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martedì 11 agosto 2009

Caldo, disperazione e sporcizia viaggio nel Centro dei clandestini

LA STORIA/ Tra gli immigrati del Cie di Roma. L'allarme del garante: "Vicini al collasso"
Le testimonianze degli extracomunitari: "Per sei anni ho lavorato in nero. E ora..."


ROMA - "Vede queste lenzuola? Le vede? Sono di carta. Non le cambiano da venti giorni. E li vede i materassi in terra? Non ci sono reti, noi dormiamo qui. Stiamo così, buttate in terra, senza niente da fare, in mezzo ai rifiuti".


"Quelli del Centro fanno sempre visitare la prima "stanza" che ha l'aria condizionata e la tv al plasma, ma le altre: guardi. Mi segua, mi segua. Guardi come sono". Visita al Cie - il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, a Roma - con il senatore del Pd Vincenzo Vita, nella canicola agostana che anche qui, in un'isola di cemento in mezzo al nulla della Fiera di Roma di questi tempi deserta, batte implacabile. Le "detenute" prendono per mano, portano nelle altre "celle" di un centro che dovrebbe essere temporaneo, che era stato immaginato come un luogo di transito per un soggiorno di qualche giorno al massimo e che sta diventando sempre più simile a una galera. Con i tempi della galera. Ed è il luogo in cui, all'indomani dell'entrata in vigore della legge Maroni che tramuta in reato la clandestinità, i clandestini appunto finiranno in attesa di essere identificati ed espulsi.

Dodici militari dell'Esercito, due della Finanza, 5 carabinieri e 5 poliziotti, più "I Croci", come "gli ospiti" chiamano i volontari e non della Croce Rossa, alcuni inservienti di una ditta esterna che fanno le pulizie e gli addetti del catering: ecco tutto il personale che si occupa di questo centro che pompa dalle casse dello Stato - dicono alla Croce Rossa - cinque milioni di euro l'anno. E che è destinato ad esplodere anche se, come spiega il direttore Ermanno Baldelli, "noi abbiamo 176 posti letto per le donne, 176 posti letto per gli uomini, un'ala di 12 posti letto riservata ai transessuali. Più di questi non possiamo accogliere. Oggi ci sono 129 uomini e 112 donne per un totale di 241 persone".

Sui numeri c'è un piccolo giallo. Il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni l'altro ieri aveva fatto sapere "il Cie di Ponte Galeria è al limite del collasso: negli ultimi venti giorni, dopo l'annuncio dell'inasprimento delle norme in tema di immigrazione, vi sono state trasferite altre 80 persone, che sono passate da 246 a 319. Alcuni immigrati fermati dalle forze dell'ordine sono stati addirittura trasferiti, per mancanza di posti, direttamente in carcere". Marroni aveva parlato poi di "situazione esplosiva dovuta al caldo, ai lunghi tempi di attesa per ottenere i colloqui con le ambasciate di origine, alla scarsità di operatori assenti per ferie e al sovraffollamento".

Che la situazione sia esplosiva lo si è visto l'8 agosto - il giorno di entrata in vigore della legge sulla sicurezza - al Cie di Gradisca d'Isonzo (Gorizia): in serata era scoppiata una protesta contro il sovraffollamento, l'introduzione del reato di clandestinità e l'allungamento sino a 180 giorni della permanenza nei Cie. 120 immigrati erano saliti sui tetti, dove erano rimasti fino al giorno dopo, quando avevano poi danneggiato l'impianto elettrico, divelto porte di sicurezza ed estintori, infranto vetri antisfondamento e distrutto distributori automatici di bevande. E ieri la segreteria provinciale del Sap (Sindacato autonomo di Polizia) di Gorizia ha dichiarato che al Cie "più di qualcosa non funziona. È oggi necessario che gli immigrati vengano sottoposti a normali e elementari restrizioni delle libertà personali per impedire eventi di questo tipo. È finito il tempo del trattenimento in libertà".

La vita al centro si svolge tra tre appuntamenti: alle 8 per la colazione, alle 12 per il pranzo, alle 18 per la cena. In mezzo, il nulla di cemento e sbarre di ferro. Le donne stanno sedute sui materassi buttati all'aperto, le nigeriane si pettinano i capelli lasciando in terra matasse nere, le clandestine dell'est fanno gruppo da una parte, si lamentano di non ricevere carta igienica, mentre le moltissime rom raccontano storie tristi. "Io sono nata qui" dice Susanna. "La mia famiglia viene dalla ex Jugoslavia. Ma io sono nata qui. Ho due figli e un marito. Ma non ho documenti. Così adesso sono qua dentro. Dove mi manderanno? Perché non posso avere una nazionalità?".

Nel reparto uomini è pieno di amache. Stanno allungate tra una sbarra e l'altra. Appena vedono gente estranea, al di là delle sbarre, si bloccano, guardano in cagnesco. C'è un'aria tesa, elettrica. Poi si mettono in fila per il pranzo: ci sono pochi volontari, non si può mangiare a mensa, ognuno prende il suo contenitore, torna alla sua cella, al suo villaggetto di cemento per mangiare. Anche qui storie strappalacrime, come quella di Mohammed, un egiziano di 30 anni, occhi scuri, barba lunga, una tuta sdrucita addosso: "Io da quando sono in Italia lavoro, ho sempre lavorato: e sono ormai sei anni. Ma nessuno mi vuole mettere in regola. Mi hanno preso in ospedale, dove ero andato per un'operazione all'orecchio, e così com'ero mi hanno trasferito al Centro: guardi, non mi posso neanche fare la barba. Non mi posso cambiare. Non ho soldi, non ho niente. È umiliante".

di RORY CAPPELLI da LaRepubblica

Lettera di un ergastolano al presidente Napolitano

Caino vuole morire

Nel Corriere della Sera di giovedì 30 luglio leggo:
“Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto inviare un suo messaggio a “"Nessuno tocchi Caino"” in cui si esprime apprezzamento per l'opera dell’Associazione, che continua con tenacia ad adoperarsi per l'abolizione della pena di morte””.
La notizia mi addolora e mi sconforta, forse il nostro Presidente della Repubblica non ricorda, non può o non vuole ricordare l'appello di 310 ergastolani che nell'anno 2007 gli hanno richiesto la pena di morte in sostituzione dell'ergastolo (vedasi la lista dei nominativi nel libro “”Mai dire mai- Il Risveglio dei dannati!” Edizioni Liberarsi).

Signor Presidente, Le voglio ricordare che molti degli ergastolani di quella lista la vita se la sono già tolta da soli;

§ che un migliaio di ergastolani, sostenuti da parenti, amici e associazioni di volontariato, hanno partecipato a due scioperi della fame, quello del primo dicembre 2007 ad oltranza e quello del primo dicembre 2008 a staffetta per l'abolizione dell’ergastolo;

§ che nella Francia rivoluzionaria l’orrore per questo tipo di pena fu tale che l’Assemblea Costituente mantenne la pena capitale ma vietò le pene perpetue; fu così che nel codice penale del 28 settembre 1791 la pena più grave dopo la morte fu la pena di 24 anni;

§ che un suo collega del vecchio partito comunista, Pietro Ingrao, ex Presidente della Camera dei deputati, dichiarò:”Io sono contro l’ergastolo prima di tutto perché non riesco a immaginarlo”.

Signor Presidente, Le voglio ricordare:

-che l’ergastolo ostativo ai benefici non è meglio, né peggio della pena di morte, è la stessa cosa;

-che gli anni che passa un ergastolano non sono anni di vita, sono anni di morte;

-che l’ergastolo uccide più della pena di morte, lasciandoti in vita il corpo, ma ammazzandoti l’anima;

-che l'ergastolano in vita ha tutto da perdere, mentre con la morte ha tutto da guadagnare, perché non si può apprezzare la vita se si è morti.

Signore Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, sono un uomo ombra, condannato all’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio: non potrò uscire né ora né mai.

Sono in carcere da circa 20 anni: non ho visto crescere i miei figli, ora non sto vedendo crescere i miei nipotini; mi creda, non cerco la morte, ma non la rifiuterei.

Non faccia i complimenti a chi si adopera per l'abolizione della pena di morte,…li faccia a quei paesi come la Cina e l'Iran, ecc. che ammazzano una persona una volta sola e non tutti i giorni e tutte le notti come in Italia.

Signor Presidente, lo Stato, qualsiasi Stato, potrebbe ammazzare i suoi cittadini, ma non dovrebbe mai punirli per sempre senza speranza.

L’ergastolo ci ammazza giorno dopo giorno, notte dopo notte.

Per favore non ci salvi, se Caino vuole morire, lo lasci morire, faccia ripristinare la pena di morte in Italia, perché l'unica pena che può fare uscire gli ergastolani con l’ergastolo ostativo è la pena di morte.

Carmelo Musumeci

Carcere di Spoleto, Agosto 2009

da Indymedia

Perchè l'auto blu e la scorta a Bruno Vespa?


Circa trent’anni fa in Italia vennero istituite le scorte per difendere i politici e le persone che si trovavano nel mirino dei terroristi. Anche se non sono servite mai a nulla, esse venivano assegnate ai personaggi più esposti.
Dimostrazione di quanto ho appena affermato è che quando i terroristi o i mafiosi decidevano di colpire lo facevano lo stesso e, a rimetterci la vita, non era solo il politico o il magistrato di turno ma anche la loro scorta.
L’on. Aldo Moro e il giudice Giovanni Falcone ne sono un esempio lampante.

Nonostante tutto, gli uomini di scorta e le auto blu sono aumentate e, attualmente, assegnate in modo sconsiderato.
Oggi sono solo simbolo di potere o di conoscenze altolocate.
Mi domando: “Con quale criterio e con quale giustificazione è stata assegnata l’auto blu, con relativo personale, al giornalista di Porta a Porta, Bruno Vespa?”
Non mi risulta sia un politico, né un magistrato o che abbia importanti incarichi istituzionali. Forse a dargli questo diritto è la sua faziosa trasmissione televisiva da voltastomaco o per il servilismo che mostra nei confronti del premier Silvio Berlusconi che serve come un prete sull’altare?

Questi servizi hanno un costo elevatissimo e comportano un enorme dispendio di risorse umane.
In questi tempi di congiuntura non sarebbe più giusto risparmiare e utilizzare meglio questo personale?
Si parla tanto di sicurezza nelle città.
Perché non utilizzare proficuamente questi uomini che potrebbero assicurare un servizio qualificato di prevenzione al posto delle ronde o degli uomini dell’Esercito?

Solo ai Capi di Stato è previsto un servizio di scorta, ma badate bene si tratta di scorta d’onore.
Non vedo, quindi, nessuna ragione di assegnare scorte a destra e a manca come se fossero noccioline.
Sono stufo, come molti altri italiani, di vedere la concessione di questo privilegio a chiunque e di vedere continuamente sfrecciare a forte velocità e, a sirene spiegate, autovetture che hanno appiccicato sul tetto un lampeggiante blu ed un uomo della scorta che esponendo la paletta cerca faticosamente di creare un varco nel traffico cittadino.

È tempo di finirla con i soprusi e con queste spese pazze.
In quale parte del mondo, fatta eccezione dei paesi che hanno un regime dittatoriale, si vedono politici accerchiati da un nutrito numero di uomini di scorta?
I nostri, per caso, hanno paura di essere affrontati e mandati all’ospedale per curarsi qualche trauma cranico o qualche costola rotta?
Se il nostro premier ha bisogno della scorta non ha altro da fare che pagarsela, tanto i soldi per le sue “escort” non gli mancheranno di sicuro.

da Indymedia

IL RICORDO/Pantaleo Ingusci, avvocato e storico, antifascista - Don Lelè, un uomo libero


Il padre era titolare di una rivendita di monopolio con annessa cartoleria, drogheria e agenzia di giornali; la madre discendente
dell’agronomo ed economista del ‘700 Presta: entrambi avevano costituito un ambiente democratico e liberale che era divenuto punto di riferimento di repubblicani (il sarto Teodoro Falconieri), anarchici protestanti (il filosofo Luigi Spedicato), socialisti (Gregorio Primativo, muratore).
Altri antenati, in famiglia, erano stati mazziniani, massoni repubblicani. In questa atmosfera nacque e trascorse i primi anni Pantaleo Ingusci, formicone di Puglia, come lo defininì Tommaso Fiore, antifascista e uomo libero da ogni servitù.
Durante gli studi classici compiuti a Lecce, fu discepolo di Vito Domenico Palumbo, spirito laico ed aperto. Ma la vera svolta Ingusci la operò quando incontrò come compagno di classe Oronzo
Reale. Con gli altri due fratelli Reale, Egidio e Attilio, ancora ragazzo, partecipò alle manifestazioni interventiste.
Nel primo dopoguerra fondò a Lecce il Partito repubblicano: la sede, un piccolo caffè vicino a Porta Rudiae. Iniziano, in questo periodo, le pubblicazioni di “I giugno”, numero unico.
Poco più tardi uscirà “Il dovere”, settimanale che, quando il direttore Oronzo Reale si trasferì a Roma, passò nelle mani di Ingusci.
Fu un giornale battagliero e, per i tempi, anticonformista.
Venne pubblicato su quel settimanale uno sferzante giudizio sul sorgente movimento fascista: “I fascisti”, scrisse Ingusci, “si
battono solo per tutelare particolari interessi non per affermare delle idee”.
Per il regime era troppo: la notte del 10 novembre del 1926 Pantaleo Ingusci fu arrestato per “complotto contro la sicurezza dello Stato”.
Il carcere durerà quasi due anni, ma il rifiuto del fascismo da parte di Ingusci durerà fino al ‘43: 17 anni di distacco dalla realtà che porterà ancora Tommaso Fiore a definirlo “un emarginato”.
Poco prima dell’arresto, Pantaleo Ingusci aveva iniziato, appena laureato in legge, a collaborare con “La voce repubblicana” e con “Il Mondo” di Giovanni Amendola.
I primi tre mesi di reclusione trascorsero nel carcere leccese di San Francesco. Poi venne deferito al tribunale speciale, accusa: eccitamento all’odio di classe ed alla guerra civile.
Nella cella 46 del terzo braccio il pavimento trasudava acqua: la salute dell’illustre neretino ne risentì per tutto il resto della vita.
Il 25 agosto dell’anno dopo l’arresto un telegramma del suo avvocato D’Angelantonio, lo avvisò che il tribunale speciale aveva trasmesso tutta la pratica all’organo di Bari.
Dopo due anni da quel 10 novembre arrivò l’assoluzione.
Ma con una grossa limitazione: fu infatti bloccata l’attività professionale di Ingusci il cui discreto patrimonio era già andato perdendosi durante la reclusione.
Tirerà avanti con gli aiuti dei modesti introiti delle lezioni private.
Gran parte della giovinezza passò così, discretamente coltivando pochi ma profondi rapporti con altri antifascisti pugliesi.
Di Lecce e dei rapporti della città col regime fascista Ingusci dirà: “Lecce non fu mai fascista, neppure quando il fascismo trionfò. Intorno agli inizi del ‘22, correva questa barzelletta: “Quando Starace viene a Lecce, Lecce città d’arte, se ne frega quando arriva e quando parte”.
Già prima della prigione, Ingusci aveva cominciato a pubblicare sue opere: “La monarchia” è del ‘24; “Illusioni e delusione della democrazia” dell’anno dopo, con “Ordinamenti statali in Europa e in America”.
Dopo il lungo silenzio esteriore, compare “Influenze mazziniane nel diritto pubblico italiano”.
E’ del 1961 “Repubblica mazziniana”, oltre ad una nutrita serie di biografie: Carlo Pisacane (‘63), N. Colajanni (‘65), Ricordo di Carlo Mauro (‘70).
Infine un “Compendio di storia della città di Nardo” del ‘65, ristampata col nome di “Nardo’ tra storia ed arte”.
Postumo sarà pubblicato “L’ora di Nardò”, romanzo storico.
Pantaleo Ingusci fu uno dei principali protagonisti della battaglia per la salvaguardia di Portoselvaggio sostenendo con l’autorevolezza della sua voce le ragioni dell’istituzione di un Parco Naturale in quell’area.
E’ morto nel 1981 all’età di 78 anni.

Verona vieta i matrimoni dei migranti

Verona fa da apripista al pacchetto-sicurezza varato dal governo, primo artefice il ministro leghista Roberto Maroni.
I primi ad andarci di mezzo sono stati gli automobilisti troppo veloci, che hanno beccato la multa maggiorata pochi minuti dopo la mezzanotte tra venerdì e sabato scorsi. A seguire quattro coppie di sposi, di nazionalità ghanese e nigeriana, che dovevano convolare a nozze nella giornata di sabato. Una funzionaria dell’ufficio anagrafe li ha avvisati dell’entrata in vigore della legge, che prevede, con il reato di clandestinità, anche il divieto di contrarre matrimonio con persone sprovviste dei titoli di soggiorno. Uguale sorte per una coppia, su quattro, che aveva fissato la cerimonia civile per giovedì prossimo, mentre il giorno di ferragosto saranno quattro su dieci i matrimoni “saltati” in virtù del nuovo provvedimento. Non fa una piega il sindaco Flavio Tosi, leghista doc ed amico personale del ministro: “Non c’è alcuna lesione – ha dichiarato – dei diritti e delle libertà fondamentali. E’ chiaro che un ufficiale di stato civile non può sposare persone non regolari sul territorio, sarebbe una contraddizione con la legge vigente. L’Italia era l’unico Paese occidentale dove i clandestini potevano sposarsi”. Sarà ma c’è chi ha già annunciato battaglia. L’Asgi (associazione studi giuridici immigrazione) ed altri gruppi che si occupano dei diritti dei migranti stanno valutando la possibilità di sollevare la questione della legittimità costituzionale dei nuovi provvedimenti legislativi: “Vogliamo capire – dice l’avvocato Marco Paggi – se il pacchetto-sicurezza, con la norma che vieta il matrimonio con persone irregolari, viola la tutela assicurata dalla nostra Costituzione alla famiglia in ogni sua manifestazione, senza distinzioni tra cittadini e non cittadini”.
E, se Verona sembra per ora l’unica città in cui l’amministrazione comunale ha applicato rigorosamente (e velocemente) la nuova legge sui matrimoni, altre seguiranno. E il numero degli “invisibili”, invece di diminuire, crescerà.

di Paola Bonatelli da Il Manifesto

Berlusconi come metafora dell’Italia: gli sberleffi di Vanity Fair

Cantante da crociera, sbruffone, produttore lascivo, una barzelletta nazionale. Sono solo alcune delle definizioni che Michael Wolff ha usato per descrivere Silvio Berlusconi in un articolo apparso nell’edizione statunitense di Vanity Fair.

Il mensile - che vende più di un milione di copie - proprio non si spiega il segreto del successo del premier italiano, “impantanato in scandali sessuali, in fase di divorzio, tallonato dagli investigatori”. Eppure sempre più popolare.

Wolff ripercorre la carriera del Cavaliere dagli spettacolini sulle navi al G8 dell’Aquila, passando per il successo delle tv commerciali. E si convince che “gli italiani non cercano di fuggire gli stereotipi che li riguardano, anzi li perseguono. Berlusconi è la loro metafora”. Sembra insomma condividere le parole di un giornalista che lavora per Berlusconi: “Gli italiani vogliono uno come lui perché è proprio come loro. Tutti hanno un’amante. Tutti evadono le tasse. Tutti fannno qualcosa d’illegale. E poi, amiamo gli uomini autoritari. Abbiamo bisogno dell’uomo forte. Se non Mussolini, qualcuno come lui”.

da Internazionale

L’Italia commemora Marcinelle e caccia gli immigrati

“Se c’è una data che ricorda che l’Italia è stato un paese di emigrazione è quella dell’8 agosto, ricorda El País. “L’8 agosto del 1956, in una miniera di Marcinelle, in Belgio, morivano 262 lavoratori, tra cui 136 italiani. E l’8 agosto del 2009 in Italia è entrata in vigore una legge che stabilisce il delitto di immigrazione clandestina”.

E se durante le commemorazioni il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha sottolineato il dovere di rispettare comunque chi emigra per lavoro, la Lega Nord ha fatto sentire ad alta voce la sua posizione del tutto opposta. “Gli emigrati italiani lavoravano, non uccidevano”. Secondo Público, il discorso della Lega, partner di governo di Silvio Berlusconi, è xenofobo e non ricorda le migliaia di italiani che negli anni cinquanta e sessanta si traferirono irregolarmente in Francia o Germania. Nonostante la sua storia, “l’Italia ha immediatamente cominciato a fermare gli stranieri irregolari. Nel primo giorno dell’entrata in vigore della legge, la polizia ha arrestato otto persone, la maggior parte marocchini, che saranno immediatamente processati ed espulsi”.

da Internazionale

Latorre promuove Vendola "Con lui per la Regione 2010"


«Ripartiamo da Vendola»: il Pd si ricompatta attorno al governatore pugliese. Nel giorno di San Lorenzo i leader regionali dei democratici hanno alzato la voce perché a cadere, sotto il peso delle polemiche, non sia proprio la stella di Sinistra e libertà.
Nichi Vendola sta vivendo le vacanze più tribolate da quando è presidente della Regione. Con l´Italia dei valori in piazza per difendere il pm Desireè Digeronimo e i continui attacchi del centrodestra, il numero due del Pd al Senato, Nicola Latorre, ha scelto la giornata di ieri per confermare il governatore pugliese alla guida del centrosinistra.

«La coalizione parte da Vendola - ha sottolineato il luogotenente dalemiano - il presidente ha governato bene in questi anni ed è un patrimonio dal quale non si può non partire». Messaggio decisamente più caloroso di quello che, non più di un mese fa, Massimo D´Alema aveva consegnato al leader di Sinistra e libertà. Vendola cercava la riconferma per le regionale del 2010 ma l´ex presidente del consiglio non gli aveva dato grosse speranze in merito. «Tra di loro non c´è alcun contrasto - ha chiarito ieri Latorre - il nostro contrasto più´ duro è con la destra, che ormai non avendo argomenti politici per riconquistare il consenso sta vestendo i panni del giustizialismo: la più´ clamorosa confessione di incapacità di proporsi come alternativa di governo al centrosinistra in Puglia».

Ancore più esplicito è stato l´assessore Guglielmo Minervini, candidato alla segreteria regionale del Pd per l´area Franceschini: «Dobbiamo partire dalla consapevolezza che dopo Vendola c´è solo Vendola - ha detto - prima lo facciamo e prima sgombriamo il campo da ogni possibile tentazione di sciacallaggio politico».

Per l´assessore alla Trasparenza la riconferma di Vendola per le regionali del 2010 non è sindacabile: «Il Pd può affermare con orgoglio che il valore di un´esperienza di governo è di gran lunga più forte dello spaccato che un´indagine giudiziaria può offrire, benché clamore mediatico tende a farla apparire già come un insopportabile sentenza». Sulla stessa lunghezza d´onda è il suo sfidante alla segreteria regionale. Il sindaco di Melpignano, Sergio Blasi: «Nichi Vendola è il nostro punto fermo. Noi dobbiamo ricompattarci attorno a lui e dobbiamo superare questo fango raccontando quanto di buono abbiamo saputo fare in questi anni».

Ma il centrodestra ieri è tornato alla carica, alzando il tiro anche contro il sindaco di Bari: «Il Csm farebbe bene anche a domandarsi quale ruolo abbia avuto Michele Emiliano, un magistrato ancora in carica, nella lettera indirizzata da Vendola alla Digeronimo», hanno scritto i consiglieri regionali del Pdl, Roberto Ruocco e Tommy Attanasio.

Cecenia, sequestrati e uccisi due attivisti di una ong russa

GROZNY - A meno di un mese dal rapimento e
dall'uccisione di Natalia Estemirova, giornalista e collaboratrice della ong russa Memorial, in Cecenia con una dinamica tragicamente analoga sono stati eliminati altri due militanti di una organizzazione giovanile. I corpi di Zarema Sadulaieva, responsabile della ong "Salviamo la generazione", e di suo marito sono stati trovati stamane nel bagagliaio della loro auto alla periferia di Grozny.
La notizia del'uccisione dei due attivisti, diffusa sulla radio Eco di Mosca da Aleksandr Cerkasov, del direttivo di Memorial, è stata poco dopo confermata dal ministero dell'Interno ceceno. "I corpi dei due attivisti sono stati trovati nel bagagliaio della loro macchina presso un sanatorio nel villaggio di Cernorece con ferite di arma da fuoco", ha detto il rappresentante del ministero dell'interno citato da Interfax.

Zarema Sadulaieva e il marito Alik Dzhabrailov, entrambi di 33 anni, erano stati prelevati ieri pomeriggio nell'ufficio della loro organizzazione a Grozny da sconosciuti armati, alcuni in borghese altri in divisa nera. Dopo averi portati via, alcuni di loro erano tornati per prendere il telefonino e l'auto del marito di Sadulaieva. L'auto nella quale sono stati trovati oggi privi di vita.

Il 15 luglio scorso, Natalia Estemirova - della ong Memorial - era stata eliminata in modo pressochè analogo: sequestrata da sconosciuti a Grozny, era stata trovata morta poche ore dopo nella vicina Inguscezia. Memorial aveva accusato apertamente il presidente ceceno Ramzan Kadyrov di essere all'origine dell'uccisione.

Birmania, condannata Aung San Suu Kyi Altri 18 mesi ai domiciliari per il premio Nobel

RANGOON - Nuova condanna per Aung San Suu Kyi, la leader dell'opposizione birmana: tre anni di lavori forzati per violazione delle norme sulla sicurezza, commutati dalla giunta militare in 18 mesi agli arresti domiciliari. Il premio Nobel per la pace è già stata riportata nella sua residenza di Rangoon. Più pesante il verdetto a carico del coimputato, il 54enne statunitense John Yettaw: sette anni di lavori forzati, tre per violazione delle leggi sulla sicurezza, altrettanti per immigrazione illegale nel Paese asiatico e uno per violazione delle norme municipali sull'attività natatoria. Fu infatti a nuoto che lo scorso maggio l'americano raggiunse la casa in cui Suu Kyi era confinata, una modesta villetta in riva a un lago artificiale, alla periferia di Rangoon.

Il premio Nobel lo ospitò per due notti, secondo il regime in tal modo infrangendo i termini sulla base dei quali le erano stati concessi gli arresti domiciliari, condizione nella quale la 63enne leader della Lega nazionale per la democrazia ha trascorso la maggior parte degli ultimi diciotto anni.

Suu Kyi e Yettaw furono entrambi arrestati. Da allora l'americano, che soffre di diabete, è stato più volte ricoverato in ospedale, l'ultima una settimana fa, in preda a convulsioni di tipo epilettico; ieri comunque è stato dimesso e tradotto nuovamente in carcere.

Il verdetto di colpevolezza per la leader dell'opposizione birmana era ampiamente atteso. Il caso infatti, secondo quasi tutti gli osservatori internazionali, è stato montato ad arte dalla giunta militare per tenere Suy Kyi lontana dalla politica in vista anche delle elezioni previste per il prossimo anno. Gli avvocati della donna hanno 60 giorni di tempo per presentare ricorso.