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lunedì 3 agosto 2009

I SOMMERSI E I SALVATI - 1° PARTE

21 Marzo 2009, nasce a Nardò il Movimento per la Sinistra.
Dopo una moltitudine di riunioni, finalmente, si viene a costituire una struttura di sinistra senza gerarchie, finanziamenti (nazionali) e simboli (una piccola stella a testimonianza dell’anima ROSSA del Movimento).
Durante la costituzione del nuovo soggetto politico, già da gennaio, da parte di alcuni componenti, si è sentita l’esigenza di attivare delle proposte che portassero i poveri braccianti stagionali a vivere in delle condizioni che si allontanassero da quelle degli animali. Questi lavoratori affollano le nostre campagne, miseramente abbandonante dai neretini, nella ricerca di un salario capace di sfamare loro e alle volte anche le loro famiglie rimaste in patria.
La maledettissima campagna elettorale non ha permesso di attuare le nostre idee arrivando ad affrontare, quindi, una situazione di vera e propria emergenza.
Nardò, che nelle sue campagne di propaganda turistica si vanta di essere una città dedita all’accoglienza, in questo caso possiamo affermare che ha fatto ben poco.
Non esiste una struttura che possa garantire ospitalità e servizi, fatta eccezione di quella sita nei pressi della zona industriale di Nardò, la Masseria Boncuri gestita dai ragazzi dell’associazione Finis Terrae, nella quale possono trovare ospitalità solo 50 dei 500 braccianti stagionali.
La voglia di venire incontro alle necessità dei lavoratori stagionali da parte degli appartenenti al Movimento era tanta ma ad un certo punto le forze messe in campo erano davvero esigue. Chi per problemi di lavoro, chi per problemi personali e chi per motivi di studio non ha potuto dare quell’apporto che ci si aspettava.
Nonostante tutto ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo continuato a lavorare in attesa di tempi migliori.
Sono iniziati i primi incontri per verificare la situazione reale in cui versano i lavoratori stagionali.
Giuseppe Arrivo, uno dei ragazzi dell’associazione Finis Terrae e responsabile del dormitorio Masseria Boncuri, ci ha descritto quella che è la situazione all’interno della struttura e la capienza della stessa. Ci ha fatto notare come gli animi si surriscaldino facilmente (per questioni lavorative ed etniche) e si è definito un operatore sociale mercenario sostenendo che “l’importante è essere pagati”.
Maria Dolores Fonte, responsabile del Tribunale dei Diritti del Malato a Nardò, ci ha aperto gli occhi, descrivendoci la situazione paradossale, che fin a quel momento ignoravamo, venutasi a creare nell’accampamento di fortuna situato nelle vicinanze della masseria; condizione a dir poco da terzo mondo in una società del terzo millennio tecnologicamente avanzata. Il 29 giugno 2009 il TDM (tribunale dei diritti del malato) inoltra una richiesta alla Direzione Generale ASL Lecce, al Dirigente Sanitario Distretto di Nardò, al Dirigente Sanitario del Presidio Ospedaliero Copertino-Nardò e all’U.O. URP Direzione Generale per sollecitare il rispetto delle normative regionali, recitando così: “Egr.Signori, la presente per segnalarVi che si è riaperta l’annuale campagna di raccolta di pomodori e prodotti agricoli con la conseguente affluenza di lavoratori stranieri comunitari ed extracomunitari nel territorio della ASL Le. Riteniamo pertanto necessaria una verifica dell’effettivo adeguamento della rete sanitaria e quindi dei diversi servizi sanitari alle Linee guida della Regione Puglia del 7 ott 2008, Prot. n 24/4185. Alla Direzione dell’Azienda Sanitaria spetta il compito di definire con chiarezza tutti i passaggi relativi al percorso assistenziale dell’immigrato, che sia egli in regola o no con le norme sul soggiorno. In particolare riteniamo essenziale che si possa garantire un accesso lineare e tempestivo a quei lavoratori stagionali non in regola, che dovessero aver bisogno di cure……………………”. La legge della Regione Puglia prevede l’ accesso gratuito ai servizi sanitari e quindi il codice di esenzione per la richiesta di farmaci e di diagnosi sia per extracomunitari non in regola con il permesso di soggiorno che per i rifugiati politici e richiedenti asilo. Vi è un ulteriore circolare dell'assessore T. Fiore che esorta i medici ad utilizzare il codice X.01 per l'esenzione di prestazioni specialistiche nel caso il paziente sia un Extracomunitrio non in regola (STP) oppure goda dello status di rifugiato politico o con protezione umanitaria.
Inoltre siamo venuti a conoscenza di un tavolo organizzato in provincia nel quale erano seduti oltre ad esponenti delle forze dell’ordine anche il TDM, l’Ass. Finis Terrae, Ass. ai servizi sociali Carlo Falangone e gli imprenditori agricoli di Nardò cioè i signori Latino, Mandolfo e Leopizzi (non ricordo se ce ne fossero altri), i quali oltre ad aver descritto una situazione paradisiaca, hanno fatto una richiesta alquanto azzardata cioè quella di non aver controlli nei campi da parte degli organi di polizia, suscitando così l’ira del comandante provinciale dei carabinieri Poveruomo.

RINO GAETANO - AD ESEMPIO A ME PIACE IL SUD




RINO GAETANO - AD ESEMPIO A ME PIACE IL SUD

Ad esempio a me piace la strada
col verde bruciato, magari sul tardi
macchie più scure senza rugiada
coi fichi d'India e le spine dei cardi
Ad esempio a me piace vedere
la donna nel nero nel lutto di sempre
sulla sua soglia tutte le sere
che aspetta il marito che torna dai campi
Ma come fare non so
Si devo dirlo ma a chi
Se mai qualcuno capirà
sarà senz'altro un altro come me
Ad esempio a me piace rubare
le pere mature sui rami se ho fame
e quando bevo sono pronto a pagare
l'acqua, che in quella terra è più del pane
Camminare con quel contadino
Che forse fa la stessa mia strada
parlare dell'uva, parlare del vino
che ancora è un lusso per lui che lo fa
Ad esempio a me piace per gioco
tirar dei calci a una zolla di terra
passarla a dei bimbi che intorno al fuoco
cantano giocano e fanno la guerra
Poi mi piace scoprire lontano
il mare se il cielo è all'imbrunire
seguire la luce di alcune lampare
e raggiunta la spiaggia mi piace dormire


Nato a Crotone il 29 ottobre 1950. Morto a Roma il 2 giugno 1981.
Romanticismo, humour, tristezza, ma anche sarcasmo. È Rino Gaetano, l'autore di Gianna, un maestro d'ironia, uno dei cantautori più conosciuti degli anni '70.
Comincia infatti quasi per caso ad incidere canzoni con la It, una casa discografica alla ricerca di nuovi talenti. Il suo primo 33 giri è Ingresso Libero. Il grande pubblico si accorge di lui con Il cielo è sempre più blu e poi con Berta filava. Infine il successo: con singoli come Aida e Gianna. Quest'ultima canzone si piazza terza - dopo i Matia Bazar e Anna Oxa - al Festival di Sanremo del 1978, dove il cantante si presenta con un frac, un cappello a cilindro, il tutto smitizzato da una camicia a rigoni rossi verticali. Proprio Gianna resta per un mese, a marzo, in vetta alla classifica dei 45 giri.

Verso la fine del 1978 Gaetano si reca in Spagna per registrare le versioni in lingua originale di alcune sue canzoni. È il tempo della tristezza: in Italia impazza la moda del reggae e lui, come segno di rifiuto delle ideologie e dei rituali politici, scrive una invettiva in musica dal titolo Nuntereggae più in cui si scaglia contro la castità, il maschio forte, le superpensioni, gli evasori legalizzati, e anche contro alcuni personaggi della vita economica, politica, sportiva...
Del 1981 - anno in cui gira in tourneè con Riccardo Cocciante - l'ultimo suo album E io ci sto. Muore la notte del 2 giugno 1981, all'alba, dopo un incidente con la sua Volvo 343 in via Nomentana. Anche perché ben cinque ospedali ne rifiutano il ricovero. Dopo quindici giorni avrebbe dovuto sposare la sua ragazza Amelia, di Fondi. aggiornata febbraio 2000

18 Aprile festa nazionale dei parastatali con almeno due anni di servizio. La scelta casualmente di comune accordo fra tutti i parastatali del regno festeggiava San Galdino vergine. Tutti si preparavano alla festa e nessuno ne sentì mai la mancanza. Il principe con i piedi contro il lampadario acquistava dimestichezza con lo Yoga-Rock: ultima importazione anglo-americana in tema di belinate. Il fratello del principe si rosicchiava il medio della sinistra convinto di contribure con questo allo sviluppo dei popoli in via di sottosviluppo. La regina sculacciava di santa ragione un servitore, visto che si trattava di un fatto reale. Il re si depilava sulle cosce. Il popolo eseguiva un raro esercizio di masturbazione massificata. La forza dell'ordine nell'esercizio del proprio dovere si identificava col popolo, e tutti cantavano in coro « Binario, dolci parallele della vita ». I parastatali scalzi e votati alla castità si recavano in fila per quattro verso lo stadio pena: la morte. Il primo esercizio, consisteva nella scalata dei tralicci d'illuminazione ai bordi dello stadio; e nell'immediato tuffo a testa in giù sulle gradinate. Altri mille giochi coronavano la festa e tutte le categorie partecipavano con spirito sportivo e abnegazione assoluta. Al vincitore veniva concesso di toccare per secondi trenta le coscie alla regina, ma inevitabilmente ogni anno era lo stesso re, gelosissimo e depilato a sottoposi al trattamento. Allora ci furono dei moti sovversivi capeggiati dai rossi che al grido « W la regina e le sue cosce » organizzarono manifestazioni articolate. La rivoluzione non tardò. La rivoluzione era fissata per le ore 18:00 in piazza larga e si apriva con un concerto di Fabrizio De Andrè. Rino Gaetano (1976)
Questo era pubblicato sul retro della copertina dell'album «Mio Fratello e' Figlio Unico» nel 1976. Da allora sono passati 22 anni ma quel testo ironico e metaforico tutto italiano è ancora attuale. Come pure attuali sono le parole di «Nuntereggae più» pubblicata in occasione del Festivalbar 1978 (20 anni fa esatti) della quale, purtroppo, non posso pubblicare il testo per motivi di copyright.
Poche parole per ricordare questo singolare artista, voce del sud, trapiantato a Roma e scoperto da Vincenzo Micocci (colui che negò nel '78 un audizione ad Alberto Fortis al quele lo stesso Fortis dedicò le famose «Milano & Vincenzo» ed «A Voi Romani» ). Ci restano solo le canzoni di Rino, sempre attuali e graffianti permeate di ironia ed autocritica rivolta al malcostume del popolo italiano. Un modo "nuovo" di esprimere il proprio dissenso senza indossare necessariamente l'abito dell'intellettuale di sinistra, tanto di moda negli anni '70.

L'Aquila: vietato protestare



Strappato striscione contro Berlusconi a manifestanti

Purtroppo non ci si meraviglia più quando viene apertamente violato l'articolo 21 della Costituzione italiana.

Per fortuna ci si continua ad indignare di fronte a questi atteggiamenti che ricordano molto da vicino ben altri periodi storici


Come già avvenuto in altre occasioni, la presenza del premier Berlusconi implica automaticamente la non validità dell'articolo 21 della Costituzione italiana che sancisce la libertà di espressione e di pensieronel nostro Paese.

E così durante la visita del premier Berlusconi a L'Aquila per inaugurare le prime case, un gruppo di attivisti hanno cercato di esporre un cartello di protesta: “Dopo 4 mesi ancora nelle tende... è questo il vostro miracolo?”.

Ma il premier non ama le contestazioni...e i servi dello Stato non vogliono recargli dispiacere: per questo motivo è stato impedito ai manifestanti di esporre lo striscione di protesta, tentando addirittura di sequestrarlo senza alcun valido motivo.

testo tratto da Abruzzo.Indymedia

Emergenza virus H1N1 e vaccinazioni di massa

LETTERA APERTA ALLE CENTRALI COOPERATIVE E AI SINDACATI

Gentili dirigenti delle Centrali cooperative Legacoop, Confcooperative e AGCI e spettabili sindacati di rappresentanza dei lavoratori,

negli anni scorsi è stato facile constatare come la campagna di profilassi vaccinale contro i virus dell'influenza risultasse differenziata da regione a regione in quanto a coordinamento, organizzazione dei presidi sanitari e, soprattutto, informazioni da diffondere alla cittadinanza.

Come operatori sociali che lavorano in grandi comunità residenziali non siamo mai stati messi al corrente dalla nostra organizzazione cooperativa dell'utilità o meno della vaccinazione e dell'eventuale disponibilità gratuita presso i presidi sanitari zonali.

L’arrivo, previsto alla fine dell’estate, del nuovo e insidioso virus dell’influenza A, che già sta mettendo in crisi intere popolazioni dell’emisfero australe con un migliaio di morti “ufficiali”, induce a rivolgervi un pressante invito ad adempiere con puntualità e diligenza alle vostre prerogative di associazioni mutualistiche di rappresentanza.

Centinaia di migliaia di soci lavoratori di cooperative sociali e di collaboratori esterni lavorano in servizi di comunità come asili nido, case famiglia, case di riposo, centri diurni, strutture residenziali riabilitative e psichiatriche, centri di aggregazione giovanile. Ci auguriamo che, differentemente dagli anni scorsi, a tutti gli operatori sociali ivi impiegati arrivi un'informazione puntuale sulla possibilità di usufruire della campagna di vaccinazione prioritaria prevista per la fine dell'anno in corso.

Si tratta di fronteggiare un virus del quale non si conosce ancora la capacità effettiva di colpire in maniera importante grandi settori della popolazione.

La profilassi non può permettersi, in questo caso, errori e sottovalutazioni ed è per questo che, con questa lettera aperta, Vi chiedo di coinvolgere tutte le vostre cooperative associate perché siano, come le Asl e i Comuni e in coordinamento con essi, un punto di riferimento territoriale di tutela per i soci lavoratori, collaboratori e le loro famiglie essendo essi tra le fasce di cittadini considerati più a rischio.

La mancata vaccinazione prioritaria di un operatore sociale che lavora nelle comunità residenziali e semiresidenziali potrebbe vanificare gli sforzi del ministero della Sanità e aggravare ancora di più la situazione di emergenza che ci attende nel prossimo inverno.

Domenico Ciardulli http:www.ciardullidomenico.it

da Indymedia

Vite in fuga

Migliaia di somali tentano di fuggire in Yemen mentre il loro Paese è in fiamme

L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha lanciato l'allarme: migliaia di civili in fuga dai combattimenti in Somalia si sono riversati nella città costiera di Bosaso, in attesa che i trafficanti di esseri umani possano portarli in Yemen.

Somalia in fiamme. La situazione a Mogadiscio e dintorni è disperata. Le milizie integraliste degli al-Shabaab e degli Hisb-ul-Islam combattono contro il governo provvisorio riconosciuto dall'Onu casa per casa. I civili, come sempre, sono al centro del fuoco incrociato. In passato, con l'intervento dell'esercito etiope, era stata ristabilita una parvenza di legalità in Somalia, ma le cosiddette Corti Islamiche si sono riorganizzate e, con l'appoggio dell'Eritrea, hanno lanciato una pesante controffensiva riuscendo a giungere di nuovo nella capitale Mogadiscio, dove il 28 luglio scorso i ribelli hanno proclamato un'amministrazione parallela. L'Unione europea attende, gli Usa si dicono vigili rispetto alla situazione, l'Unione africana manda truppe di pace ma è divisa al suo interno. Nel mentre la Somalia è un inferno, dal quale migliaia di civili tentano la fuga attraverso il golfo di Aden. Le sue acque sono infestati dai pirati, ma sono questi ultimi che gestiscono il racket dei viaggi dei disperati verso la penisola arabica e non li fermeranno certo loro.

Un mare di disperati. Secondi le stime dell'Unhcr, sono almeno 12mila i civili ammassati sulla spiaggia in attesa degli scafisti, ma nella città di Bosaso potrebbero arrivare più di 200mila persone in fuga da Mogadiscio. L'agenzia dell'Onu ha diffuso una nota nella quale avverte che la situazione umanitaria nella cittadina somala sta diventando sempre più difficile, anche perché la maggior parte degli sfollati potrebbe restare in città fino a settembre, quando le condizioni del mare potranno essere meno pericolose. Per capire l'entità del rischio della traversata basta sapere che sono mille le persone che hanno perso la vita nel 2008 e i dispersi sono stati almeno 225. Nel 2007 i morti ed i dispersi sono stati rispettivamente 267 e 118. Dall'inizio del 2009 sono già 300 le vittime delle correnti e degli scafisti senza scrupoli. Una strage che rischia, considerando quante persone tenteranno la traversata, di diventare un eccidio.

Yemen in difficoltà. Se la situazione a Bosaso non precipita prima e se i migranti riuscissero a raggiungere le coste dello Yemen, il governo di Sa'ana si troverebbe a gestire una vera e propria emergenza umanitaria. La legge yemenita riconosce ai cittadini somali lo status di rifugiati politici, che vengono accolti, curati, rifocillati e condotti nel campo di Kharaz (governatorato di Lahj), dove ricevono protezione legale, fisica e sanitaria. Solo che a Kharaz ci sono già 13mila persone, senza contare le migliaia di rifugiati e migranti che vivono nei sobborghi delle città più grandi in Yemen.
Una situazione difficile da gestire, anche con l'aiuto dell'Onu e delle sue agenzie. Alcuni dati rendono l'idea dell'enorme pressione migratoria alla quale è sottoposto un Paese non ricco come lo Yemen: nel 2008 sono giunte sulle coste yemenite almeno 50mila persone. Un incremento, rispetto all'anno precedente, del 70 percento. Solo nei primi mesi del 2009 sono state 30mila gli sbarchi.
Le autorità dello Yemen, con il supporto dell'Onu, stanno tentando di creare un database per registrare i somali e per distinguerli dai migranti economici del resto dell'Africa, ma non è facile.

I problemi di Sa'ana. Oltre ai problemi economici, lo Yemen attraversa una fase di grave instabilità politica. Nel governatorato di Sa'ada, nello Yemen settentrionale, è in corso da anni una vera a propria guerra civile tra i militari yemeniti e i ribelli seguaci di al-Houti, un predicatore sciita da sempre in conflitto con il potere centrale gestito dai sunniti. Lo Yemen ha spesso accusato l'Iran di fomentare la rivolta, ma al di là delle responsabilità politiche internazionali, resta un problema enorme di sfollati interni. Secondo i dati dell'Internal Displacement Monitoring Centre (Idmc), un'organizzazione non governativa che si occupa dei sfollati interni, sono almeno 100mila le persone in fuga dai combattimenti che hanno causato la morte di centinaia di civili. Ad aprile, inoltre, dopo anni sono riapparse le bandiere e i militanti del Pdry, la sigla del governo socialista del sud che dichiarò la secessione. Nel 1994 alcuni ufficiali e politici di ispirazione marxista proclamarono la secessione della regione meridionale dello Yemen che assunse il nome di Repubblica Democratica dello Yemen con capitale Aden. Non riconosciuto internazionalmente, questo tentativo di secessione venne stroncato in due settimane di combattimenti dalle forze governative. La protesta era guidata dagli ex militari e funzionari pubblici che, in cambio della resa, avevano ottenuto la promessa di un reinserimento nella vita del Paese. Scontri, arresti e disordini.

Strategia della tensione. Il primo ministro yemenita, Ali Mujawir, in un'intervista concessa al quotidiano al-Sharq al-Awsat il 30 luglio scorso, ha dichiarato: ''Abbiamo scoperto la presenza di un legame tra i terroristi di al-Qaeda, i ribelli sciiti del nord e i secessionisti del sud. Quello che sta accadendo in questi mesi in Yemen ha una regia straniera. Questi tre gruppi satanici hanno contatti pregressi. Il nostro lavoro è quello di non consentire che lo Yemen diventi un rifugio sicuro per i terroristi''. Parole pesanti e un po' forzate. E' difficile immaginare un'alleanza tra ex marxisti golpsti, integralisti sunniti (al-Qaeda) e sciiti. La sensazione è che il governo dello Yemen si trovi in gravi difficoltà e che prepari un clima di tensione per giustificare l'uso massiccio della forza. I somali disperati in fuga dalla guerra rischiano, una volta passato il Golfo di Aden, di precipitare in un altro inferno.

Christian Elia da PeaceReporter

Vendola: "ci vuole un meridionalismo che alzi la bandiera dell’autoriforma"

Intervista a Nichi sullo sblocco dei fondi Fas, anticipato per la Sicilia ma rinviato per la Puglia.
Da La Gazzetta del Mezzogiorno del 02.08.09

“Polemiche a parte, resta un nodo da sciogliere: la Puglia è trattata come un ancella da questo governo, perché questo governo continua a concepire il Sud come una palla al piede”. Nichi Vendola alza il tiro dopo le trattative bollenti sullo sblocco dei fondi Fas, sblocco che è stato anticipato per la Sicilia mentre per la Puglia è stato rinviato a settembreChe idea si è fatto di questo rinvio? Le bastano le rassicurazioni del premier e del ministro Scajola?
Il giudizio lo daremo quando approveranno il Par Puglia: sino ad oggi il giudizio può essere solo politico e l’approvazione dei fondi destinati alla Sicilia appare più un modo per rimettere a posto le fibrillazioni interne al centrodestra e quella specie di secessione del Pdl siciliano. Purtroppo possiamo solo attendere e sperare che ci sia una ripresa di rapporti tra governo centrale e regioni: oggi sono nel punto più basso e più critico della storia nazionale.

Il governo dice che i progetti della Puglia non erano pronti.
Penso che siano stati usati argomenti pretestuosi per non includere nella riunione Cipe di fine luglio il Par Puglia. L’accordo di marzo tra governo e regioni determinò una sorta di automatismo tra presentazione dell’istruzione del Par e il suo varo. I discorsi di dettaglio che fa il ministero dello Sviluppo, per ora, ci consentono di credere al fatto che il Par pugliese sarà il primo del prossimo Cipe. Siamo in pole position per cantierizzare opere da 3,1 miliardi, opere che rappresentano ossigeno per la Puglia. Mi auguro che l’impegno venga mantenuto.

Più in generale sul Sud si stanno scatenando polemiche, dentro e fuori il governo. Che ne pensa?
Sono stato il primo in Italia a denunciare un Sud alla deriva, spogliato nei decenni dei trasferimenti ordinari e toccato nelle risorse addizionali, che sono diventate purtroppo le uniche. Questo governo è nato su una spinta ideologica legata alla questione settentrionale, che ha fatto proseliti anche nel centrosinistra. Il Sud viene visto come palla al piede, e l’alfiere e paladino - con la costruzione di campagne politiche - ne è il ministro Tremonti. La questione settentrionale, frutto del rancore sociale dei ceti rampanti che hanno visto piombare una crisi importante sulle loro spalle e hanno reagito col turbo-capitalismo in chiave padana - schiantatosi contro il muro della recessione - predomina. La Lega è diventata il nuovo partito della spesa, che drena risorse crescenti per il Nord e governa con una politica economica che sterilizza i fondi per il Sud. Sanità e scuola pubblica, finanziati dal prelievo sulle rendite dei ceti possidenti come accade in Usa, vengono ignorate. Si chiede, piuttosto, nuova contribuzione alle aree più depresse. Ora, finalmente, queste contraddizioni si sono aperte.

Meglio “Io Sud” della Poli Bortone o il partito del Sud prospettato da Micciché?
Ci sono in campo nuove istanze politiche e sociali: il Sud ha rotto il muro del silenzio dopo 30 anni di afasia. Oggi, grazie all’antimeridionalismo di Berlusconi, riprende la parola. Guardo con interesse a tutto ciò che si è messo in movimento nel Sud, è il segno di uno scongelamento: la parola del Sud era ibernata. Non abbiamo, però, bisogno del partito del Sud, che può essere la realizzazione del notabilato localistico o della ramificazione clientelare. Penso, invece, che ci siano tanti Sud e che quelli buoni sono assediati da quelli cattivi. Il sudismo è ideologia speculare del leghismo e non aiuta il Sud. Ci vuole un meridionalismo nuovo, che alzi la bandiera dell’autoriforma. Dobbiamo rimettere a fuoco la macchina pubblica, con trasparenza di atti e moralizzazione della vita pubblica. La politica deve tornare a recuperare una funzione e il Sud deve scegliere le virtù civiche contro l’ignavia, la questione morale contro il fatalismo dei meccanismi corruttivi. Deve ribellarsi a ciò che di patologico vive nelle proprie viscere.

La questione morale, però, è da affrontare innanzitutto in Puglia.
Sì, ma non nella forma di polemiche degli uni contro gli altri, non con discorsi scanditi dal sensazionalismo delle inchieste. Penso sia necessaria una rifondazione dell’ethos pubblico e della politica. Il Sud può diventare vettore di una nuova unità del Paese se è in grado di accettare questa sfida. Abbiamo bisogno di un meridionalismo nuovo e la Puglia, a questa sfida, non intende sottrarsi.

RICCARDO RASMAN

Riccardo Rasman era alto 1 metro e 85, pesava 120 chili ed era affetto da “sindrome schizofrenica paranoide”. Il 27 ottobre del 2006 muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, aveva 34 anni ed è morto per “asfissia da posizione” dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti.La sindrome di Riccardo iniziò durante la leva militare, durante il quale subì numerosi episodi di quello che viene banalmente definito “nonnismo”, ma che invece è un misto di violenza e prepotenza. E’ da lì che Rasman inizia a vivere con la paura delle divise. Aveva paura, viveva nella paura delle divise, poco importa se militari o di polizia, quelle divise gli avevano portato la sua malattia e il 27 ottobre del 2006 anche la morte.

La sera del 27 ottobre 2006 l’intervento delle pattuglie avvenne dopo la segnalazione di “spari” provenienti dalla casa di Riccardo, erano petardi per festeggiare il nuovo lavoro da netturbino. Quella sera era eurofico, era felice, ma ha commesso un peccato mortale, ha deciso di festeggiare gettando alcuni petardi dal balcone. Questa la causa della sua morte.
Una vicina chiama la polizia, arrivano due volanti, vogliono entrare ma lui ha paura si distende sul letto, è solo, dice che no non vuole aprire, a un certo punto urla se entrano li ammazza, ma è troppo tardi "l’ordine" non tollera insubordinazioni, neanche da chi è ammalato. I poliziotti chiamano i vigili del fuoco, viene sfondata la porta ... e inizia la fine.
Sul corpo di Riccardo diverse ferite, molto sangue nella camera, le perizie dei legali di parte dicono: "per causare le lesioni riscontrate gli agenti hanno usato mezzi di offesa naturale in maniera indiscriminata anche verso parti del corpo potenzialmente molto delicate, ma anche oggetti contundenti come potevano essere il manico dell’ascia rinvenuta nell’alloggio o il piede di porco usato dai vigili del fuoco per forzare la porta d’ingresso. Gli stessi agenti hanno ammesso di averlo utilizzato contro il braccio destro di Riccardo". Manette ai polsi e filo di ferro alle caviglie, ma anche i segni di un "imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca, effettuato con un cordino o con qualcosa di simile. Questo imbavagliamento avrebbe causato una ulteriore restrizione, soprattutto della respirazione".
Il PM sta valutando se chiedere l’archiviazione o proporre il rinvio a giudizio dei quattro poliziotti, la difesa afferma che l’intervento dei poliziotti era legittimo e l’azione svolta per legittima difesa, i legali di parte civile affermano: "In caso di delitti ed in particolare di omicidi di cui sono accusati appartenenti alle forze dell’ordine, le indagini devono essere affidate a corpi investigativi che siano indipendenti da quelli coinvolti nei fatti delittuosi. I primi testi furono persino sentiti dagli attuali poliziotti indagati".
L’archiviazione del caso tutto questo non potrebbe chiarire, solo un processo potrebbe aprire alla verità e forse alla giustizia.
Proprio quest’anno si celebra il trentennale della 180, e c’è chi in questa città vuole festeggiare Basaglia, ma ha deciso di tacere su quanto successo a Riccardo, noi vogliamo poter festeggiare anche la Verità e la Giustizia e per farlo non possiamo lasciare una morte come questa nel silenzio.

SENTENZA CASO RASMAN

Era il 27 ottobre 2006. Ora tre dei quattro agenti, dopo aver subito un processo, sono stati condannati con rito abbreviato a sei mesi di carcere e 60mila euro di provvisionale. Condannati quindi il capopattuglia Mauro Miraz e i suoi colleghi Maurizio Mis e Giuseppe De Biase, scagionata Francesca Gatti quarto componente della pattuglia. L’accusa? Omicidio colposo. Non doloso. La pena inflitta è la minore: per l’omicidio colposo sono previsti da 6 mesi a 5 anni. E questo è solo il primo grado, eh. Resta comunque il fatto che è la prima volta in Italia che vengono condannati degli agenti di polizia per omicidio colposo. Per le motivazioni però bisognerà attendere, quindi attenderemo.
Per rendere ancora più chiara la vicenda vi segnaliamo un lungo intervento sul blog di Beppe Grillo in cui si possono vedere e leggere i passaggi del processo, oltre alle interviste ai familiari ed alcune crude immagini che documentano la morte di Riccardo Rasman. Sul caso era stata portata in parlamento anche un’interrogazione parlamentare presentata al Ministero dell’Interno il febbraio scorso.

La democrazia, che si afferma in America latina e tramonta in Occidente

Scritto da Gianni Minà

Adesso voglio vedere se fra i coriferi del capitalismo a qualunque costo -umano, sociale, etico- ci sarà qualcuno che avrà l’onestà di dire che questa idea di società è miseramente fallita così com’era successo nell’89 al comunismo, e che quello che sta succedendo negli Stati uniti a banche e assicurazioni,che stanno trascinando nel baratro pensioni e risparmi di milioni di cittadini, è per l’Occidente, uno sconquasso della stessa drammatica intensità della caduta del muro di Berlino per il mondo che si ispirava ai principi del marxismo.
Perché questa fragilità, questa corrotta ambiguità dell’economia di mercato era palese da tempo, eppure molti degli ultras del liberismo si ostinavano a sottolineare la “fine delle ideologie”. Ma se scavavi tra le pieghe del discorso, scoprivi che in realtà l’unica ideologia che questi ultrà reputavano morta e da seppellire era quella comunista. E anche quando erano costretti ad ammettere che in nome del libero mercato erano stati compiuti crudeli genocidi [come in Africa o in America latina] con aria falsamente ingenua erano pronti a chiederti: “Ma cosa mi offri in cambio? Non esiste un’alternativa”.

E quindi si poteva mentire al mondo per fare le guerre, vendere armamenti, saccheggiare risorse, o si poteva condannare alla fame e alla miseria interi continenti, magari per difendere solo i privilegi e le sovvenzioni ai contadini di Stati uniti, Francia o Italia, o ancora si poteva continuare a rapinare le ricchezze dell’umanità meno attrezzata, meno pronta ad affrontare le sfide capziose del mercato.

Perché annientare l’80% dell’umanità per le logiche dell’economia capitalista era ed è evidentemente più accettabile, più democratico, meno scandaloso che morire in un gulag o non avere abbigliamento firmato o McDonald’s. Così come non è inquietante se a controllare l’informazione, a ideologizzare e indirizzare la tua vita non sono ottusi burocrati di partito, ma la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochissimi, che hanno il controllo di apparecchiature degne del Grande fratello di Orwell.
Ci avevano detto, e quasi stavamo per crederci, che il capitalismo era l’unica salvezza dell’umanità, un sistema che aveva una soluzione per tutto, perché comandava l’infallibile mercato e la ricetta si era rivelata indiscutibile: quando l’economia non funzionava, bastava privatizzare e tutto si sarebbe risolto.
Così quando il governo di Washington dell’ineffabile Bush e del suo vice, l’affarista Cheney, ha deciso, fregandosene dell’ideologia liberista fino a ieri Vangelo, di salvare, nazionalizzandoli, i due colossi dei mutui Fannie Mae e Freddy Mac [l’8 settembre] e pochi giorni dopo [il 17 settembre], con un intervento della Banca centrale ha tolto dal gorgo dal fallimento l’AIG [American International Group], il gigante delle assicurazioni, è stato chiaro che tutta la retorica del “più mercato - meno stato” era una burla, un’escamotage dei mercati finanziari per privatizzare, quando c’erano, i guadagni e socializzare le perdite.
Una presa per i fondelli colossale, senza il minimo pudore, se uno come Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia di un governo come quello di Silvio Berlusconi, che le regole non le ha mai rispettate, si è subito adeguato come un burocrate sovietico: “Dalla crisi si esce con più intervento pubblico. Se il male è stato l’assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole”. Neanche un ministro democristiano dell’epoca della Cassa del Mezzogiorno avrebbe potuto cambiare abito così in fretta.
Ma lo stesso atteggiamento hanno tenuto i più prestigiosi giornali europei: la Repubblica, quotidiano italiano un tempo di sinistra, titolava il 20 settembre in prima pagina, con assoluta disinvoltura: “Terapia Bush, Borse in festa”. Di fatto presentando in positivo quello che fino a ieri, nel capitalismo, era considerata un’eresia: l’intervento in extremis dello stato nel mercato, ovvero l’ultima, disperata mossa politica di quello che molti cittadini nordamericani giudicano da tempo come il peggior presidente che il paese abbia avuto nell’ultimo secolo. La decisione del governo Bush scarica sui contribuenti americani, come fa rilevare sempre su la Repubblica, Federico Rampini, un onere oggi incalcolabile e potenzialmente illimitato, pur di frenare la catena di crac delle maggiori istituzioni finanziarie e le conseguenti pericolose ondate di panico.
Ma questa analisi onesta e realistica non ha suggerito un titolo meno trionfalistico per il piano da mille miliardi di dollari [in proporzione più del piano Marshall varato nel 1947 dal presidente Truman per aiutare l’Europa a rialzarsi] messo in marcia dal ministro del Tesoro Usa. D’altronde, il mondo della finanza neoliberista ha sempre preferito illudere, nascondere e mascherare, sperando follemente che nulla alla fine cambiasse.
Pochi anni fa, la benemerita Fondazione Ambrosetti che organizza le giornate di Cernobbio, sul lago di Como, dove si incontra ogni anno la creme de la creme dell’economia liberale [o presunta tale], mi contattò perché sentiva l’esigenza di far ascoltare, per una volta, una voce dissonante a una compagnia di giro dove i primi attori erano quasi sempre Shimon Peres, Henry Kissinger o perfino l’ex premier spagnolo Aznar, nemico giurato di tutte le ricette sociali antiliberiste.
Avrebbero voluto invitare il presidente cubano Fidel Castro: “Non condividiamo la sua linea intransigente -mi dissero- ma forse è arrivato il momento di confrontarsi con le ragioni di chi, prima di papa Wojtyla, affermò, fin dalla metà degli anni 80, che il debito estero di molte nazioni del Sud del mondo era immorale e impagabile”. Una scelta fuori dal pregiudizio. Li misi in contatto con l’ambasciatore cubano in Italia, anche se ero scettico sulla possibilità che quell’idea sarebbe stata accettata dagli abituali frequentatori del meeting di Cernobbio.
Il presidente cubano non aveva spazio nella sua agenda per aderire a quell’invito e allora io consigliai ai dirigenti della Fondazione Ambrosetti di chiedere aiuto a Eduardo Galeano, coscienza critica dell’America latina e di quello che chiamano il Terzo mondo, che proprio in quei giorni usciva anche in Italia con un libro emblematico, “A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia”. Eduardo accettò l’invito e inviò in anticipo il testo del suo intervento, basato su alcune delle brevi e paradossali composizioni, spesso intrise di ironia, che si susseguono nei suoi saggi e sono tipiche del suo modo di raccontare la storia e il mondo. Concedette anche un’anteprima al giornale la Stampa di Torino, che uscì la mattina in cui Galeano avrebbe dovuto intervenire.
Avrebbe. Perché, con un certo imbarazzo quelli della Fondazione avvisarono la sera prima lo scrittore de “Le vene aperte dell’America latina” e ora di “Specchi, una storia quasi universale” che, per l’obbligatorio inserimento nel programma di un ospite politico fino a quel momento in forse, non ci sarebbe stato più spazio per il suo intervento.
Galeano la prese con un sorriso disincantato: “Quelli dell’economia neoliberale considerano le loro convinzioni un dogma che non può essere discusso. Per questo li hanno definiti ‘i paladini del pensiero unico’. Ma non si illudano, sarà la storia a smentirli”.
Così a quanto pare è stato, anche se finora è mancato il coraggio di dire, chiaro e tondo, che nel mese di settembre del 2008 è crollato anche il muro del capitalismo.
D’altronde non poteva che finire così. Il neoliberismo si regge in piedi continuando ad ammucchiare bugie, con i giornalisti, incapaci, la maggior parte delle volte, di tenere la schiena dritta, e invece tesi pateticamente a sostenere argomenti che non stanno in piedi e a scrivere parole in libertà per giustificare l’ingiustificabile.
È sufficiente dare uno sguardo alla Direttiva del Rientro, approvata lo scorso 18 giugno dal Parlamento Europeo, per capire quanto sia in decomposizione la democrazia in un’Europa pavida e impaurita, mentre in altri continenti, come l’America latina, fino a ieri carente di diritti per tutti, spira un’aria nuova, dove il riscatto di nazioni indigene come Bolivia ed Ecuador, comincia proprio da una riscrittura rigorosa e seria di una Costituzione che rispetti tutti. Non solo, come avveniva fino a pochi anni fa, le oligarchie bianche e predatrici.
Proprio Galeano, nella cerimonia in cui, in Paraguay, il giorno dell’assunzione del’incarico di presidente da parte di Fernando Lugo, è stato dichiarato Cittadino Illustre del Mercosur, non ha evitato il sarcasmo riguardo all’ipocrisia delle nazioni del Vecchio continente: “L’Europa ha approvato da poco la legge che trasforma gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi,” ha aggiunto. “L’Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte la porta sul naso degli invasi una volta che questi ricambiano la visita”.
Per capire quanto è grande questa crisi di credibilità dell’Occidente, è sufficiente considerare come, negli ultimi tempi, dai media di casa nostra è stato raccontato il braccio di ferro che il giovane presidente dell Bolivia, Evo Morales, ha intrapreso contro i prefetti secessionisti delle ricche province orientali del suo paese, per ora bloccati, senza mortificare la democrazia, nelle loro strategie eversive sostenute, oltre che dalla Cia e dalla peggiore diplomazia nordamericana, dagli eredi dei vecchi ustascià croati, riparati, dopo la seconda guerra mondiale, nella Bolivia delle dittature militari e delle centinaia di colpi di stato.
Con questi figuri ci sarebbero perfino vecchi attrezzi del neofascismo golpista italiano come Marco Marino Diodato, che nella notte tra l’ 11 e il 12 settembre, avrebbe organizzato gli squadroni della morte legati ai gruppi civici che si battono, con la scusa dell’autonomia regionale, contro l’idea di nazione e di democrazia di Evo Morales. Nel massacro di El Porvenir [nella provincia di Pando] sono stati uccisi quindici contadini che si recavano ad una manifestazione di appoggio al presidente.
Con chi dovrebbe stare la stampa democratica dell’Occidente? Sarebbe facile rispondere con il giovane presidente boliviano. E invece, per non dispiacere alle spericolate politiche dell’amministrazione Bush in America latina come in altre parti del mondo, i media non sanno nascondere una certa condiscendenza per la secessione, per il tentativo di destabilizzazione che l’ex ambasciatore Usa Goldberg, ora rispedito a Washington, ha perseguito, finora senza risultati concreti, in questi mesi intensi e sofferti del paese in cui si immolò Che Guevara. E così hanno parlato di “paese diviso in due”, di “pareggio”, di “stallo”, pubblicando cartine geografiche sul consenso politico del presidente nel paese, chiaramente fuori dalla realtà, come dimostra l’annuncio di avvio di un dialogo da parte dei prefetti secessionisti ribelli,
La linea da tenere sull’argomento, come su tutta la febbre di riscatto che cresce in America latina, sempre più lontana dall’essere il “cortile di casa” degli Stati uniti, la dà El País, il potentissimo quotidiano spagnolo che ha ramificazioni e interessi in tutto il Cono sud. E lo fa quasi sempre con le parole astiose di Mario Vargas Llosa, uno scrittore straordinario che però, come tanti, non si dà ancora pace di essere stato in gioventù un militante comunista, e quindi non apprezza il vento di cambiamento che soffia nel continente.
Dario Fertilio, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, e Angelo Panebianco che gli ha dedicato la sua rubrica sul magazine dello stesso giornale, si dolgono così del fatto che, al contrario di quanto succede con gli scritti politici di García Marquez, di Luis Sepúlveda e di Eduardo Galeano, quelli di Vargas Llosa non vengano fatti conoscere in Italia. La colpa viene data ovviamente alla nostra editoria che, secondo Panebianco “continua a essere convinta che ‘cultura’ sia sinonimo di ‘sinistra’”. Perché, non è così professore? E, mi perdoni, l’editoria italiana, a cominciare dal colosso Mondadori, a chi è in mano? Forse, nella logica neoliberista ora improvvisamente in crisi, il Vargas Llosa saggista non è pubblicato solo perché non è ritenuto interessante per il mercato. So che è sconveniente, ma forse è proprio questa la ragione di questa dimenticanza, anche se lei parla di “offerta politicamente monocorde che influenza e plasma la domanda”. Tanto per la verità, professore, e per non prendere per i fondelli i lettori...

LA LIBERAZIONE E LA RINUNCIA ALLA POLITICA DELLA BETANCOURT
Il segno del cambiamento del clima democratico, del rinascimento del continente latinoamericano, d’altronde, non viene solo dalle nazioni come Venezuela o Bolivia, più discusse fra i media occidentali per il modo intransigente di negarsi all’antica sudditanza alla politica degli Stati uniti.
In Ecuador, per esempio, il presidente Correa, oltre a investire anche lui su una nuova scrittura della costituzione, molto innovativa per quanto riguarda la tutela di tutti e l’introduzione del tema dei diritti dell’ambiente, ha messo in marcia un orgoglioso Plan de ritorno, un progetto per un rientro in patria dei cittadini costretti a emigrare negli ultimi decenni [quasi il 20% della popolazione]. Il piano ha l’obiettivo di creare tutte le condizioni possibili affinché il rientro dei propri connazionali avvenga in maniera volontaria, degna e sostenibile
È interessante rilevare che la proposta arrivi proprio dall’Ecuador un paese che conosce molto bene la tematica migratoria: intesa sia come emigrazione che come immigrazione. Nel Paese andino la questione è particolarmente sentita non solo perché circa 2.500.000 di ecuadoriani sono andati all’estero [30mila solo a Genova, in Italia], ma anche perché a causa del vicino conflitto interno colombiano ogni anno migliaia di di cittadini di quel paese passano il confine, facendo dell’Ecuador la nazione con il più alta percentuale di popolazione colombiana nel Sud america.
Questi ultimi dati sulla deriva della Colombia sottolineano ancor di più la scorrettezza costante che caratterizza i nostri media quando sono costretti a parlare di una storia scandita dal modo disinvolto degli Stati uniti di far prevalere i propri interessi. Dopo tante paure e tentativi falliti, le FARC hanno liberato Ingrid Betancourt. L’ex presidente della repubblica italiana Francesco Cossiga, da sempre molto vicino ai governi di Washington, con il suo solito fare un po’ svagato e un po’ enigmatico, ha smentito la versione ufficiale [l’apparato militare del presidente Uribe, con un’accorta trama, ha letteralmente sfilato di mano gli ostaggi alla guerriglia] e ha commentato chiaro e tondo che quella è stata un’operazione completamente ideata, gestita e realizzata dalla CIA. Non a caso, infatti, per buon peso, grazie a questa operazione, hanno riacquistato la libertà, tra gli altri, anche tre “funzionari” dell’intelligence degli Stati uniti catturati [mi pare dopo un incidente aviatorio] qualche anno fa dalle FARC.
Dalla Svizzera, dove di transiti di denaro sanno molto, si è saputo che tutto è andato a buon fine perché sarebbero stati pagati 20 milioni di dollari [o di euro?] di riscatto proprio alle FARC o a quella parte di questa struttura attualmente allo sbando dopo la morte del portavoce Raul Reyes nel bombardamento da parte dei reparti speciali dell’esercito colombiano dell’accampamento dei guerriglieri riparati in territorio ecuadoriano e dopo la morte per infarto del capo storico Manuel Marulanda Vélez [noto come Tirofijo].
L’operazione però, malgrado la sua plateale ambiguità, è stata descritta dai media occidentali come un successo del “democratico” Uribe, senza insistere mai sull’interrogativo di chi abbia pagato il riscatto e in base a quali accordi. Si è raccontata la crudeltà insensata e inutile delle FARC ma si è dimenticato, nella maggior parte degli articoli e dei servizi televisivi, che in Colombia è attivo il terrorismo di stato che, per esempio, quasi due anni fa ha portato alla strage di contadini della Comunità di pace di San José de Apartadó, compiuta da unità dell’esercito e per la quale ancora non è stato perseguito nessuno. I 14 capi paramilitari che Uribe, per non perdere il favore di Washington ha consegnato a maggio alla giustizia degli Stati uniti, saranno giudicati solo per reati di narcotraffico e non per le migliaia di assassinii ordinati e eseguiti. Forse proprio da loro presto o tardi si saprà la verità sullo spericolato percorso intrapreso da Uribe fin da quando era governatore della provincia di Antioquia. Ma certo, presentarlo come un vincitore è stata proprio un’infamia da parte della nostra più qualificata informazione.
Chi ha deciso di tacere, invece, è stata Ingrid Betancourt. Chi per ben sette anni ha patito sofferenze fisiche e morali difficilmente immaginabili ha il diritto di farlo e anche di parlare dicendo solo ovvietà. Penso che nessuno, anche nel mondo progressista o della sinistra, sia così indiscutibile da sentirsi autorizzato a giudicarla. Certo, Ingrid ha preso tempo Non si presenterà alle elezioni e quindi, se ancora sentirà passione per la politica del suo paese, parlerà, semmai, in futuro, dopo l’uscita di scena di Uribe, che sta cambiando la costituzione della Colombia per garantirsi il terzo mandato presidenziale consecutivo. Anche chi vede in questo appartarsi della Betancourt una resa, deve avere l’onestà intellettuale di ammettere che non era Ingrid la persona attrezzata adesso per bloccare l’ennesima trama di Uribe con gli Stati uniti nell’ambito del famigerato Plan Colombia. Un progetto che la pur disinvolta Comunità europea rifiutò, definendolo non un piano di rilancio di un paese ma, testualmente “un piano militare”.

GLI URAGANI, LA AGUERO E LA SOLITA IPOCRISIA DELL’INFORMAZIONE
Tutti gli spunti accennati in questo editoriale trovano riscontro e approfondimento in questo numero 104 di Latinoamerica, che vorrei chiosare sottolineando due ennesime scorrettezze verso Cuba che, evidentemente, sono il prezzo che molti giornalisti pagano per esistere.
La prima riguarda i missili della Russia di Putin che la perversa Revolución, dimentica della lezione della storia, avrebbe deciso di ospitare nuovamente sul proprio territorio. Lo afferma Omero Ciai su la Repubblica, nel patetico tentativo di distogliere l’attenzione dai meriti di un governo capace, nel mese di settembre, al contrario degli altri paesi caraibici e degli stessi Stati uniti, di ridurre al minimo, grazie a una Protezione civile efficiente e lodata dall’Onu, i danni degli uragani Gustav e Ike. Un milione di persone evacuate in 24 ore e solo 4 morti, anche se la furia degli elementi ha distrutto più di 300mila abitazioni. A commentare questo scenario Ciai ha chiamato Carlos Franqui, sedicente esperto di Cuba che manca dall’isola da oltre 40 anni e che, miseramente tacendo quello che è davanti agli occhi di tutti, sostiene che Cuba rischia “l’haitizzazione”. Sono 50 anni che leggiamo queste “minchiate” profetiche, mai azzeccate, neanche una volta.
L’altra scorretezza riguarda il modo di raccontare la vicenda di Tai Aguero, la pallavolista che, dopo aver vinto due Olimpiadi con la nazionale cubana, lasciò sette anni fa, ben conscia delle conseguenze del suo gesto, il ritiro della sua squadra in Svizzera per un sontuoso contatto professionistico che l’aspettava in Italia. Vorrei sapere perché le nazioni ricche hanno il diritto di saccheggiare un movimento sportivo capace di valorizzare le qualità di un popolo [come non sanno fare, per esempio, in Brasile o in Messico] fino a vincere, malgrado la ristrettezza dei mezzi, Mondiali e Olimpiadi in tante discipline, senza che il lavoro di formazione e di tutela svolto sia rispettato, né moralmente né economicamente. Perché reputiamo giusto che i nostri club si svenino per un calciatore brasiliano o argentino, mentre pensiamo che un atleta cubano [nella pallavolo, nell’atletica, nella boxe, nel baseball, etc] si può “rubare” impunemente e addirittura utilizzare per far vincere trofei alle nostre nazionali, altrimenti sconfitte? Perché un paese come Cuba non ha il diritto di fissare delle regole, ben note ad atleti come la Aguero, per difendersi da questo esproprio?