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lunedì 24 agosto 2009

Mappa delle elezioni regionali 2010

Domenica 28 marzo e lunedì 29. Anno 2010. Sarà questa, salvo colpi di scena, la data delle elezioni regionali, passaggio fondamentale per tutti i partiti. Di maggioranza e di opposizione. All'interno del Centrodestra si sa già che nella divisione delle poltrone al Carroccio andrà una Regione (quasi certamente il Veneto), alla parte del Pdl che fa capo a Forza Italia gli altri Governatori del Nord, ad Alleanza Nazionale un paio di Regioni al Sud e con buona probabilità, se Casini deciderà di cedere alle lusinghe degli uomini del Cavaliere, all'Udc spetterà il candidato per la presidenza della Puglia. Ma restano ancora aperte alcune scelte dei candidati e da chiarire qualche rapporto di forza tra gli ex di An e di Forza Italia. Uno dei punti fermi è che Roberto Formigoni non lascerà il Pirellone. Alla Lega quella poltrona piace molto, moltissimo (vedi l'intervista a Roberto Castelli, box a lato) ma il premier non è disposto a barattarla con nulla e nessuno. Il Partito Democratico è in alto mare per il Pirellone. C'è l'ipotesi Tabacci in caso di accordo con l'Udc oppure Martina o Penati. Più aperta, invece, la partita sulla presidenza del Piemonte. Anche perché la Regione governata da Mercedes Bresso (che verrà ricandidata dal Pd essendo sostenuta sia da Franceschini sia da Bersani) è un terreno tutto da conquistare per il Pdl. Per questo Berlusconi potrebbe anche decidere di lasciarla al Carroccio che avrebbe già pronto il suo candidato, Roberto Cota, capogruppo alla Camera.

In alternativa ci sarebbe l'azzurro Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa e amico della famiglia Agnelli. Ma la corsa per il Piemonte è legata a doppio filo a quella per il Veneto. Perché Bossi non vuole accettare come unica scelta una Regione dove la maggioranza rischia di perdere. Perciò è disposto a dire sì a patto che ci sia anche il via libera per il Veneto. Dove i candidati per sostituire Giancarlo Galan sono due, il ministro dell'Agricoltura Luca Zaia e il sindaco di Verona, Flavio Tosi.
Ma potrebbe spuntare anche un terzo nome, magari quello della veronese, sottosegretario alla Salute, Francesca Martini. E Galan? Quale ruolo affidargli? Qualcuno parla di un riconoscimento a presidente dell'Enel. Sempre che non decida di candidarsi lo stesso alla Regione con una propria lista civica. Per il Pd si fa il nome di Massimo Calearo, sostenuto dall'attuale segretario ma non dai dalemiani. A Forza Italia spetterà invece la scelta del candidato per la Liguria da contrapporre a Claudio Burlando (riconfermato). Sarà il ministro Claudio Scajola a guidare le operazioni per trovare il nome giusto, confidando magari in un appoggio dell'Udc. Ma il partito di Pier Ferdinando Casini potrebbe rivelarsi decisivo soprattutto per le sfide al Sud, in particolare nel Lazio e in Puglia.

In quest'ultima Regione il pressing sui centristi è fortissimo. E le dichiarazioni dell'Udc contro Nichi Vendola sembrerebbero far capire che l'alleanza con il Centrosinistra sia stata ormai scartata. Anche se i dalemiani (Nicola Latorre in testa) continuano a lavorare ai fianchi i post-democristiani, forti del 9,1% alle Europee. A Casini andrebbe la candidatura per la presidenza della Regione, una poltrona per la quale sarebbe già pronta Adriana Poli Bortone. Più complicato, invece, il discorso per il Lazio. Dei nomi che sono circolati, quelli dell'imprenditrice Luisa Todini o, in subordine, della leader dell'Ugl Renata Polverini, Alleanza Nazionale non vuole neppure sentir parlare.

Gli uomini di An fanno un ragionamento molto semplice: se Forza Italia ha già scelto anche il candidato per la Campania (il presidente degli industriali napoletani Gianni Lettieri) deve lasciare a noi la scelta per il Lazio, visto che Luisa Todini è considerata esponente di FI e Renata Polverini non è comunque una scelta di Via della Scrofa. In campo tornano dunque i nomi che circolano da un po': il senatore di An Andrea Augello, che è già stato assessore al bilancio nella Giunta Storace e il deputato Fabio Rampelli. Ma anche nel Lazio sarà decisivo l'appoggio dell'Udc. Se Pier Ferdinando Casini si schiererà con il Centrodestra la sfida con il Pd potrebbe essere in discesa, altrimenti la partita potrebbe rivelarsi più complicata del previsto.

Se il no di Alleanza Nazionale sarà rispettato, Luisa Todini potrebbe essere dirottata sulla candidatura per strappare l'Umbria a Maria Rita Lorenzetti. Infine resta la Calabria. Nel risiko delle candidature la scelta va ad An, che avrebbe già pronto il suo candidato, il sindaco di Reggio Giuseppe Scoppelliti. Anche in questo caso aspettando il benefico appoggio dell'Udc. Caos a sinistra sia nel Lazio sia (soprattutto) in Campania. A Roma Franceschini vorrebbe la riconferma di Marrazzo, ma l'altra metà del partito non ci sta. A Napoli è ancora peggio...

IL ROCK..................QUELLO VERO PERO'


Salve ragazzi...questa mia è indirizzata a tutti gli appassionati sostenitori di Luciano Ligabue che ho avuto modo di conoscere negli ultimi anni....miei cari...non me ne vogliate..ma credo che col tempo stiate sempre più sopravvalutando il suddetto cantante...sarà che finora la mia esperienza da ascoltatore non è mai stata costellata da fissazioni estreme, ma credo che oramai il vostro (parlo di voi, pubblico italiano) sia diventato fanatismo bello e buono...sarà che il panorama musicale non offra niente di meglio, sarà che ormai la vostra è quasi una moda, ma non potete riporre tutti i vostri sogni, le vostre emozioni in quest’ uomo assurgendolo al ruolo di vostro mentore...non potete identificare le vostre vite nella musica "esclusivamente" attraverso le sue parole...ve lo dice uno che Ligabue lo ha ascoltato e anche tanto, l'ha visto e rivisto, soprattutto l'ha capito e spesse volte lo riprende e lo riascolta con piacere...ma non c'è sol lui....Si dice sia poeta, rocker,...addirittura scrittore e regista...perdonatemi ma...volete la poesia? Ascoltate Dylan(e on parlo solo della gettonatissima Blowin in the wind...ma di tanto altro!!), De Andrè (ma non le 2 o 3 merdate che vi rifilano i maledetti speciali in tv)...volete il rock??? Ascoltate Elvis, Chuck Berry, Beatles (anche su questi una precisazione...non solo quelle quattro filastrocche che trovate nei maledettissimi best of), Rolling Stones, Who, Doors, David Bowie, Lou Reed, Patti Smith, Velvet Underground, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Santana, Led Zeppelin (e questi ascoltateli bene), Deep Purple, Neil Young, Pink Floyd, Clash, King Crimson, Ramones, Iggy Pop, Springsteen....solo per citarne alcuni....Volete leggere un libro..non comprate l'ennesima biografia o il libro di poesie "del Liga".....leggete...leggete!!!qualsiasi altra cosa..che sia Wilde, Joyce, Proust, Gabriel g.Marquez, Hemingway, Pasolini, Bukowski, Hesse, Kerouac....non importa, ma fatelo!!...volete un bel film? Prendetene uno qualunque di Kubrick, di Hitchcock, di Scorsese...ma non il Radiofreccia di turno...che francamente cinema non è.....e questo infinito elenco potrebbe continuare ancora....sta solo a noi la ricerca...detto questo, il punto a cui sto disperatamente cercando d arrivare è cercare d farvi capire..di convincervi..di non accontentarvi mai di quello che vi passano..perché c'è tanta di quella musica, tanta "bella" musica, che non possiamo neanche farcene un'idea...perchè sono convinto che voi come me concepiate la musica come qualcosa di fondamentale e di insostituibile nella nostra vita...come qualcosa di più di un semplice sottofondo..per chi come me intende anche il semplice ascolto come un'attività tutt’ altro che passiva. Anzi...per chi attraverso la musica riesce a provare ogni sorta d'emozione...a voi tutti dico...cercate...sforzatevi d "ANDARE OLTRE"...non ve ne pentirete...grazie x l'attenzione...vi lascio con due versi di Paolo Conte.....

"La vera musica, che sa far ridere

e all’improvviso ti aiuta a piangere…

la grande musica frequenta l’anima .."

di Matteo Corvaglia

Cannabis: non pregiudica le funzioni respiratorie, le migliora

ganja libera!
basta col proibizionismo assassino!


Nuova Zelanda. Studio: il fumo di cannabis non pregiudica le funzioni respiratorie, le migliora

Attenzione: lo studio descritto in questo articolo potrebbe costituire istigazione al consumo secondo una interpretazione italo-iraniana della guerra alla droga basata sul reato d'opinione. Gli autori dello studio, forse anche noi che l'abbiamo pubblicato, e persino chi lo trasmette a colleghi e amici potrebbero essere denunciati dal Dipartimento politiche antidroga guidato dal sottosegretario Carlo Giovanardi.
L'effetto dell'assunzione di cannabis sulla funzionalita' dei polmoni e' molto diverso da quello del tabacco. Questo il risultato di una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica European Respiratory Journal.
I ricercatori dell'Universita' di Otago in Nuova Zelanda hanno paragonato gli effetti della cannabis e del tabacco fumato su oltre mille adulti.
Gli studiosi sono giunti alla conclusione che "l'uso continuato di marijuana e' associato con una maggiore capacita' vitale forzata (il volume di aria che puo' essere espulso forzatamente dopo l'ispirazione), una maggiore capacita' polmonare totale, una maggiore capacita' funzionale residua (il volume di aria presente nei polmoni alla fine di una espirazione passiva), e un maggiore volume residuale. La cannabis e' anche associata con una maggiore resistenza delle vie respiratorie. Questi risultati simili a quelli riscontrati nei non fumatori".
Gli autori della ricerca poi scrivono: "Al contrario, il consumo di tabacco e' associato con una diminuzione nel volume di espirazione forzata in 1 secondo, un minore tasso di espirazione forzata, un piu' basso fattore di trasferimento e un maggiore volume statico polmonare, ma non con una maggiore resistenza delle vie respiratorie".
Concludono gli studiosi: "La cannabis sembra avere effetti diversi dal tabacco sulla funzione polmonare".
Un recente studio dell'Universita' della California a Los Angeles pubblicato sull'American Journal of Respiratory & Critical Care Medicine aveva gia' rivelato che l'uso abituale di marijuana non e' associato ad un declino della funzione polmonare rispetto ai non fumatori.
Nel 2007 anche uno studio della Yale University aveva rivelato che fumare cannabis, anche a lungo termine, non era associato con un deterioramento della funzione polmonare.

da Indymedia

Profughi somali massacrati in un campo di detenzione libico

Episodio di due settimane fa, che si accompagna alla strage di 73 migranti avvenuta nei giorni scorsi nelle acque del Mediterraneo. I responsabilii: Umberto Bossi, Roberto Maroni e tutti coloro che partecipano all'industria dei respingimenti, delle deportazioni e delle reclusioni di immigrati.
Il campo di Ganfuda si trova a una decina di chilometri dalla città di Benghazi, in Libia. Vi sono detenute circa 500 persone, in maggior parte somali, e poi un gruppo di eritrei, e alcuni nigeriani e maliani. Sono tutti stati arrestati nella regione di Ijdabiyah e Benghazi, durante le retate in città oppure durante la traversata del deserto dal sud. Molti sono dietro le sbarre da oltre sei mesi. C’è chi è dentro da un anno. Nessuno di loro è mai stato processato davanti a un giudice. Ci sono persone ammalate di scabbia, dermatiti e malattie respiratorie. Dal carcere si esce soltanto con la corruzione, ma i poliziotti chiedono 1.000 dollari a testa. Le condizioni di detenzione sono pessime. Nelle celle di cinque metri per sei sono rinchiuse fino a 60 persone, tenute a pane e acqua, e quotidianamente sottoposte a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia. La tensione è tale che il gruppo dei detenuti somali decide di tentare l’evasione.
La sera del 9 agosto, 300 detenuti, in maggioranza somali, assaltano il cancello del campo di detenzione, forzando il cordone di polizia, e iniziano a scavalcare. I militari intervengono armati di manganelli e di coltelli. Affrontano i rivoltosi menando alla cieca. Lo scontro è durissimo. Alla fine giacciono a terra in una pozza di sangue 6 morti accoltellati (e non uccisi sotto gli spari, come sembrava in un primo momento) e più di 50 feriti. Un centinaio di somali sono comunque riusciti a fuggire e si sono dati alla fuga in direzione di Tripoli, braccati dalla polizia. Il giorno dopo però mancano all’appello 10 delle persone ferite. Nessuno sa se siano ricoverati in ospedale o se siano finiti all’obitorio. Il numero delle vittime oscilla quindi tra 6 e 16. Gli altri accoltellati invece sono ancora in cella.

da Indymedia

SILVIA BARALDINI


"…l’America è una statua che ti accoglie e simboleggia bianca e pura, la libertà che dall’alto fiera abbraccia tutta la nazione. Per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione. Perchè di questa piccola italiana oggi l’America ha paura. Paura del diverso, del contrario, di chi lotta per cambiare. Paura delle idee di gente libera, che soffre, lotta e spera. Nazione di bigotti, ora vi chiedo di lasciarla ritornare. Perchè non è possibile rinchiudere le idee in una galera. E Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente."
Francesco Guccini, Canzone per Silvia
La ripetizione storica dell’ingiustizia ha generato casi di crudele oppressione, di ostentata rivelazione del potere a difesa di altro potere minacciato da una completamente diversa concezione della vita e della sua strutturazione nell’impero americano. Silvia Baraldini è un elemento endogeno di ribellione negli Stati Uniti d’America del 1982. E’ l’anno in cui viene arrestata e inizia il suo percorso di torture psico-fisiche, di alienazione dal resto del mondo, di solitudine giudiziaria. Silvia Baraldini è una militante per i diritti umani e sociali delle popolazioni afro-americane, probabilmente è anche comunista (lei non lo ha mai dichiarato apertamente), sicuramente non è nè una simpatizzante del Partito democratico o di quello repubblicano.
Silvia fa parte del Black Panter Party, il "Partito delle Pantere nere": non spaventatevi, non sono ammaestratori di animali, ma uomini e donne che si prestano ad una battaglia di riconoscimento dell’equipollenza dei diritti per tutti negli Usa: bianchi, neri, ispanici, ecc.
Il gruppo di cui fa parte Silvia, il "19 maggio", viene definito da molti giornali come un gruppo "eversivo", ma è perfettamente legale. Silvia Baraldini inizia la sua attività politica sull’onda del movimento sessantottino, protestando e manifestando per tutti gli obiettivi che si prefiggeva quella generazione, quindi per i diritti civili dei neri statunitensi, contro la guerra del Vietnam e per i diritti delle donne. In seguito la sua attività si focalizza contro l’apartheid e il nuovo colonialismo in Africa. Qui parte la vicenda che la vede protagonista da oltre 25 anni. Quando le vengono messe le manette ai polsi le sciorinano in faccia le accuse più esorbitanti: avrebbe partecipato alla fuga di Assata Shakur alias Joanne Chesimard, "l’anima" del "Black Liberation Army". Fu accusata di essere un’ideologa sia del movimento "19 maggio" e di altri movimenti afro-americani di liberazione tra cui "La famiglia", che forniva appoggio logistico; Fu accusata di aver preso parte ai preparativi di rapina, mai portatI a termine, di un furgone blindato a Danbury nel Connecticut; fu inoltre accusata di aver preso parte il 19 maggio 1981 ai preparativi di rapina, mai portata a termine, di un furgone blindato alla Chemical Bank di Nanuet, a New York e, infine, dulcis in fundo di "ingiuria al tribunale", per aver rifiutato di fornire testimonianza sui nomi di altri militanti del movimento "19 giugno". Francesco Guccini afferma nella sua "Canzone per Silvia" che "…non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente". E’ vero, a Silvia non sono mai stati contestati reati di sangue, reati contro il patrimonio o contro cose e persone. Le sono state mosse accuse per la sua militanza di sinistra, per le sue idee, evidentemente giudicate "pericolose". Un pò come qui in Italia, durante il fascismo, si bollavano sulle schede carcerarie come "pericoloso comunista" chiunque avesse avuto sentimenti antifascisti in cuore democratico e libertario.
E così, la più dura legge americana contro i mafiosi viene applicata contro di lei. Questa normativa, la Legge Rico, concorre a comminare a Silvia Baraldini ben 43 anni di carcere. Una pena esorbitante per accuse che, al massimo, in un Paese come il nostro avrebbero avuto una sommatoria di non più di cinque anni. La suddivisione dei lustri di pena è emblematica, e definisce i contorni del giustizialismo americano nei confronti di chi è straniero, magari di sinistra o comunista, magari anche di colore. I giudici statunitensi gettano un macigno di anni di reclusione così definiti: 20 anni per il concorso in evasione di Assata Shakur, alias Joanne Chesimard; altri 20 anni per associazione sovversiva, con applicazione della celeberrima legge Rico per i due preparativi di rapina; 3 anni per l’ "ingiuria al tribunale" che abbiamo già descritto prima.
Ma la giustizia e l’amministrazione americana vuole mostrarsi "pia e pietosa" verso questa italiana così "pericolosa". L’FBI, infatti, le offre del denaro in cambio della denuncia dei compagni del gruppo "19 maggio". Una offerta che le viene riproposta quando è in carcere con la promessa della sua liberazione. Silvia rifiuta e, per questa sua resistenza, viene gettata nel carcere di Lexigton e sottoposta ad un regime detentivo che la umilia nel profondo dell’animo, e nella caducità materiale del corpo.
La censura operata sulla sua posta, la durissima restrizione nei rapporti con l’esterno, con i propri parenti, compresa l’anziana madre, sono nulla se paragonati alle vere e proprie torture che subisce: per tre mesi consecutivi le applicano l’interruzione costante del sonno. La svegliano ogni 20 minuti. La guardia arriva, apre la porta e le punta sul viso un fascio di luce con la propria torcia. Se non si sveglia, fa chiasso e fa in modo che il suo debole dormiveglia venga sempre sistematicamente interrotto. Al contempo la deprivano della luce, le impediscono di riconoscere i colori, la circondano di un alone separatorio con tutto ciò che può essere il contatto mentale tra la realtà e la cella.
Una situazione insostenibile per chiunque, una Guantanamo ante litteram, un luogo di esasperazione del patimento e delle sofferenze. Non certo un regime carcerario, ma una camera di tortura in tutti i sensi. Silvia ha grande coraggio, le arrivano manifestazioni di solidarietà soprattutto dall’Italia: ricordo che facemmo moltissime iniziative per la sua liberazione. Una con l’allora deputato del PRC Lucio Manisco che si è sempre speso moltissimo per la causa di Silvia Baraldini. Le dedicammo anche una festa di "Liberazione" e proietammo un filmato di denuncia della sua storia, della detenzione disumana. Il mondo della cultura e della musica si mobilità per lei nel corso degli anni, accrescendo le voci di contestazione delle prepotenze della c.d. "giustizia" americana e dimostrando come Silvia Baraldini dovesse essere liberata subito, in quanto ingiustamente accusata e incarcerata.
Alfredo Bandelli, storico cantautore della sinistra, le dedicò una bellissima canzone di cui abbiamo riportato alcuni versi in testa a questo articolo, e coì anche Francesco Guccini con la sua "Canzone per Silvia" il cui epilogo era: "…che sempre l’ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte". Ciò che forse ha tenuto in vita Silvia è stato proprio il generale movimento di rottura del silenzio, di costante impegno per la sua liberazione.
A causa delle condizioni carcerarie, Silvia si ammala di un cancro squamoso uterino. La operano, ma la degenza non è certo semplice. Lei, in fondo, è solo una "criminale", e perchè mai il sistema detentivo a stelle e strisce dovrebbe preoccuparsi della salute di una donna così…
Il movimento per la sua liberazione ne chiede, anzitutto, il rimpatrio in Italia. A supporto viene chiamata la Convenzione di Strasburgo che, però, non detta obbligo in merito ai paesi contraenti e non fissa temporalità. Qualche timida richiesta in tal senso fatta dal governo italiano finisce nel cassetto del dimenticatoio e Silvia resta a marcire in carcere. Solo nel 1999, ben 17 anni dopo il suo imprigionamento, Silvia vede concretizzarsi la speranza di essere condotta in Italia. Gli Stati Uniti chiedono al nostro Paese di non fornire alla Baraldini alcun sconto di pena e di farle continuare lo sconto degli anni, di tutti quanti gli anni di privazione della libertà. Ogni buon giurista sa che la legislazione di un paese straniero non vale in quella di un altro paese, per questo il trasferimento di Silvia in Italia costituiva il presupposto per un allontanamento dalla persecuzione americana e la possibile costante diminuzione della pena fino ad una adeguata disposizione della reclusione compatibile con i problemi di salute, assai seri, di Silvia.
Ad accoglierla all’Aeroporto di Ciampino va il ministro della Giustizia Oliviero Diliberto. Un comunista. Le porta dei fiori e fa infuriare i fascisti e gli adoratori del cappio. E’ un primo passo verso la libertà. Certamente i gangli del diritto non facilitano l’applicazione della giustizia e, infatti, bisogna rispettare l’accordo con il potente amico americano e quindi le porte del carcere si riaprono per la Baraldini. Un’altra malattia la attanaglia in questi anni, un tumore al seno. Combatte questa ennesima battaglia con grande forza e la supera. In questi ultimi tempi era agli arresti domiciliari, ma non era certo libera di poter vivere come una qualunque persona. Solo ieri, 26 settembre 2006, Silvia Baraldini è stata definitivamente liberata dalla sua condizione di detenuta. L’indulto approvato dal Parlamento le ha permesso di non scontare gli ultimi due anni di reclusione. Silvia ora può vivere libera, può assaporare l’amaro paragone tra la vita che le è stata rubata e quella che potrà riprendersi da oggi in avanti.
Noi siamo felicissimi per lei, perchè Silvia non è mai stata una terrorista, non ha mai ucciso nessuno, ma si è sempre spesa per i più deboli di questa terra, per i senza diritti, per quelli che un tempo chiamavamo gli "oppressi".
Auguri Silvia, da tutti noi di Lanterne rosse, auguri per la tua vita. Che d’ora in poi possa essere serena, felice e sempre al fianco di tutte quelle Baraldini che sono in situazioni di sofferenza morale, fisica, sotto l’egida di qualunque potere, sotto la campana di vetro di ogni etica che vuole imporsi come specchio della verità e che, invece, è solo ipocrisia e paura.

Marco Sferini, 27 settembre 2006 – www.lanternerosse.it


Baraldini, l'arresto
la condanna, le speranze




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9 novembre 1982: l'arresto
L'accusa è associazione sovversiva: il gruppo "19 maggio" di cui Silvia Baraldini è membro dal 1975 è accusato di aver preso parte a una rapina nel 1981 durante la quale sono rimasti uccisi due poliziotti. Silvia Barladini viene rinchiusa nel carcere metropolitano di New York, dal quale viene liberata su cauzione dopo poco più di un mese, il 23 dicembre. Cinque mesi dopo, il 25 maggio del 1983 il nuovo arresto. Silvia Baraldini aveva 34 anni.

15 febbraio 1984: la condanna
La Corte Federale del distretto di New York condanna Silvia Baraldini per aver preso parte all'azione per la liberazione della rivoluzionaria anglo-americana Asata Shakur dal penitenziario federale del New Jersey. Per questo reato le vengono inflitti venti anni di carcere. Con le altre accuse (associazione per delinquere allo scopo di commettere i rapine, omicidio, sequestro di persona, ostacolo delle indagini, partecipazione a rapina e sequestro di persona) gli anni diventano 40. Sempre nel 1984 la seconda condanna: tre anni di reclusione per essersi rifiutata di deporre davanti al Grand Jury.

In sei diversi carceri
Fino alla metà del 1984 Silvia Baraldini sconta la pena nel carcere metropolitano di New York. Nel maggio dello stesso anno viene trasferita nel carcere di Pleasanton a San Francisco, doce resta fino al 1987. Poi è la volta del penitenziario di massima sicurezza di Lexington, nel Kentucky, dove è rinchiusa in una cella di quattro metri per due senza finestra. Dopo 19 mesi viene accolto l'appello della Baraldini e di un'altra detenuta sottoposta alle stesse condizioni di trattamento, sostenuto anche da Amnesty international e American Civil Liberties Union, e c'è il trasferimento nel penitenziario di massima sicurezza di Marianna in Florida. Nel 1994 altro trasferimento a Danbury nel Connecticut, dove si trova attualmente.

La malattia
Nel 1988 un oncologo le scopre un tumore maligno. La Baraldini viene trasferita nel carcere di Rochester nel Minnesota, dove viene sottoposta a due interventi chirurgici e subisce l'asportazione dell'utero.

Le richieste d'estradizione
La prima richiesta viene presentata da Giuliano Vassalli nel 1989. Poi, nel 1998 il ministro della Giustizia Flick chiede al Segretario generale del Consiglio d'Europa Daniel Tarschys di avviare il tentativo di "composizione amichevole", previsto dalla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate. Davanti al Consiglio d'Europa l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso difende la causa Baraldini. La controparte americana è composta dal direttore per il trasferimento internazionale dei detenuti del dipartimento di Giustizia Charles Brooks.
Il giudizio del Consiglio d'Europa arriva il 10 giugno 1998 con un documento, presentato da Italia, Usa, Regno Unito, Francia, Germania, Belgio, Svezia e Turchia, che delineava il possibile scenario: Silvia Baraldini deve restare in carcere, se trasferita in Italia, al massimo fino al 2012 e al minimo fino al 2005; la pena non può essere ridotta in Italia se non attraverso una grazia presidenziale; a partire da un anno dopo il suo eventuale trasferimento in Italia, La Baraldini può ottenere la semi libertà e i permessi di qualche giorno fuori dalla prigione solo se gli Usa accompagneranno il suo rientro con "rapporti soddisfacenti" sulla sua condotta nelle carceri americane.

Infine i due viaggi in Usa di D'Alema. Il primo nel marzo scorso, all'indomani del verdetto di assoluzione del pilota della strage del Cermis. L'altro in occasione del vertice della Nato a Washington, con un incontro bilaterale formale sul caso Baraldini.

(11 giugno 1999)

Il ritorno della Baraldini
Storia di una buona causa



di GIANNI MURA
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Adesso che Silvia Baraldini torna, è tornata, chi non ha seguito da vicino il suo caso rischia di smarrirsi in mezzo alle tante Baraldini raccontate in cronaca. Dal santino laico alla pericolosa terrorista, passando per gradazioni più sfumate. In cui includo le polemiche sul costo del Falcon 900 mandato in America dal nostro governo. Polemiche oziose, perché gli americani hanno richiesto massima discrezione nel trasferimento. Immaginatevi la Baraldini su un volo di linea con decine di giornali e tv a prenotare i posti. O, ancora, Baraldini come merce di scambio per il Cermis, dramma che certamente ha cambiato il clima e convinto gli americani ad ammorbidirsi un po'.

Ma non scordiamoci che è dal 1988 che in Italia, Parlamento compreso, si discute della Baraldini. Di socialisti e radicali le prime interrogazioni. Sempre nel 1988 nasce a Ferrara il primo Comitato di solidarietà per Silvia. Altri ne nasceranno, a Firenze, a Roma, a Milano, non tutti in sintonia fra loro ma tutti decisi a lottare contro il silenzio e l'isolamento di una donna forte. Il 1988 è anche l'anno delle due operazioni (lei in catene, come da regolamento, anche sul tavolo operatorio) per cancro all'utero.

E nell'89 parte dall'Italia la prima richiesta di estradizione in base alla convenzione di Strasburgo. Respinta, come succederà altre volte, fino al gennaio di quest' anno, quando al ministro Diliberto, a Berlino, arriva un fax in cui il governo americano manifesta la disponibilità a trattare. Può darsi, anzi è certo, che Diliberto sia parso interlocutore credibile alla controparte. Lui e chi per lui (Gianni De Gennaro). E che il nuovo avvocato italiano, Grazia Volo, si sia mossa con sicurezza e decisione.

Ma senza quella che si può chiamare mobilitazione popolare, oggi Silvia Baraldini sarebbe ancora il numero 05125-054 del penitenziario di Danbury. Senza i concerti di Guccini e le corse a piedi organizzate dall'Uisp, senza i consigli di fabbrica e le cittadinanze onorarie in tanti centri italiani, senza gli appelli firmati da Eco e Rushdie, Tabucchi e Maraini, Raboni e Valduga, Fo e Levi Montalcini, Bobbio e don Ciotti, ma anche da Ulivieri, allora allenatore del Bologna, da Mentana e Costanzo, da Emergency e da tante persone, non famose, gente comune e non necessariamente comunista (anche deputati del Polo, per dire). E non necessariamente antiamericana, ma forse spinta dall'evidenza dei fatti a pensare che quella americana non è la miglior giustizia possibile.

Oggi è un bel giorno, per la Baraldini e per tutti quelli che non hanno mai smesso di credere che sarebbe tornata in Italia. A Rebibbia, non a casa sua, fino al 29 luglio 2008. L'unica strada praticabile era di accettare condizioni teoricamente inaccettabili (rinuncia ai benefici della legge Gozzini e via dicendo), ma esiste un versante umano, non solo un versante giuridico, che mi pare interessante. Mi chiedo: perchè proprio la Baraldini e la sua storia hanno richiamato l'attenzione, lo sdegno, il sentimento di tanti italiani? Perché, per usare una brutta espressione, molti altri casi carcerari più pieni di sangue sono stati dimenticati e il suo non è passato di moda? Perché questa attenzione occupa dieci anni, da Palermo a Sale Marasino (Bs)?

Proprio perché oggi è un bel giorno, provo a rispondere. Per me e per gli altri. Fino al luglio del '94, quello che sapevo dalla Baraldini lo sapevo dai giornali. Mondiali di calcio negli Usa, Danbury a poco meno di due ore d'auto da New York, trafila per la visita, due ore in parlatorio. Mai visti prima né dopo, dopo solo qualche telefonata e qualche lettera. Ma in quelle due ore, in un penitenziario di massima sicurezza del Connecticut, ho respirato un sacco di libertà. Detto così fa un po' ridere, ma la sensazione precisa era questa. La libertà non era intorno a Silvia, era dentro. Non s'era persa con la condanna né con la malattia, non s'era persa nella disumana detenzione di Lexington (la tomba bianca era chiamato questo carcere, chiuso dopo l'intervento di Amnesty International) né in quella durissima, ma senza torture psicofisiche, di Marianna.

A proposito di far ridere, non male le dichiarazioni di Marcello Veneziani su un pezzo (serissimo, quello) di Igor Man. "La Baraldini è coerente sulla pelle degli altri". Anche sulla sua, andiamo: 17 anni di galera in America non sono una crociera. Specie se c'è accanimento. Una donna, bianca, famiglia agiata, buoni studi, che si butta dalla parte dei neri e dei portoricani, di tutte le minoranze. Fu in agosto, nel '61, esattamente il giorno 7, che la famiglia Baraldini si trasferì a New York. Silvia avrebbe compiuto 14 anni a dicembre. E' cresciuta negli anni dei campus studenteschi in fermento, delle grandi mobilitazioni per i diritti civili. Vorrebbe andare in Alabama per marciare con Martin Luther King da Selma a Montgomery, i genitori la dissuadono, troppo pericoloso, meglio restare a casa. "E' l'ultima volta che ho chiesto il permesso di partecipare. Poi ho partecipato". Il padre era dirigente della Olivetti, poi lavorò all'ambasciata italiana. Morì d'infarto nel '77.

Come militante del gruppo 19 maggio, in base alla legge Rico, varata in funziona antimafia, la Baraldini è stata condannata a 43 anni. La legge Rico prevede che i crimini commessi dall'appartenente a un gruppo possano essere automaticamente addossati a tutti gli altri, anche se nel caso della Baraldini il tribunale ha riconosciuto la sua non partecipazione a fatti di sangue. Vent'anni per aver partecipato all'evasione (incruenta) di Jo Ann Chesimard, alias Assata Shukur, dal carcere di Clinton (New Jersey). Vent'anni per l'ideazione di una rapina mai avvenuta, su segnalazione di un pentito incapace però di descrivere la Baraldini, che fra l'altro in quel periodo stava in Zimbabwe. Tre anni per disprezzo della corte.

Con un bravo avvocato, e non con l'immancabile militante, la Baraldini se la sarebbe cavata con molto meno. Non ha mai sostenuto di essere innocente né ha cercato di evitare le sue responsabilità. E credo che qui stia la risposta per gli altri, per il cerchio largo degli altri. La coerenza e la dignità di Silvia Baraldini (in quelle condizioni) sono valori forti e percepiti. In tempi di spostamenti rapidi, sempre dettati dalla convenienza personale (da un partito all'altro, da una squadra all'altra), in tempi in cui la nostra vita sembra un frenetico zapping, la Baraldini è rimasta ferma, non s'è né spezzata né piegata, non ha chiesto pietà ma solo giustizia. In stagioni di etica ballerina, la Baraldini non ha barattato la sua libertà né con un pentitismo di comodo né facendo rivelazioni su altri membri di quel gruppuscolo che non c'è più, non essendoci più le condizioni sociali che l'avevano fatto nascere, crescere e anche sbagliare metodi.

Quel luglio di cinque anni fa ero andato a Dambury sapendo che l'Fbi già nel 1987 le aveva offerto un bel mucchietto di dollari e la scarcerazione immediata se avesse fatto altri nomi. E che per il suo rifiuto l'avevano spedita nella tomba bianca di Lexington. E sapevo che sua sorella Marina, la prima a sollevare il caso, era morta nell'89 nel cielo del Ciad, aereo francese fatto saltare da terroristi libici. Non sapevo e non immaginavo di trovarla così ostinatamente serena e decisa a non rifarsi una vita a scapito di vite altrui. Né pensavo che ricevesse tanta posta dall'Italia ("è importante, chi ha qualcuno fuori è trattato qui con più rispetto"), spesso da persone che le ponevano problemi di malattie, di droghe, di rivoluzioni fallite o mai iniziate. Mi venne in mente quella vecchia canzone in milanese resa famosa dalla Vanoni, Ma mi. Sbatùu de su, sbatùu de giò, mi son de quei che parlen no. Allora di diritti civili in Italia si parlava pochissimo. Adesso anche meno. Era una buona causa, e buona resta. Personalmente, anche se non ha importanza, credo che la Baraldini per quello che ha fatto abbia pagato a sufficienza. In ogni caso, aveva diritto a una nuova vita nel suo paese, sia pure a Rebibbia. Non sarà facile, ma sempre meglio qua che là.

(25 agosto 1999)

Vorrei segnalarvi questo libro che ho trovato nella libreria sotto casa: Riccardo Bocca, La condanna: storia di Silvia Baraldini. Milano: Feltrinelli, 1998, pp. 151, £ 25.000.
L'autore (classe 1964) ha lavorato presso la redazione de "l'Unità" e di "Radio Popolare", ed è stato caposervizio del settimanale "L'Europeo". Nel 1996 ha pubblicato Maurizio Costanzo Shock (Kaos Edizioni).

Il libro ripercorre le tappe salienti della vita e della formazione culturale della Baraldini, dalla sua collaborazione con il Black Panter Party alla militanza nella May 19 Comunist Organization, fino al suo arresto per i reati di complicità nell'evasione di Assata Shakur, una combattente del Black Liberation Army (1979) e nella rapina di un furgone portavalori (1981), alla quale non partecipò direttamente, ma che fu preparata nella sua abitazione. In quest'ultima azione rimasero uccisi due poliziotti.
Dal 1982 Silvia Baraldini è incarcerata e condannata a quarant'anni per i reati di cui sopra e a tre in più per oltraggio alla corte. Per oltraggio alla corte è da intendersi il rifiuto all'esplicita richiesta della corte di rivelare i nomi di altri complici. Questo in USA costituisce di per sé oltraggio alla corte.
La Baraldini poi si è ammalata di cancro, in seguito anche alle condizioni disumane e alle torture subite nel carcere di massima sicurezza di Lexington, dove è stata rinchiusa con altre detenute politiche considerate di "massima pericolosità". Gli interventi medici sono stati colpevolmente rimandati, fino alle proteste della commissione per i diritti civili, e di varie autorità stimolate anche dalla pressante richiesta di Marina Baraldini, la sorella di Silvia, che lavorando alle Nazioni Unite riesce a fare pressione. Purtroppo Marina Baraldini è morta in un incidente aereo nel 1989. Da allora si occupano di lei due diversi comitati di solidarietà. Uno politico e uno umanitario, non sempre fra loro coordinati. Il libro ripercorre la storia dei 5 rifiuti dell'estradizione chiesta dai vari governi italiani, e supportata da raccomandazioni del parlamento europeo. La prima richiesta è del 1989. Il diniego è motivato da un pretesto ingiurioso: la paura che nell'ordinamento giudiziario italiano, considerato lassista, la Baraldini non sconterebbe tutta la pena. L'autore esamina in dettaglio le mutate condizioni politiche, per cui al cambiare delle teste al governo non cambiano le modalità dei pretesti con cui tale provvedimento viene rifiutato. Le motivazioni dei cinque rifiuti sono infatti sempre le stesse.
Silvia evidentemente è ancora una spina nel cuore dell'amministrazione statunitense, e nemmeno Clinton si è mostrato all'altezza delle aspettative. Troppa è stata la paura di suscitare sospetti nell'elettorato cosiddetto "moderato" (ma in realtà forcaiolo).
La cosa assurda, fa notare Bocca, "è che mentre Silvia veniva rinchiusa nel supercarcere di Marianna, gli americani accordavano la libertà provvisoria a Orlando Bosh, un terrorista anticubano responsabile di numerosi attentati" (p. 70), un terrorista ritenuto colpevole, ad esempio, di un attentato contro un aereo civile della Cubana Airlines che ha provocato settantatré morti.
Silvia invece non ha mai sparato un colpo, e quando è stata rinchiusa in carceri "normali" la sua condotta è stata quella di una detenuta modello, ha chiesto scusa per iscritto ai parenti delle vittime ed ha riconosciuto i propri errori.
Notare che non si chiede la liberazione della Baraldini, ma soltanto che venga a scontare la pena in Italia, dove potrebbe ricevere le visite di sua madre più facilmente. Se governi precedenti si sono mostrati tintinnanti e conniventi con le autorità americane (particolarmente impacciato il tentativo di Dini), l'ultimo rifiuto mostra in tutta la sua crudezza il disprezzo del governo americano per le nostre autorità politiche. In tutto questo la Baraldini paga ancora per la propria fermezza nell'affermare quei principi per i quali ha lottato da ragazza.
Mi domando a questo punto se - invece di continuare a battere il tasto dei diritti umani, cui gli americani sembrano essere sordi - non ci sia qualche forma di contropartita da offrire per cui il governo statunitense possa essere indotto a ridarci la Baraldini.

Giovane calciatore picchiato in Maremma: "Torna in Brasile"

CASTIGLIONE DELLA PESCAIA (Grosseto) - Brutta avventura per un giovane calciatore brasiliano 16enne, in prova con la squadra di calcio della Castiglionese: venerdi' sera e' stato pestato da tre coetanei italiani in centro a Castiglione della Pescaia (Grosseto) che gli gridavano ''torna in Brasile''. Il ragazzo aveva appena terminato l'allenamento e stava tornando a casa quando ha incrociato il gruppetto. Medicato al Pronto soccorso, il ragazzo ha chiesto di lasciare l'Italia.

Africani promuovono pace in Italia

Keniani nel Salento e gli acrobati Nafsi Africa sono in tour in Italia ed in Europa fino al prossimo mese di ottobre per promuovere la pace e celebrare la diversità culturale "per un futuro comune".

Quello che segue è il loro comunicato stampa.

Visto che le nostre società sono multiculturali e lo diventeranno sempre di più, abbiamo bisogno di visioni alternative sul significato della co-esistenza, dell'interazione e sull'apprendimento da e per la comunità.
Da non molto tempo la società europea si trova ad affrontare nuove sfide economiche e sociali che richiedono strategie innovative

Kenyans in Salento & Nafsi Afrika Acrobats promuovono il Peace Vision Tour per celebrare la pienezza e la diversità delle culture di tutto il mondo. Due gli obiettivi principali:

Concentrarsi sugli interessi condivisi che sono la pace, l'uguaglianza e la giustizia, fornendo, attraverso le arti, un vocabolario espressivo per esaminare le questioni sociali e politiche che interessano le nostre comunità.
Creare uno spazio in cui gli artisti visivi e atletici possano riconoscere la differenza e trovare ispirazione, risoluzione nonviolenta dei conflitti, impegnandosi reciprocamente e con il pubblico, soprattutto con i giovani.


KENYANS IN SALENTO

Kenyans in Salento (Puglia) è un'associazione di keniani, con l'obiettivo di unire il Kenya e l'Italia per agevolare virtualmente e realmente il commercio, l'arte, il divertimento, la reciproca comprensione, le culture, l'ospitalità, l'accoglienza, la cucina (cucina locale) e le abitudini.

NAFSI AFRIKA ACROBATS

Nairobi è la sede della seconda baraccopoli più grande del mondo e il tasso di HIV in queste zone può arrivare al 40%.

Nafsi Afrika Acrobats usano l'acrobazia, la danza, lo yoga e gli spettacoli teatrali per creare soluzioni ad alcuni dei problemi socio-economici di queste baraccopoli.

Nafsi Afrika Acrobats hanno la propria sede in Kawangware e nella baraccopoli di Kibera a Nairobi, in Kenya. Cercano di dare ai bambini un'alternativa alla vita in strada. Nafsi collabora anche con Sarakasi Trust (www.sarakasi.org) e con Comunità Koinonia (www.koinoniakenya.org) nel programma di educazione dei bambini. ?

da AfricaNews

NO BORDER LESVOS CAMP



NO BORDER LESVOS 2009
Sulla nostra nave non c’è posto per la repressione

In questi ultimi anni, l’isola di Lesvos rappresenta uno dei principali punti d’ingresso per migliaia di rifugiati ed immigrati che cercano di raggiungere l’Europa.Stipati su piccoli gommoni, tentano di attraversare i confini marittimi tra la Turchia e la Grecia ed alcuni di loro, spesso non ce la fanno. Negli ultimi 20 anni sono più di 1,100 gli immigrati ed i rifugiati dispersi nel mar egeo.

La guardia costiera greca, nell’attuare le politiche nazionali ed europee di “prevenzione degli ingressi” viola i diritti dei rifugiati mettendo a rischio le loro vite. Nello stesso momento queste attività vengono sostenute dal Frontex, la cui prima nave opera all’isola sin dal mese di luglio 2008. Di recente, gli ufficiali del Frontex hanno intervistato ed interrogato i rifugiati e gli immigrati a Paganì (Lesvos).

Paganì (situato a 5km di distanza da mitilene, la capitale dell’isola) è il posto dove si trova il centro di detenzione, al quale vengono portati i rifugiati e gli immigrati una volta arrivati a Lesvos e vi rimangono per settimane o mesi. È un carcere dove i diritti fondamentali dell’uomo non vengono rispettati. Inoltre l’edificio non è adatto ad ospitare delle persone, in quanto privo delle elementari infrastrutture atte a tale scopo. Per di più, ai rifugiati non è concessa alcuna possibilità di comunicazione, non vengono informati dei loro diritti e non è permesso loro di uscire nel cortile.

Dopo essere stati registrati nel sistema Eurodac, i rifugiati vengono dimessi con un foglio di via, che intima di lasciare il paese entro un mese. Alcuni di loro fanno richiesta d’asilo politico, finendo però nel caos burocratico che caratterizza questi procedimenti, subendo la violenza delle autorità (vi sono state 2vittime nei pressi della Questura per gli stranieri ad Atene) ∙ infine, solo allo 0,60% di coloro che fanno domanda viene riconosciuto l’asilo politico.

Coloro che decidono di rimanere in Grecia e di trovare un lavoro, si sottopongono ad una serie di ingiustizie, ad orari lavorativi proibitivi, a condizioni disumane e a delle retribuzioni umilianti. La loro situazione precaria non concede a loro alcun diritto di associarsi per ottenere delle migliori condizioni lavorative. Un esempio molto recente è il tentato omicidio (tramite l’uso del vetriolo) di una donna straniera, lavoratrice e sindacalista ad Atene.

Coloro infine che cercano di riprendere il viaggio, per raggiunggere (di solito attraverso l’Italia) gli altri paesi europei, si giungono in massa ai porti verso ovest come quello di Patrasso, dove le azioni repressive della guardia costiera sono un fenomeno quotidiano. Molto spesso i migranti vengono ritrovati morti nei container dei camion, tramite i quali hanno cercato di lasciare il paese. E coloro che ci riescono , se vengono poi rintracciati vengono rispediti in Grecia ai sensi del Regolamento di Dublino II.

Dalla Convenzione di Schengen al Regolamento di Dublino, dal Patto Europeo sull’asilo e l’immigrazione alla cosidetta “Direttiva della Vergogna”, dal Frontex all’IOM, dai centri di detenzione alle pratiche di prevenzione e di espulsione, dai confini alle grandi metropoli, l’Europa chiaramente affronta il fenomeno migratorio con misure repressive e controlli dei confini.

Qui a Lesvos, il regime di controllo dei confini europei è attuato in modo molto chiaro ed è per questo che vi invitiamo di unirvi a noi in Agosto (dal 25 al 31) per condividere le esperienze di quello che succede ai confini, discutere sui problemi, coordinare le nostre azioni e combattere:

CONTRO LE POLITICHE NEO-IMPERIALISTE ED A TUTTO Ciò CHE CONTRIBUISCE A CREARE NUOVI RIFUGIATI

CONTRO IL REGIME DEI CONFINI E LE PRATICHE DI CONTROLLO E DI REPRESSIONE

CONTRO LA CRIMINALIZZAZIONE DELL’IMMIGRAZIONE

CONTRO I CENTRI DI DETENZIONE ED IL MALTRATTAMENTO DEGLI IMMIGRATI ED I RIFUGIATI

CONTRO LO SFRUTTAMENTO LAVORATIVO DEGLI IMMIGRATI

NO AI CONFINI

NESSUNO E’ ILLEGALE

NO ALLA DETENZIONE DEGLI MIGRANTI

UGUALI DIRITTI PER TUTTI

da Roma.Indymedia

È ORA D'ARIA - Carceri piene, l'Italia rischia multe record

Scioperi della fame, risse, incendi, proteste. I detenuti chiedono giustizia all'Europa contro una detenzione «disumana e degradante». La sentenza del 16 luglio scorso della Corte dei diritti umani apre la strada dei risarcimenti e inchioda il governo italiano alle sue responsabilità. Nel silenzio del parlamento si mobilitano le associazioni rischia multe record Esposto collettivo a Trento: sovraffollamento, muffa e niente estintori. Proteste a Como, Venezia e Trani
Celle distrutte, suppellettili battute contro le inferriate, coperte e giornali dati alle fiamme. Ma anche denunce alla Corte europea di Strasburgo per vedere riconosciuto un indennizzo per la detenzione «disumana» trascorsa in galera. Nei penitenziari italiani la situazione è sempre più esplosiva.
Ieri, 156 persone rinchiuse nel carcere di Trento hanno dato mandato all'associazione «Diritti dei detenuti» di presentare un esposto: «Viviamo in una condizione inaccettabile - scrivono i detenuti - Nella struttura i termini di vivibilità minimi non sono stati rispettati. Le celle presentano segni di muffa e il bagno non rispetta le leggi sanitarie». Il sovraffollamento è cronico, la terza branda nelle celle (teoricamente non a norma) una costante. E la sicurezza? «Totalmente assente, un solo estintore per ogni braccio». Da qui la scelta di denunciare la situazione alla Corte europea dei diritti dell'uomo, la stessa che un mese fa ha condannato l'Italia a risarcire con mille euro un detenuto bosniaco rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia perché non erano stati rispettati i parametri fissati. Per Strasburgo, infatti, ad ogni detenuto spetterebbero 7,5 metri quadri, mentre nelle carceri italiane la media è intorno ai 3. Intanto, in altri penitenziari, invece di agire per vie legali si è passati a proteste più «muscolari».
Nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore, a Venezia, ore di tensione con piccoli roghi in un braccio del carcere. Mentre a Padova una maxirissa con 60 immigrati coinvolti. «L'inizio del Ramadan è stato sempre un momento di tensione. Questa degenerazione violenta delle proteste, tuttavia, nulla ha a che fare con la religione», spiega Leo Angiulli, segretario regionale del Triveneto della Uil Penitenziari, che condivide la linea rigida dettata dal capo del Dap, Franco Ionta. «Se è legittimo manifestare e protestare non è consentito degenerare - afferma il sindacalista - Pertanto ci appelliamo al senso di responsabilità perché non si acceleri il precipitare di una situazione colpevolmente lasciata fermentare nell'indifferenza e che ben presto potrebbe connotarsi per una estrema ingestibilità». Ogni giorno è già troppo tardi.
Altre proteste sono scoppiate, sempre ieri, a Como, Trani e Roma. In molti altri penitenziari è in corso lo sciopero della fame. Il Sappe lancia l'allarme di un effetto «domino ed emulazione negli istituti che, se messi in pratica, piegherebbero le gambe a un sistema carcere ogni giorno sempre più traballante». Non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti che lavorano nelle galere. «Sono in aumento gli attacchi al personale che ormai è demotivato, stanco e malpagato - denuncia Francesco Quinti della Fp Cgil - Gli uomini in servizio diminuiscono mentre i detenuti crescono di almeno mille unità al mese». Dello stesso avviso l'Osapp che lancia una provocazione ai parlamentari: «Un turno di sorveglianza effettuato alle stesse condizioni di chi svolge il lavoro di sorveglianza negli istituti di pena - spiega il segretario nazionale Leo Beneduci - una proposta dura, indirizzata agli stomaci più resistenti, quello che avete visto durante le ispezioni di ferragosto non basta a descrivere il quadro entro il quale ci muoviamo».
In questo clima cosa sta facendo il ministro della Giustizia Alfano? «Il suo atteggiamento è di palese immobilismo, basta pensare che il piano carceri di Ionta ancora non è arrivato in consiglio dei ministri - aggiunge Quinti - il governo ha delle responsabilità su quel che sta succedendo».
Né l'appello all'Europa del Guardasigilli (ha chiesto una soluzione per rimpatriare i detenuti immigrati) né la costruzione di nuovi istituti (ci vorrebbero almeno 5 anni di tempo) appaiono soluzioni convincenti.
Per questo i radicali, dopo aver promosso l'ispezione parlamentare, tornano alla carica per trovare misure alternative alla galera (come la «messa alla prova» che ha portato ottimi risultati negli istituti minorili) e per la depenalizzazione di alcuni reati. Finora il governo non ha fatto nulla per intervenire. Rischia di pagare in multe e rivolte.

da IlManifesto