sinistra un voto favorevole ad una guerra; dirlo nelle condizioni attuali è forse facile, ma va assunto come impegno solenne per il futuro, indipendentemente da qualunque collocazione istituzionale.
Questa chiarezza è indispensabile per compiere un passo successivo altrettanto necessario: rilanciare in autunno una campagna per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan puntando a ricostruire quell'amplissimo fronte che aveva portato migliaia di bandiere a sventolare su decine di municipi, centinaia di chiese e migliaia di posti di lavoro e di centri di aggregazione.
Una campagna contro la/e guerra/e che potrebbe benissimo unificarsi ad una altrettanto necessaria campagna contro il nucleare, un modello energetico che in sé riassume sia la concentrazione di potere tipico dei sistemi militari e sia gli elevati rischi di stragi degli innocenti caratteristico di ogni conflitto attuale

di Vittorio Agnoletto da Il Manifesto

L’attacco del Financial Times

Un severo editoriale sul Financial Times di oggi analizza impietosamente la situazione politica dell’Italia. Scrive Geoff Andrews: “Le ormai quotidiane rivelazioni a proposito di Silvio Berlusconi e della sua vita sessuale ci forniscono l’imagine di un leader inadatto al governo di un paese. Ma i problemi fondamentali, le cause del declino italiano potrebbero non trovare rimedio quando Berlusconi lascerà il governo.Il problema centrale del paese è l’estensione della corruzione nei vari livelli di governo, la mancanza di trasparenza e responsabilità, la vasta cultura dell’illegalità che attraversa la politica e la società italiana: dall’evasione fiscale al coinvolgimento della mafia in affari di ogni genere, dalla ricostruzione dell’Abruzzo alle partite del campionato di calcio”.
Secondo Andrews ci sono due ragioni fondamentali per cui questa situazione potrebbe continuare a lungo. “In primo luogo, il fatto che il regime di Berlusconi è costruito su un impero mediatico che include anche il controllo della tv di stato, che infatti non ha coperto in alcun modo lo scandalo sessuale che lo ha coinvolto. In secondo luogo, il fallimento del sistema politico italiano di riformarsi e rinnovarsi all’indomani di Tangentopoli, specie per quel che riguarda la sinistra italiana, che ha attraversato una severa crisi d’identità e non è riuscita a sviluppare la proposta che richiedeva quel tipo di fase storica”.
“Per questo, anche quando Berlusconi lascerà la politica italiana - e non c’è ragione di pensare che si tratti di una cosa imminente, tutt’altro - ci sono poche speranze che si trovi quel clima di intesa e collaborazione necessaria a introdurre una nuova legge elettorale e dare al paese maggiore senso di responsabilità, maggiore indipendenza nei mezzi di comunicazione, maggiore concorrenza nei mercati. La condanna internazionale nei confronti del comportamento del premier ha acceso un piccolo barlume di autocritica. Vedremo se in futuro seguiranno un’introspezione più profonda, o una spinta verso un nuovo spirito di riforma”.

da Internazionale

La Ru486 è legale anche nel nostro paese

Nonostante le pressioni di fascisti e clericali e le minacce di scomunica, l'Aifa ha finalmente dato il via libera alla pillola abortiva
Dopo 6 ore di riunione il Cda dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha promosso a maggioranza la pillola abortiva che, inserita nel 2006 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nell’elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva, ed utilizzata già da anni in molti paesi -Francia (dal 1988), Austria, Belgio, Germania, Danimarca, Grecia, Spagna, Finlandia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Svizzera, Norvegia, Israele, Cina, India, Nuova Zelanda, Russia,Tunisia, Stati uniti e Sud Africa – permette di interrompere una gravidanza indesiderata senza doversi sottoporre ad un intervento chirurgico.

Cos’è la Ru486 –Il corpo femminile produce il progesterone, un ormone che ha la funzione di rendere la mucosa uterina adatta ad accogliere l’impianto dell’uovo fecondato; la Ru486 contiene il mifepristone, una sostanza che, svolgendo un’attività antagonista a quella del progesterone, ne impedisce l’azione. Lo sviluppo dell’embrione è interrotto e la mucosa si stacca seguendo lo stesso identico corso di una mestruazione. Per rinforzare gli effetti della pillola abortiva viene somministrata anche una piccola dose di un ormone, il prostaglandine, che provoca contrazioni uterine aiutando ad accellerare il processo.

In accordo alla legge 194, tutto il procedimento dovrà effettuarsi all’interno di una struttura ospedaliera. Il margine massimo per l’utilizzo della pillola abortiva viene individuato nel 49° giorno di amenorrea (quinta settimana dalla fecondazione), quando l’embrione misura tra i 2 e gli 8 mm e la percentuale di riuscita completa si ha nel 98,5% dei casi. In caso di insuccesso bisognerà quindi ricorrere all’aborto chirurgico.

da Indymedia

Mafia: Ass. Georgofili, politica indifferente, no a Commissione

Firenze. "Del perché mai vorremmo una commissione d'inchiesta parlamentare sul massacro dei nostri parenti, lo abbiamo ben chiaro in testa, e tante volte lo abbiamo detto.
Semplicemente perché in Parlamento non ci sono le condizioni per una tale inchiesta". Lo afferma in una nota la portavoce dell'Associazione tra i familiari delle vittime di via dé Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli."Riteniamo la politica attuale troppo compromessa nei fatti del 1993, stragi incluse, per avere una commissione d'inchiesta serena nei giudizi e nelle analisi di eventi tanto tragici che hanno visto i nostri attuali politici comportarsi verso quei fatti come minimo con indifferenza", prosegue Maggiani Chelli. "Del resto la storia ci supporta ampiamente. Nessuna commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi in Italia ha mai prodotto alcunché di positivo".
L'associazione si rivolge anche all'ex magistrato Pier Luigi Vigna: "Gli vogliamo dire con serenità, che avremmo preferito che il nostro esposto, a suo tempo presentato in procura proprio sul famigerato 'papello', avesse un risultato diverso da quello ottenuto. Molti politici nel 1992 erano venuti in possesso del 'papello' stesso, secondo le nostre informazioni addotte nell'esposto. I nomi di questi politici ci aspettavamo di conoscerli, sicuramente nessuno di loro fu innocente nel non denunciare di aver ricevuto il documento incriminato, almeno quando nei processi di Firenze si cominciò a parlarne".

da Indymedia

Pier Paolo Pasolini

L'OMICIDIO E LE PRIME INDAGINI

Pier Paolo Pasolini fu ucciso nella notte fra l'1 e il 2 novembre 1975, sul lungomare di Ostia. Il corpo fu ritrovato la mattina successiva, su una strada accidentata che portava ad un campo di calcio amatoriale. Fu chiaro da subito che il regista-poeta era stato vittima di un'aggressione particolarmente brutale: il corpo presentava ferite gravissime alla testa e al torace, ed inoltre erano evidenti i segni del passaggio di un auto; si scoprirà poi, tramite l'autopsia, che la morte era sopraggiunta per la rottura del cuore, in seguito al passaggio dell'autovettura sul torace, ma che le percosse subite avevano già provocato un'emorragia cerebrale. Inoltre, disseminati nell'area, si trovarono resti degli attrezzi usati per il pestaggio, o almeno di alcuni di questi (un paletto ed una tavoletta di legno, macchiati di sangue), e così pure si trovò la camicia dello scrittore (anch'essa imbrattata di sangue), ciocche di capelli eccetera: alcuni di questi reperti erano a 90 metri al corpo, e testimoniavano il disperato tentativo di fuga di Pasolini dal luogo dove aveva avuto inizio l'aggressione.
All'una e trenta di quella notte, quindi prima del rinvenimento del cadavere, i carabinieri avevano fermato il diciassettenne Giuseppe "Pino" Pelosi, contestandogli il furto dell'auto a cui era alla guida, un'Alfa 2000 risultata poi dello scrittore. Giunto in caserma, Pelosi ammise il furto, e chiese notizie di un anello di sua proprietà, che risulterà poi rinvenuto vicino al corpo di Pasolini. Si tratta della prima svolta nelle indagini: è la "firma" del delitto. Un primo segno di chiarezza in un'inchiesta che per molti altri aspetti, purtroppo, resterà comunque intorbidita dalla povertà delle indagini, probabilmente segnate dalla convinzione, maturata con eccessiva fretta, che si trattasse di un caso "già risolto". L'avere a disposizione un cadavere ed un reo confesso viene purtroppo spesso considerato sufficiente a chiudere un'indagine; ma in questo caso, come vedremo in seguito, a questa considerazione se ne aggiunge un'altra ben più grave: gli inquirenti presero le deposizioni del giovane omicida senza fare nulla per scalfirne la reticenza o le contraddittorietà.
Le dichiarazioni di Pelosi andarono affinandosi col tempo, nel tentativo di rafforzare sempre maggiormente la tesi secondo cui il ragazzo avrebbe agito per legittima difesa. Per dovere di cronaca riportiamo a grandi linee la versione dell'imputato nella sua veste definitiva; nel capitolo successivo vedremo di fare emergere le contraddizioni e le gravi lacune nelle indagini.
Il ragazzo viene avvicinato da Pasolini nella tarda serata ed accetta di salire in auto con lo scrittore. Entrano assieme in un ristorante; poco dopo mezzanotte escono e si dirigono verso il luogo della tragedia. Appartati sul lungomare, secondo la versione dell'omicida sarebbe nata una discussione fra i due: Pelosi avrebbe sulle prime accettato e poi rifiutato di avere un rapporto sessuale con lo scrittore, e sarebbe sceso dall'auto, seguito da Pasolini che lo avrebbe minacciato e successivamente colpito con un bastone. A questo punto scatta la reazione del ragazzo che, affermò, non avrebbe investito volontariamente il corpo dello scrittore, ormai agonizzante.
Appena giunto in carcere Pelosi, in quel momento ufficialmente accusato SOLO di furto d'auto (il cadavere non era ancora stato ritrovato), si vantò però con un compagno di cella di aver ucciso Pasolini, dimostrando piena consapevolezza non solo del reato compiuto, ma anche dell'identità della vittima. Ad onor del vero questa circostanza, comunque dubbia, potrebbe essere spiegata con un altro episodio: quando ancora nel commissariato a Pelosi viene contestato il furto, un funzionario, dopo aver verificato la targa dell'auto, gli si sarebbe avvicinato dicendogli "l'hai fatta grossa; hai rubato l'auto ad una persona famosa: Pasolini". Questo episodio sembrerebbe avvalorare la tesi che Pelosi abbia saputo l'identità della vittima solo successivamente... Ma, viceversa, risulta inspiegabile che proprio nel primo interrogatorio del 2 novembre Pelosi si riferisse a Pasolini chiamandolo più volte per nome ("Paolo", "il Paolo"), dimostrando una conoscenza che, forse, non era neppure nata quella notte ma prima; negli interrogatori successivi, invece, Pelosi parlò di Pasolini con molto più distacco ("l'uomo", "l'individuo"), ribadendo più volte di non averlo mai visto prima e di non essere stato a conoscenza della sua identità fino a quando non gli fu comunicata. La lunga lista di contraddizioni, che gli inquirenti non cercheranno di smontare, comincia qui ma si arricchirà di altri e più inquietanti episodi, che vediamo ora di analizzare.
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LA VICENDA PROCESSUALE E L'ATTEGGIAMENTO DEI MEDIA

Il percorso processuale della vicenda fu relativamente veloce. La sentenza di primo grado è del 26 aprile 1976; quella d'appello del 4 dicembre 1976; la Cassazione si esprimerà in modo definitivo il 26 aprile 1979. In tutte queste sentenze la responsabilità di Pelosi quale autore materiale del delitto emerge chiara ed inequivocabile, rigettando la linea della legittima o sproporzionata difesa e dimostrando che Pasolini non fu (MAI ed in NESSUNA MISURA) "aggressore", ma "aggredito". Nella prima sentenza Pelosi fu condannato per aver commesso l'omicidio "con il concorso di ignoti". La corte d'Appello lo riconoscerà invece unico colpevole. La successiva sentenza della Cassazione (pur essendo, per il suo carattere definitivo, quella più importante dal punto di vista giuridico) è irrilevante sotto questi aspetti, essendo limitata alla valutazione di diritto e non di merito.
Come in troppe vicende che hanno segnato la storia dell'Italia in quegli anni, di cui in parte ci siamo già occupati, le sentenze lasciano molte e fondamentali zone d'ombra, non chiarendo il movente del delitto, l'eventuale partecipazione di altre persone, l'ipotizzata esistenza di uno o più mandanti (nell'ipotesi in cui l'omicidio sia stato eseguito su commissione).
Cominciamo ad analizzare sommariamente gli aspetti oscuri della vicenda. Una delle motivazioni che, secondo la parte civile, avrebbe rafforzato la teoria della pluralità di aggressori era questa: Pasolini era un uomo robusto ed in perfetta forma fisica, e difficilmente sarebbe stato sopraffatto da un solo aggressore, specie se di costituzione esile come era Pelosi; quest'ultimo, inoltre, quando venne fermato dai carabinieri, presentava solo un piccolo taglio sulla fronte (peraltro forse attribuibile proprio al momento dell'arresto) e macchie di sangue della vittima solo sull'orlo dei pantaloni: esisteva dunque una sproporzione troppo evidente fra le ferite dei due contendenti, nell'ipotesi di una semplice rissa fra due persone degenerata in tragedia.
In realtà Pasolini era robusto, sì, ma non era un colosso (59 Kg. di peso per 167 cm. di altezza), ma soprattutto era persona estremamente mite, che rifuggiva dalla violenza fisica. Lui stesso diceva di sé (citazione dall'arringa dell'avvocato Guido Calvi in occasione del processo di primo grado): "In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la nonviolenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura...". Dacia Maraini, nella sua postfazione a "Io, angelo nero", scritto proprio da Pino Pelosi, scrisse: "Pasolini non avrebbe mai fatto del male a nessuno, mai avrebbe minacciato e violentato. Lui semmai cercava qualcuno che, in un gioco erotico, lo malmenasse un poco. Era questo il suo segreto.". Al contrario, Pelosi aveva una personalità aggressiva ed incline a scatti di violenza, una personalità che avrebbe dimostrato anche successivamente (un'aggressione in carcere ad un altro recluso ed una alla sua compagna, come testimonia sempre Dacia Maraini in quella postfazione).
Fermo restando che la sproporzione tra le gravissime ferite di Pasolini e quelle, pressochè insignificanti, di Pelosi può essere sicuramente spiegata con la partecipazione di altre persone al pestaggio, non è da escludere che un soggetto violento come Pelosi potesse aggredire e sopraffare velocemente un uomo mite come Pasolini, che avrebbe tentato una fuga senza opporre una resistenza attiva, solo per vedersi raggiunto e picchiato ancora più selvaggiamente, fino a cadere pressochè esanime.
Ma altri dubbi circa la versione di Pelosi quale unico aggressore vengono alimentati da un particolare solo in apparenza secondario. La zona in cui Pasolini fu massacrato era sterrata e fangosa, ma Pelosi, che pure dichiarò più volte di essere caduto a terra durante la colluttazione, al momento dell'arresto non presentava particolari tracce di fango sugli indumenti; la scusa addotta a tale proposito dal ragazzo (si sarebbe fermato ad una fontanella per lavarsi, prima di essere fermato dai carabinieri) appare debole e non sorretta da quanto riscontrato nell'auto di Pasolini o sui vestiti dell'omicida al momento dell'arresto.
Se già questi elementi fanno dubitare che Pelosi fosse da solo su luogo dell'omicidio, è però un'altra questione, ancora più importante, a restare irrisolta: una spiegazione razionale a quel massacro. Questo è il vero punto debole della sentenza d'appello, che non riesce a spiegare perché Pelosi avrebbe dovuto colpire fino alla morte Pasolini. Solo un raptus di violenza brutale?
A tale proposito, torniamo all'atteggiamento di Pelosi di fronte agli inquirenti, alla sua reticenza ed alla sua abilità di confondere le acque a proprio vantaggio. Una reticenza ed un'abilità per certi versi comprensibili. Pelosi, ragazzo incolto ma astuto, capì fin dall'inizio che, essendo minorenne ed immaturo, aveva tutta la convenienza di addossarsi il delitto come unico responsabile. Questo spiega il suo silenzio di allora, ma anche quello degli anni successivi: se avesse voluto parlare successivamente in quanti gli avrebbero creduto, dopo le menzogne passate? E quanto avrebbe rischiato se avesse rivelato di aver compiuto il delitto con la partecipazione di altri (oppure da solo, ma rispondendo ad ordini altrui e con la copertura di ignoti)? Ma tutte queste considerazioni spiegano la reticenza di Pelosi, NON CERTO l'arrendevolezza con cui la Magistratura la accetta!... E questo ci porta ad altre domande.
Perché non vennero svolte indagini più approfondite tra i "ragazzi di vita" romani?
Perché non si tentò di approfondire il rapporto tra l'estrema destra romana e la malavita comune, che sicuramente aveva un ruolo determinante nella gestione della prostituzione giovanile?
Perché, dopo le rivelazioni de "L'Europeo" (su cui ci soffermeremo fra poco) non si cercò di approfondire le testimonianze dei residenti nelle baracche che sorgevano attorno allo spiazzo dove fu ucciso Pasolini? Alcuni di questi, reticenti di fronte ai Magistrati, sotto anonimato parlarono ESPRESSAMENTE coi giornalisti di un pestaggio eseguito DA PIU' PERSONE...

Purtroppo non esiste risposta a queste domande: gli inquirenti, come già detto convinti di trovarsi di fronte ad un caso già chiaro e con un solo reo confesso, non provarono ad esplorare possibili alternative. Alternative che forse avrebbero portato a considerare Pelosi NON l'attore protagonista dell'omicidio, ma un mero strumento; lo strumento che doveva portare NON SOLO alla morte di Pasolini, ma ad una morte consumatasi "nel disonore". L'ipotesi che qualcuno volesse dare una lezione a Pasolini resta infatti più che plausibile. Una lezione che forse non doveva culminare nell'omicidio, ma in cui ai picchiatori scappò di mano la situazione. E seguendo questa supposizione è facile capire i tre motivi per cui è stato "scelto" Pelosi (da solo o col concorso di altri): perché era facile per lui avvicinare il regista; perché era facilmente manipolabile e gestibile nella fase successiva; perché, vista la sua minore età, gli si poteva promettere, se non l'impunità, una pena lieve. In tale modo si rafforza la convinzione che Pasolini dovesse essere NON SOLO ucciso, ma ucciso in modo che la sua memoria (e conseguentemente la sua opera) venisse compromessa. O, in alternativa, che si sia sfruttata l'occasione della sua morte per innescare quel processo denigratorio.
Su CHI abbia potuto ordinare l'azione non è possibile esprimere certezze, ma sicuramente può venirci in aiuto questo estratto dalla prefazione di Giorgio Galli al volume AA. VV. "Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo" (Kaos Edizioni, Milano 1992): "Se si parte dall'ipotesi che Pasolini, nonostante la sua cautela, abbia potuto essere attirato in un agguato, si riduce l'importanza della presenza attiva di più persone. Qualcuno poteva essere sul luogo per aiutare Pelosi (tesi del Tribunale), oppure questi ha agito fulmineamente da solo (tesi della Corte d'Appello), magari controllato sul posto da qualcuno non attivo ma pronto a intervenire in caso di necessità. Questa ipotesi richiede una spiegazione su chi e perché abbia contattato Pelosi a quello scopo. Sul "chi" non occorre affaticare la fantasia: le cronache di quegli anni sono gremite di poteri occulti, di servizi deviati, del crimine organizzato che fornisce strutture e operatori per azioni di finta destabilizzazione e di autentica stabilizzazione politica. Non vi è che l'imbarazzo della scelta. Pelosi è stato uno strumento. Ora può continuare la sua vita di emarginato senza gloria, perché, se volesse raccontare qualcosa, sa quel che gli costerebbe e che nessuno gli crederebbe. Quale era l'obiettivo dell'agguato? Personalmente ritengo probabile una delle "causali" suggerite dal Tribunale: si voleva "dare una lezione" a Pasolini, ma non per uno "sgarbo", bensì per quello che egli rappresentava nel momento politico, così come, un paio d'anni prima per la stessa ragione, si era voluta dare una "lezione" all'attrice Franca Rame."
Ma nel "caso Pasolini" il giudizio sull'operato della magistratura purtroppo non è l'unico giudizio negativo: anche i media trattarono la vicenda in modo a dir poco deplorevole. L'attenzione dei media si indirizzò morbosamente sul contesto degradato in cui era maturato l'omicidio, più che sul fatto in sé. I riflettori furono da subito puntati sui risvolti sessuali della vicenda, che solleticarono gli istinti, a metà fra il perbenismo ed il pruriginoso, dell'opinione pubblica. A questa banalizzazione e distorsione dell'omicidio contribuì il clima dell'epoca, in cui i pregiudizi verso gli omosessuali erano ancora più radicati e violenti di quanto non siano oggi.
Le cronache si interessarono più all'inclinazione sessuale di Pasolini che ad altro, e sulle pagine di molti quotidiani la prima versione di Pino Pelosi fu presto spacciata come una verità acclarata: la storia di un "povero ragazzo" vittima delle attenzioni di un "vecchio sporcaccione"; un ragazzo che per denaro inizialmente cede alle avances dello scrittore, ma poi cerca di negarsi e, di fronte all'aggressione di Pasolini, si difende innescando una colluttazione finita in tragedia. E l'atteggiamento della stampa ricalcò, come detto in precedenza, l'approccio degli investigatori, che indagarono più nel passato della vittima che in quello dell'assassino, cercando qualche elemento che consolidasse in loro le convinzioni intimamente già maturate.
E' comunque vero che non tutta la carta stampata si distinse per questo atteggiamento superficiale. Anche sul caso Pasolini vennero condotte delle "controinchieste"; come accennato in precedenza, queste trovarono la loro punta di diamante in alcuni articoli di Oriana Fallaci e di altri giornalisti su "L'Europeo". La controinchiesta, che tende a dimostrare la teoria del complotto ai danni del regista, è oggettivamente suggestiva e solleva molte delle questioni qui trattate finora ed altre ancora, basandosi su testimonianze di persone reticenti di fronte alle Autorità, per paura di conseguenze personali, ma disposte a parlare sotto anonimato con i giornalisti.
La controinchiesta purtroppo si basa, non certo per colpa degli autori, su testimonianze contraddittorie ed inaffidabili, segnate come sono a tratti dalla reticenza e dalla paura, ed in altri momenti contraddistinte da un'ansia esibizionistica che giunse anche ad autoaccuse. Ma ancora una volta è da sottolineare che la Magistratura si disinteressò di queste piste alternative, o le valutò con superficialità. E' vero che i giornalisti de "L'Europeo" non rivelarono le proprie fonti ai Magistrati, tutelandone l'anonimato, ma già il fatto che la stampa abbia tentato di andare più in profondità della Magistratura appare a dir poco sconcertante.
Per chiudere le considerazioni circa le indagini ed i dubbi emersi nelle controinchieste, consiglio la visione del bel film di Marco Tullio Giordana, "Pasolini, un delitto italiano" del 1995.
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LA FIGURA DI PASOLINI

Costruire un quadro completo della vita e delle opere di Pasolini in questa sede risulterebbe difficile e presuntuoso. Proviamo a tracciane le linee essenziali, segnalando fin d'ora che una biografia più completa la potete trovare qui: http://biografieonline.it. Inoltre, vista l'importanza che tuttora Pasolini riveste per la cultura italiana, sono moltissimi i siti internet da segnalare sulla vita e sulle opere dello scrittore-regista: penso di non fare un torto a nessuno menzionando solo http://www.pasolini.net/, un sito molto completo dove potrete approfondire sia la vicenda processuale conseguente l'omicidio, sia le molteplici attività artistiche di Pasolini.
Pier Paolo Pasolini nasce nel 1922 a Bologna. A 17 anni si iscrive all'università, facoltà di lettere. Nel 1945 l'uccisione del fratello Guido, partigiano, lo segna profondamente.
Successivamente si stabilisce in Friuli, dove comincia a lavorare come insegnate in una scuola media e si avvicina al PCI. Il rapporto con le gerarchie del partito sarà però controverso e segnato purtroppo da incomprensioni e contrasti, dovuti in parte all'inclinazione sessuale dello scrittore ed in parte ad un atteggiamento di Pasolini che alcuni reputeranno a volte "eccessivo" o "troppo borghese".
Nel 1949 viene denunciato per corruzione di minorenne: è solo la prima di una lunga sequenza di traversie giudiziarie che, con l'aumentare della sua notorietà, si intensificheranno assumendo i contorni di una vera e propria persecuzione (una persecuzione che da giudiziaria diventerà anche mediatica, culminando nelle rituali contestazioni che gruppi dell'estrema destra insceneranno in occasione delle proiezioni dei suoi films). Poco tempo dopo si trasferisce a Roma, insieme alla madre.
Nel 1955 viene pubblicato il romanzo "Ragazzi di vita". Anche qui, nonostante un buon successo di critica e di pubblico, Pasolini non sarà risparmiato da feroci attacchi, anche da sinistra. Nel 1957 pubblica la raccolta di poesie "Le ceneri di Gramsci".
Nel campo del cinema, dopo aver collaborato a "Le notti di Cabiria" di Fellini, l'esordio come regista e soggettista è del 1961 con "Accattone". Da questo momento l'esperienza cinematografica assorbirà notevolmente le sue energie: nel 1962 dirige "Mamma Roma", nel 1963 "La ricotta" (episodio inserito in un film girato da più autori), nel 1964 "Il Vangelo secondo Matteo", nel 1965 "Uccellacci e uccellini", e così via, fino ad arrivare al suo ultimo film del 1975, "Salò o le 120 giornate di Sodoma".
Tutto questo per fermarsi a cenni rigorosamente biografici. Ma accostarsi alla figura di Pasolini vuol dire innanzitutto, sempre citando Giorgio Galli, trovarsi di fronte ad "una delle personalità più emblematiche e positive della ricca cultura italiana della seconda metà del Secolo". Artista poliedrico, testimone scomodo del suo tempo, intellettuale libero ed indipendente... Pur essendo in linea di principio contrario alle etichette (la vita di un uomo, specie quella di un artista come Pasolini, difficilmente può essere racchiusa e limitata in poche parole), devo dire che queste definizioni trovate in rete sono tutte calzanti.
E la sua indipendenza intellettuale, come accennato nella biografia, gli causò non pochi problemi anche a sinistra. Grazie al sito http://www.pasolini.net/ riporto due esempi. Il primo è uno stralcio di una lettera che il senatore Mario Montagnana indirizzò al direttore di "Rinascita", rivista del PCI: "Pasolini riserva le volgarità e le oscenità, le parolacce al mondo della povera gente. [...] Si ha la sensazione che Pasolini non ami la povera gente, disprezzi in genere gli abitanti delle borgate romane e, ancor più, disprezzi (non trovo altra parola) il nostro partito [...] Non è forse abbastanza per farti indignare?". Il secondo frammento che riporto (sempre grazie al sito http://www.pasolini.net/) è una nota dell'agenzia Fert del 14 luglio 1960: "La Fert apprende che l'on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori culturali e stampa del partito l'invito ad andare cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L'iniziativa di Togliatti che riscontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il PCI, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l'attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l'intervento del magistrato...". Ad onor del vero si deve aggiungere che a contrastare queste critiche molti esponenti del PCI si distinsero al contrario in apprezzamenti verso la figura e l'opera di Pasolini.
Come già detto, sarebbe presuntuoso e fuori luogo pretendere di dettagliare in modo esauriente la figura e l'opera di Pasolini in questa sede. Ma voglio chiudere questo articolo ricordando quanto attuale fosse il suo impegno contro l'omologazione culturale, che oggi pare sempre più evidente, ma i cui segni Pasolini vedeva già all'epoca.
Da un articolo dello scrittore, pubblicato il 9 dicembre 1973: "Non c'è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l'aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l'anima del popolo italiano; il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione) non solo l'ha scalfita, ma l'ha lacerata, violata, bruttata per sempre...".
O ancora (da Vie Nuove n. 36, 6 settembre 1962): "L'Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo.".
Credo si tratti di parole che facevano paura all'epoca, ma il loro contenuto profetico e terribilmente attuale lo possiamo constatare proprio oggi. Pasolini parlava di un fascismo "in giacca e cravatta", forse più pericoloso di quello "con fez e manganello". Un fascismo strisciante che si insinua nella società al fine di plasmarla per il futuro: Pasolini lo capiva già allora, e gettò il suo allarme, pressochè inascoltato. Ma gli effetti di quella subdola opera di rimodellazione della società italiana (e, direi, della coscienza dell'italiano medio) sono oggi sotto gli occhi di tutti... Ed è per questo che non dobbiamo dimenticare quelle parole, come non dobbiamo dimenticare il resto di quanto ci ha potuto trasmettere ed insegnare Pasolini nella sua breve esistenza.

Francesco “baro” Barilli