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giovedì 27 agosto 2009

Ci scrive Paola, una lettrice esterrefatta, probabilmente anche un po’ distratta?

Dove eravamo noi quest’anno? Tu dov’ eri? Bastava che fossi venuta un solo giorno sul campo di ulivi che ospita questi poveri disgraziati per trovarci! Da quasi due mesi ormai, sistematicamente tutti i santi giorni c’è chi pur essendo impegnato con lavoro e famiglia ha alzato il proprio sedere e si è sporcato le proprie mani per garantire a TUTTI i lavoratori stagionali presenti sul territorio di Nardò acqua e quando possibile assistenza sanitaria vestiario e cibo!
Grazie al nostro lavoro, alle nostre pressioni (e non grazie al Sen. Maritati che avrebbe fatto meglio a rimanere a casa sua) circa 150-200 di queste persone hanno avuto la possibilità di trasferirsi dall’uliveto alla Masseria Boncuri dove grazie allo stanziamento tempestivo del comune di 15000 euro hanno potuto usufruire di 6 docce aggiuntive e 5 gazebi.
Accanto all’azione umanitaria abbiamo anche avviato un’azione di monitoraggio a livello istituzionale, in modo da capire dove stanno gli intoppi, per capirci: dov’è che finiscono i soldi che la regione stanzia da anni per far fronte al problema?
Il problema dello sfruttamento invece è come saprai un problema gigantesco, che va affrontato a più livelli, e che non si risolve firmando un accordo formale. Anzi, neanche con un accordo ufficiale: i contratti di lavoro per gli stagionali prevedono già condizioni dignitose, vitto e alloggio, il problema è che nessuno vigila su questo e quindi poi succede che qualcuno lavora 30 giorni per 12 ore al giorno senza pausa e poi riceve solo la paga striminzita per 3 giorni di lavoro.
Il nostro lavoro non finirà quando andranno via tutti, perchè quello sarà il momento per concentrare le forze per impedire che lo stesso scempio si ripeta l'anno prossimo!
LA LETTERA INTEGRALE


“Sono esterrefatta: ancora una volta la disinformazione e la pura propaganda la fanno da padrone dinanzi ai veri problemi, che non si affrontano millantando azioni, proclami e ideali, che sono belli solo da leggere sulla carta, ma che poi non si traducono in alcun modo in fatti.
Certo, il prossimo anno non starete a guardare, certo certo, ma dove eravate quest’anno, lo scorso, l’altro ancora e andando ancora a ritroso, quando l’emergenza immigrati colpiva la ns. terra? Ah si si, non c’eravate voi, c’erano i vs. amici, che si chiamavano con altri nome e avevano altri simboli, ma che si raggruppavano sotto una bandiera dello stesso colore e proclamavano gli stessi ideali e come voi facevano comizi, raccoglievano firme, scrivevano sui giornali, però poi erano tutti troppo impegnati con lavoro e famiglia per alzare il proprio sedere e sporcarsi le proprie mani.
Bhè si. La ASL ha ragione: bisogna garantire le norme minime di igiene per i servi, ecc. ecc. poi però vai a chiedere un’autorizzazione e non te la danno nemmeno a morire e gli immigrati nel frattempo cosa fanno secondo voi, che sicuramente sarete profondi conoscitori dei tempi biblici della burocrazia?? Aspettano l’autorizzazione della asl fermi al casello, indecisi se passarlo o no? Soggiornano nel canale di sicilia, informandosi, tra un tuffo e l’altro, se le autorizzazioni la asl di nardò le ha rilasciate oppure vengono comunque qui a lavorare, occupando la “pretura”, come hanno fatto sino a qualche anno fa, vivendo in condizioni indegne, nell’indifferenza generale, anzi spesso nella intolleranza generale?? Tutto ciò mentre i tuoi amici erano impegnati a parlare, raccogliere firme, fare vetrina, chiamare le telecamere e pubblicare foto ma…”no scusa, volevo venire oggi, davvero, ma ho un appuntamento di lavoro, per domani non trovo la baby-sitter, e poi devo andare dal parrucchiere e poi c’è l’aperitivo a s. caterina…”
Bhè io sono stanca di sentir parlare a sproposito, perché questo è: parlare a sproposito e niente di più. E scusami se parlo io, che in africa ci sono stata quasi un anno, come volontaria, lasciando il mio lavoro (bhè per me è stato facile no? me lo son potuta permettere: sono partita senza una euro e sono tornata che ne avevo ancora meno, ma sai, a noi al sud mamma e papà non negano un pasto caldo…). Io che ho visto gli africani in africa e ho il cuore a pezzi, sapendo che scappano dalla miseria, pensando di trovare la civiltà e trovano invece solo lo sfruttamento. Io, che non ho mai visto la tristezza nei loro occhi lì, ma l’ho vista qui: x la delusione, x l’amarezza di vivere come bestie nella civilissima Italia.
Però a me davano il rimborso spese sai…Come? Da volontaria??? Bhè dovevo pur mangiare, anche i volontari mangiano, non vivono respirando beneficenza e saziandosi di gratitudine (quando c’è, se c’è)!!! Quanto? 100 (cento) euro al mese. Che ti bastano solo x sopravvivere, in un modo o nell’altro.
Non parlo quindi dalla mia privilegiata postazione internet, con il culo comodamente rilassato sulla mia poltrona in pelle umana, davanti al mio nuovo pc, con touch screen, millantando proclami e ideali. Parlo perché quel culo io l’ho messo in gioco e le mani me le son sporcate di tutto e so che è facile parlare e sbandierare i ns. nobilissimi ideali, raccogliendo firme e scattando foto artistiche, di degrado e miseria. Ma i conti con la realtà son diversi. Ci sono i compromessi da raggiungere, ci son le mezze misure da porsi come obiettivi, perché non puoi fare tutto, allora da qualche parte inizi, allora qualcosa la fai muovere: ci vogliono i fatti. Perché fare volontariato, lavorare nel no-profit non significa non avere costi, non significa non essere professionali, non significa non portare uno stipendio a casa. Si può migliorare, certo, si può migliorare sempre e lo si deve fare, ma da qualche parte bisogna iniziare….e non è di certo dai titoli dei giornali o dalle accuse mediatiche.
Perché non si incarica la vs associazione di stipulare un accordo formale, scritto, impugnabile dinanzi ad un giudice, con gli imprenditori agricoli locali, che li vincoli ad assicurare agli immigrati IRREGOLARMENTE assunti il vitto, alloggio e condizioni di lavoro dignitose??? Quando sarete in grado di farlo, bhè allora avrete dato una lezione a qualcun altro, allora potrete dire di essere riusciti a far qualcosa di concreto, non solo chiacchiere. Finché saranno solo parole vuote, mentre gli immigrati aspettano una sistemazione di fortuna che non è certo una stanza all’Hotel Riviera, bhè allora sarebbe meglio tacere e sprecare le proprie risorse impegnandosi a raggiungere dei risultati concreti.
Avrei ancora tanto altro da dire davanti alle sciocchezze che vengono camuffate da nobili ideali e lodevoli propositi, davanti alla incapacità delle ns menti di sviluppare un minimo di senso critico che ci permetta di parlare con cognizione di causa. Ma l’indignazione nel vedere che si approfitta di questo per fare propaganda elettorale, la vergogna nel vedere in che condizioni il mio paese “accoglie” gli immigrati, il senso di impotenza davanti all’effettiva impossibilità di aiutare davvero tutti (io personalmente, non GLI ALTRI, che lo so di non essere wonder woman!), l’amara consapevolezza di quanto la gente parli di cose che conosce superficialmente, di situazioni che ignora, di mondi sconosciuti, che con le parole e i proclami sia così lontana dalla realtà e dalle vite di queste persone, mi serrano la gola e mi impediscono di continuare a scrivere. Oggi. Adesso.”

Grazie per lo spazio.

Paola De Pascalis

Verità di Stato e verità di mafia

Passaparola, dal Blog di Beppe Grillo



Sommario della puntata:
Massimo Ciancimino comincia a parlare
Il “papello”, i Servizi Segreti e la copertura politica della trattativa
Parla Ciancimino, parlano tutti.
Ayala: “Mancino ha incontrato Borsellino... o forse no”
Ciampi e il suo telefono a Palazzo Chigi “manomesso”
Il cerino in mano


Testo:
"Buongiorno a tutti, ben ritrovati dopo le vacanze anche se magari qualcuno c'è ancora. Io no, purtroppo.
Vorrei parlare subito di una questione che secondo me segnerà questa stagione della politica, dell'informazione, della cronaca, della giustizia ed è probabilmente la vicenda più importante che si sta svolgendo, anche se i giornali ne parlano poco, tra alti e bassi, tra fiammate e docce gelate. Anzi, forse proprio per il fatto che i giornali ne parlano poco, tanto per cambiare.
E' la faccenda di questi improvvisi squarci che si sono aperti quest'estate sulla vicenda della trattativa tra lo Stato e la mafia nel 1992, che poi null'altro è se non il paravento che cela i mandanti esterni, i suggeritori occulti delle stragi del 1992, almeno per quanto riguarda quella di Borsellino, e del 1993 di Roma, Firenze e Milano.

Ci sono molte novità che è difficile notare: eppure basta incrociare e confrontare ciò che esce sui giornali, senza bisogno di andare a vedere verbali giudiziari che sono ancora segreti e quindi né io né voi possiamo conoscere. Già quello che si è letto sui giornali è piuttosto significativo su quello che sta venendo fuori e io penso che se ci sarà una spinta dal basso della società civile, se qualcuno sul fronte politico prenderà finalmente sul serio questa faccenda e se i magistrati verranno lasciati lavorare, soprattutto quelli di Palermo, Caltanissetta e Firenze che sono quelli competenti per materia e per territorio sulle trattative del “papello”, Palermo sui mandanti delle stragi. Si potrebbe riuscire a capire chi sono i veri padri fondatori della Seconda Repubblica che, come forse avete sentito dire, non è nata a differenza della Prima dalla Resistenza ma proprio dalle stragi, dalle trattative, dalle bombe e dal sangue dei morti.
E' sempre meglio ricapitolare per evitare di dare qualcosa per scontato e acquisito, in modo che chiunque incamera il Passaparola sappia com'è cominciata la vicenda e a che punto è arrivata.
Dopodiché ci ritorneremo se, come spero, avrà degli sviluppi.
Massimo Ciancimino comincia a parlare

La vicenda comincia semplicemente con le interviste di questo personaggio molto interessante, singolare, sicuramente molto chiacchierone, cioè Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito, il quale per anni è stato indagato dalla procura di Palermo, ha avuto il torto di dover gestire il patrimonio di suo padre, è stato accusato di riciclaggio – lui dice che non è riciclaggio, si vedrà, questo a noi interessa poco. E' stato condannato in primo grado per riciclaggio, adesso si sta battendo in appello. Di certe cose non aveva parlato ai magistrati fino a un anno fa, anche perché aveva come l'impressione che la vecchia procura di Palermo non fosse molto interessata ad alzare il tiro sugli alti livelli istituzionali e politici frequentati da suo padre; invece poi fa sapere ai magistrati della nuova Procura di Palermo, quella retta dal Procuratore Messineo – per intenderci – da un paio d'anni che ha come l'impressione che abbia più interesse a toccare certi altarini e quindi comincia ad affrontare temi che prima aveva lasciato perdere.
Anche perché si era reso conto che quando gli avevano perquisito la casa, stranamente, i Carabinieri non erano nemmeno andati ad aprire la cassaforte che pure era visibile anche da un bambino, ma stiamo parlando di vicende ricorrenti, ricorderete che i Carabinieri del Ros non entrarono nemmeno nella casa di Riina: il motto di certi servitori dello Stato, soprattutto a Palermo, è “non aprite quella porta e non aprite quella cassaforte”, forse perché sanno già quello che ci troverebbero dentro.
In ogni caso, questa era la ragione della sua impressione sulla vecchia gestione della Procura, tanto più che poi in casa gli avevano trovato la lettera di Provenzano a Berlusconi e invece di utilizzarla nei processi i magistrati della vecchia Procura l'avevano lasciata marcire in uno scatolone per cui quelli della nuova Procura l'hanno tirata fuori e recuperata in extremis per versarla nel processo Dell'Utri che, fra l'altro, riprenderà fra meno di tre settimane.
Ciancimino comincia dunque ad alzare il tiro e a raccontare ai magistrati di Palermo cosa faceva suo padre, perché tutto ciò che Ciancimino racconta lo ha visto fare da suo padre insieme a esponenti delle istituzioni oppure l'ha sentito raccontare sempre da suo padre, che è morto. Padre che gli avrebbe addirittura dettato un memoriale che sarebbe nascosto da qualche parte: sapete che Ciancimino ha carte interessanti nascoste in giro per il mondo e si spera che prima o poi si decida a consegnarle alla magistratura. Ci sono altre due lettere attribuite a Provenzano e rivolte a Berlusconi, in originale o in copia, ci sarebbe il famoso “papello” della trattativa tra Riina e i Carabinieri del Ros e i loro mandanti rimasti anch'essi ancora occulti, e poi ci sarebbe questo memoriale dettato da Vito Ciancimino e dattiloscritto da Massimo.
Inizia a raccontare dei rapporti tra suo padre e il capitano De Donno e il Colonnello Mori e li data – la trattativa poi sfociata nel papello – tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Parliamo del mese di giugno del 1992: dopo che uccidono Falcone si fanno avanti i Carabinieri con Ciancimino.
Questa è già una prima novità perché inizialmente si pensava che la trattativa fosse iniziata dopo la strage di Via D'Amelio, invece no, pare che inizi prima e questo è molto importante perché molti magistrati e investigatori sono convinti che la strage di Via D'Amelio sia stata provocata proprio dalla trattativa tra i Carabinieri e Totò Riina in quanto questo, dopo aver eliminato Falcone, riceve da qualcuno l'input che bisogna eliminare anche Borsellino perché la strage di Capaci ha sortito l'effetto di attivare lo Stato a trattare con la mafia ma Borsellino lo è venuto a sapere, si oppone e quindi va eliminato: ostacolo da rimuovere sulla strada della trattativa. Quindi, la datazione dell'inizio della trattativa tra gli uomini del Ros e Ciancimino è fondamentale e Massimo Ciancimino la situa a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio, giugno 1992.
Poi racconta che suo padre aveva rapporti intimi e costanti con Bernardo Provenzano, fino al 2000 quando il padre rimase agli arresti domiciliari.
Racconta che la trattativa dei Carabinieri fu soprattutto con Provenzano piuttosto che con Riina e questo spiegherebbe per quale motivo a un certo punto Riina si ritrova i Carabinieri davanti a casa: cresce l'ipotesi che sia stato venduto da Provenzano e Ciancimino ai Carabinieri in cambio del cambio di rotta della mafia più trattativista e meno stragista – Provenzano è più trattativista, Riina è lo stragista – e quindi dell'alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e del fatto che Provenzano diventa il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo l'arresto di Riina e che però le carte di Riina non si prendono, si lasciano a Provenzano, e che lo stesso Provenzano non si prende e questo ci ricollega al processo in corso a Palermo a carico, tanto per cambiare, del Generale Mori per non avere catturato Provenzano già nel 1995 quando il Colonnello Riccio, un altro ufficiale del Ros, lo aveva segnalato presente in un casolare di Mezzojuso.
Ciancimino racconta poi di avere visto lui il “papello”, cioè il foglio di carta con l'elenco delle cose che Riina o Provenzano, o Riina e Provenzano, chiedevano ai Carabinieri in cambio della cessazione delle stragi, “papello” che nel prosieguo della trattativa nell'autunno del 1992 dopo che era stato ucciso anche Borsellino fu consegnato a vari referenti tra i quali, dice Massimo Ciancimino mentre il generale Mori nega, al generale Mori.
Il “papello”, i Servizi Segreti e la copertura politica della trattativa

Dice però che il “papello” fece un tragitto un po' più complicato: i capi di Cosa Nostra lo fecero pervenire a Vito Ciancimino, lui lo passò a un certo Carlo che era un uomo dei Servizi Segreti che gli stava accanto da una trentina d'anni – pensate, c'era un uomo dei Servizi Segreti, un certo Carlo, che accompagnava la vita e la carriera di un sindaco mafioso come Ciancimino per conto dello Stato. Quindi Ciancimino da' prima il “papello” a Carlo e questo lo da' a Mori, questo è molto importante perché Ciancimino per quanto riguarda le istituzioni si fida di questo Carlo che da trent'anni sta al suo fianco mentre Mori si è fatto avanti più di recente.
Ciancimino, il figlio, ricorda che suo padre per trattare – dato che a trattare tra Stato e mafia c'è da lasciarci le penne se si fa qualche passo falso – aveva preteso delle coperture politiche, che dovevano essere da parte del governo. Nel senso: chi è questo Mori che fa la trattativa? Sarà mica una sua iniziativa personale? No, ci deve essere dietro lo Stato altrimenti mica ci mettiamo a trattare. Chi lo manda Mori? Chi è d'accordo con la trattativa avviata da Mori? Dice Massimo Ciancimino, anche questo tutto da verificare naturalmente ma sono gli squarci che si stanno aprendo e quindi li dobbiamo raccontare così come li sappiamo, per quanto riguarda il governo la copertura chiesta da Ciancimino doveva darla il nuovo ministro dell'Interno Nicola Mancino, per quanto riguardava l'opposizione la copertura la doveva dare il rappresentante per i problemi della giustizia Luciano Violante, di lì a poco diventato presidente della Commissione Antimafia.
Insomma, sono d'accordo il governo e l'opposizione che lo Stato tratti con la mafia dopo la strage di Capaci e dopo la strage di Via D'Amelio? Questo vuole sapere Ciancimino per andare avanti con la trattativa. Infatti, si informa presso il signor Carlo – che secondo alcuni si chiamerebbe Franco, ma insomma... - che è appunto l'uomo dei Servizi affinché si informi di chi sta alle spalle di Mori. Dopodiché la trattativa prosegue, segno che le informazioni vanno a buon fine cioè che arrivano le garanzie che la destra e la sinistra, almeno il pentapartito perché in quel momento non c'era il centrodestra ma il pentapartito ovvero DC, Psi, partiti laici minori da una parte e PDS all'opposizione, non erano contrari. Anzi, secondo Massimo Ciancimino non era contrario il governo mentre la copertura di Violante va in fumo in quanto Violante rifiuta di incontrare Vito Ciancimino.
Quando poi viene catturato Vito Ciancimino nel dicembre del 1992 la trattativa si interrompe anche perché un mese dopo viene arrestato Riina ma non viene perquisito il covo, e sapete quello che succede dopo: secondo i giudici di Palermo dopo la trattativa dei Carabinieri interrotta dall'arresto di Ciancimino e un mese dopo di Riina parte un'altra trattativa, ammesso che fosse un'altra e non il prosieguo della stessa, che coinvolge Dell'Utri il quale fornisce poi le garanzie sulla nascita di Forza Italia, garanzie che verranno ritenute sufficienti da Provenzano tant'è che questo smetterà dopo la stagione delle stragi del 1993 di sparare e inaugurerà la lunga pax mafiosa che dura anche oggi.
Ecco, in quel periodo si inseriscono le tre lettere che Provenzano manda a Berlusconi: una all'inizio del 1992, prima delle stragi, segno che c'erano già dei rapporti con Dell'Utri perché era lui a fare il postino: la lettera Provenzano la dava a Ciancimino, che la dava a Dell'Utri che la dava a Berlusconi, tre volte questo sarebbe successo, la seconda volta alla fine del 1992 dopo le stragi e la terza all'inizio del 1994 quando Berlusconi si getta in politica, e questa è la lettera di cui i magistrati hanno una metà tagliata nella quale Provenzano o chi per lui si rivolge a Berlusconi chiamandolo “onorevole”. Stiamo parlando di un Berlusconi già diventato politico quindi non prima del 1994.
Richieste di aiuti, promesse di sostegno politico, scambi di favori con Dell'Utri che fa il pony express fra Provenzano e Berlusconi, questo è quello che racconta Massimo Ciancimino. E a questo punto i magistrati riaprono le indagini sulla trattativa del “papello” perché è ovvio che se la mafia ha costretto lo Stato a fare delle cose che non avrebbe fatto senza le stragi qui stiamo parlando evidentemente di reati gravissimi, è un'estorsione fatta dalla mafia allo Stato, stiamo parlando di un reato che credo si chiami “minaccia contro corpo politico dello Stato”. Un qualcosa di molto simile a un golpe.
Parla Ciancimino, parlano tutti.

Quando emergono da interviste o indiscrezioni di stampa le prime notizie su quello che ha detto Ciancimino i protagonisti della politica dell'epoca entrano in fibrillazione.
Nicola Mancino, lo sapete, già da anni è oggetto di chiacchiericci continui, poi per fortuna c'è Salvatore Borsellino che ogni tanto strilla forte ciò che gli altri mormorano piano. E' noto che il ministro dell'Interno che avrebbe incontrato Borsellino poco prima della strage di Via D'Amelio è proprio Mancino e Paolo Borsellino lo scrive nel suo diario. Mancino ha sempre negato, come ha sempre negato di aver saputo di trattative o cose del genere.
Guarda caso, quest'estate in un'intervista continua a dire di non aver incontrato Borsellino, al massimo gli avrà dato la mano ma come poteva lui riconoscere Borsellino fra i tanti... come se Borsellino fosse uno fra i tanti: era uno che di lì a quindici giorni morirà ammazzato ed è quello che tutti gli italiani individuano come l'erede naturale di Falcone che è appena stato ammazzato, figuratevi se si può scambiare per un usciere che ti stringe la mano il giorno che diventi ministro. Comunque questo dice Mancino: “non ho incontrato Borsellino, forse gli ho stretto la mano fra le tante”, ma aggiunge: “in quell'estate io respinsi ogni tipo di proposta di trattativa fra Stato e mafia”. Questo è interessante perché vuol dire che qualcuno gli sottopose queste proposte di trattative, e sappiamo che forse anche Borsellino respinse quelle trattative; allora sarebbe interessante sapere chi propose al ministro Mancino quelle trattative, perché dev'essere la stessa persona o lo stesso ambiente che le propose a Borsellino, soltanto che Borsellino disse di no ed è stato ammazzato, Mancino continuò a fare il ministro dell'Interno e devo dire che lo fece anche molto bene.
Violante, quando esce sui giornali che Ciancimino ha dichiarato che suo padre chiedeva la copertura anche della sinistra e cioè di Violante, tarantolato anche lui ha un'illuminazione e corre a Palermo a testimoniare, con dichiarazioni spontanee, che effettivamente gli è venuto in mente 17 anni dopo che il generale Mori gli aveva chiesto, mentre era presidente della commissione Antimafia, di incontrare Ciancimino ma dato che l'incontro proposto doveva essere a quattrocchi lui Ciancimino non lo voleva incontrare. Mori andò altre due volte per sollecitare quell'incontro ma Violante disse sempre di no.
E qui si pone un altro problema: per quale motivo Violante si è tenuto per 17 anni una notizia di questo calibro, nel 1992 non lo sapeva mica nessuno che i Carabinieri del Ros stavano trattando con Ciancimino cioè con la mafia. E Violante era presidente della commissione Antimafia, possibile che non apre immediatamente un'indagine con i suoi poteri, che sono gli stessi della magistratura, può persino convocare testimoni e arrestare la gente se vuole. Perché se non lo voleva fare lui non ha avvertito il suo amico Caselli che di lì a poco è andato a fare il procuratore capo di Palermo? Subito, all'inizio del 1993 così la trattativa si sarebbe saputa e sarebbe stata interrotta e non se ne sarebbero fatte altre perché sarebbero intervenuti i magistrati. Invece, Violante questa cosa se la tiene per 17 anni, dal 1992 al 2009, e poi tomo tomo cacchio cacchio se ne viene fuori con una dichiarazione ai magistrati di Palermo dicendo: “toh... guarda mi è venuto in mente! E' vero!”. Intanto i magistrati di Palermo avevano processato il generale Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina, l'avevano di nuovo fatto rinviare a giudizio per la mancata cattura di Provenza e Violante sempre zitto! Eppure sarebbe stato importante, in quei processi, avere la sua testimonianza! Violante che dice che il generale Mori faceva da tramite, da ambasciatore di Ciancimino per convincerlo a incontrare Ciancimino!
Voi capite che per uno che viene processato per favoreggiamento della mafia il fatto che andasse a chiedere a Violante: “scusi, lei vuole incontrare Ciancimino?”, un generale dei Carabinieri, sarebbe stato interessante. Violante zitto, se ne salta fuori adesso perché non lo può più negare, l'ha raccontato Ciancimino, quindi, trafelato, arriva a dire la sua verità, tardiva, molto tardiva.
Ayala: “Mancino ha incontrato Borsellino... o forse no”

Ma non è finita perché questa è anche l'estate nella quale salta fuori, con un'intervista ad Affariitaliani, l'ex giudice Ayala, già pubblico ministero nei processi istruiti da Falcone e Borsellino poi datosi alla politica e ultimamente, trombato dalla politica, ritornato in magistratura – credo che sia giudice in Abruzzo.
Ayala dice: “poche balle, Mancino aveva incontrato Borsellino, me l'ha detto lui”. A questo punto il giornalista dice: “ma Mancino lo nega” e lui risponde: “no, mi fece vedere l'agenda nella quale c'era scritto che il 1° luglio del 1992 Mancino aveva incontrato Borsellino”.
Strano, una bomba! I magistrati convocano immediatamente Ayala per saperne di più, lo convocano ovviamente quelli di Caltanissetta che stanno indagando sui mandanti esterni delle stragi. E lì Ayala dice: “no, ma io sono stato frainteso”. Piccolo problema: Affariitaliani ha l'audio registrato con le parole di Ayala. Possibile che Mancino gli abbia fatto vedere un'agenda con scritto l'incontro con Borsellino e Ayala sia stato frainteso? In che senso frainteso? Spiegherà Ayala, dopo aver capito che non può smentire le dichiarazioni perché sono state registrate, che si era sbagliato lui nell'intervista: Mancino gli aveva fatto vedere un'agenda dove non c'era il nome di Borsellino e lui, invece, ricordava che nell'agenda ci fosse. Ma se uno nell'agenda non ha il nome di Borsellino, per quale motivo dovrebbe farla vedere ad Ayala? E' evidente che fai vedere l'agenda se hai scritto un nome, se non c'è scritto niente che prova è che non hai visto una persona?
Tu puoi vedere tutte le persone di questo mondo e non scriverle nell'agenda, è se lo scrivi che lo fai vedere a una persona per testimoniare quello che le stai dicendo! Cose da matti, comunque questo è un altro rappresentante delle istituzioni folgorato e poi avviato rapidamente alla retromarcia.
Ma non è finita: a questo punto interviene il generale Mori che, non si sa se in un'intervista o in una notizia fatta trapelare all'agenzia “il Velino” dice: “Violante non si ricorda mica bene: non gli avevo proposto di incontrare Ciancimino a tu per tu, ma di farlo parlare in commissione Antimafia!”. Allora resta da capire come mai Violante non abbia accettato di convocare Ciancimino in commissione Antimafia visto che l'Antimafia convocava pure i pentiti di mafia, non è che potesse sottilizzare: se Ciancimino aveva qualcosa da raccontare perché non fargliela dire?
Ciampi e il suo telefono a Palazzo Chigi “manomesso”

A questo punto salta fuori l'ex presidente della Repubblica Ciampi, che ricorda che cosa successe a Palazzo Chigi: Ciampi è presidente del Consiglio nella primavera-estate del 1993 quando esplodono le bombe nel continente, a Roma, Milano e Firenze. E soprattutto, nella notte degli attentati alle Basiliche a Roma, mentre a Milano esplode via Palestro il 27 luglio del 1993, Ciampi ricorda il famoso black out nei palazzi del potere ma anche che “ero a Santa Severa in vacanza, rientrai con urgenza a Roma di notte, accadevano strane cose: io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra”. C'erano ancora le cornette, non c'era ancora ai livelli di oggi i cellulari. “Al largo della mia casa di Santa Severa, a pochi km da Roma, incrociavano strane imbarcazioni: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse il carcere lo volevano morbido”.
Ciampi, dopo quell'episodio, va a Bologna all'improvviso e il 2 agosto commemora a sorpresa la strage di Bologna ricordando il ruolo della P2, cosa che ricorda di nuovo in questa intervista a Repubblica nella quale dice anche che purtroppo su quei rapporti tra la P2, telefoni manomessi, black out eccetera non è stata fatta chiarezza.
Il giorno dopo, il procuratore di Firenze competente sulle stragi del 1993 interviene piccato: è Pier Luigi Vigna, già capo della procura di Firenze, già capo della procura nazionale Antimafia il quale dice: “noi abbiamo indagato tutto, non c'è più niente da indagare”. Il giorno dopo ancora dice: “la politica tace il nome dei mandanti occulti delle stragi”: insomma, dice due cose all'apparenza sembrerebbero contraddirsi ma soprattutto non si spiega per quale motivo scopriamo solo oggi che il telefono di Ciampi a Palazzo Chigi, il telefono personale del Presidente del Consiglio del 1993, la notte delle stragi era stato manomesso, gli hanno tolto una piastra, era intercettato probabilmente il capo del Governo! Da chi può essere intercettato il capo del governo che è anche il capo dei Servizi Segreti e che al largo della sua casa al mare “incrociavano strane imbarcazioni: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge sul carcere duro”.
Mettete insieme tutte queste cose, mettete insieme che Martelli, allora ministro della Giustizia dice: “lo Stato forse non trattava con la mafia ma rappresentanti dello Stato si”. E lo dice così, en passant, in un'intervista. E mettete insieme che Dell'Utri, beffardo, l'altro giorno rilascia un'intervista dicendo: “apprendo dai giornali che qualcuno avrebbe trattato con la mafia: sarebbe gravissimo se ciò fosse successo, bisogna assolutamente istituire una commissione parlamentare d'inchiesta per fare luce perché è orribile l'idea che qualcuno tratti con la mafia i tempi delle stragi. Cosa mi dice, signora mia?”. Dell'Utri dichiara in un'intervista.
Il cerino in mano

Voi capite che qui siamo di fronte a una classe politica e a un ceto dirigente dove anche l'ultimo degli uscieri sa cento volte di più di quello che sappiamo noi e di quello che sanno i magistrati. In Italia i cittadini e i magistrati sono come i cornuti, sono sempre gli ultimi a sapere, e voi vedete che questo giro, questa ristretta cerchia di persone si manda messaggi perché si è aperto qualche spiraglio, perché qualcuno sta cominciando a parlare. E se qualcuno sta cominciando a parlare, saranno squalificati come dice il Capo dello Stato ma del resto, se stiamo parlando di stragi, è ovvio che chi deve saperne qualcosa non può che essere persona squalificata, sarebbe meglio se i testimoni delle stragi fossero delle suore Orsoline, ma purtroppo queste delle stragi non ne sanno niente, è molto meglio che parlino i mafiosi o i figli dei mafiosi. Anche quella dichiarazione del Capo dello Stato sembrava tanto un invito a chiudere certe bocche.
Evidentemente, in questa ristretta cerchia c'è un sacco di gente che sa, che tace, che si manda messaggi trasversali perché comunque “io so che tu sai che io so”, e che sarebbe bene venisse fuori allo scoperto. Perché fanno così? Perché si mandano queste strizzatine d'occhio e queste rasoiate al curaro? Perché sanno che se la verità comincia a uscire, lo scarica barile andrà avanti fino a quando uno, l'anello più debole, verrà scaricato. Purtroppo in questa stagione i protagonisti sono tutti vivi, purtroppo per loro: ci fosse qualche bel morto a cui scaricare addosso le responsabilità l'avrebbero già fatto, ma tutti coloro che avevano queste responsabilità istituzionali sono vivi e si stanno buttando addosso l'uno sull'altro i cadaveri delle stragi del 1992 e 1993.
Teniamo gli occhi aperti e stiamo a vedere nei prossimi mesi chi rischia di restare col cerino in mano, perché chi rischia di restare col cerino in mano prima di bruciarsi magari parla.

PIERPAOLO PASOLINI - "SVILUPPO E PROGRESSO"


Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono “sviluppo” e “progresso”. Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che però si integrano facilmente fra loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni “opposti” fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano? Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica.Vediamo: la parola “sviluppo” ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”.
Chi vuole infatti lo sviluppo? Cioè, chi vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? E’ evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè sono gli industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo “sviluppo” (questo “sviluppo”). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”. La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.
Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato. Quando dico “lo vuole” lo dico nel senso autentico e totale (ci può essere anche un “produttore” che vuole, oltre tutto, e magari sinceramente, il progresso: ma il suo caso non fa testo). Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico.
Ora è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo.
Qual è stata la parola d’ordine di Lenin appena vinta la rivoluzione? E’ stata una parola d’ordine invitante all’immediato e grandioso “sviluppo” di un paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica………..Vinta la grande lotta di classe per il “progresso” adesso bisognava vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa, per lo “sviluppo”. Vorrei aggiungere però –non senza esitazione- che questa non è una condizione obbligatoria per applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un paese comunista contadino significa entrare in competitività coi paesi borghesi già industrializzati. E’ ciò che ha, nella fattispecie, ha fatto Stalin. E del resto non aveva altra scelta.
Dunque la Destra vuole lo “sviluppo” (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il “progresso”.
Ma nel caso che la Sinistra vinca la lotto per il potere, ecco che anch’essa vuole –per poter realmente progredire socialmente e politicamente- lo “sviluppo”. Uno “sviluppo”, però, la cui figura si è ormai formata e fissata nel contesto dell’industrializzazione borghese.
Tuttavia qui in Italia, il caso è storicamente diverso. Non è stata vinta nessuna rivoluzione. Qui la Sinistra che vuole il “progresso”, nel caso che accetti lo “sviluppo”, deve accettare proprio questo “sviluppo”: lo sviluppo dell’espansione tecnologica e borghese.
E’ questa un contraddizione? E’ una scelta che pone un caso di coscienza? Probabilmente si. Ma si tratta come minimo di un problema da porsi chiaramente: cioè senza confondere mai, neanche per un solo istante, l’idea di “progresso” con la realtà di questo “sviluppo”. Per quel che riguarda la base delle Sinistre (diciamo pure la base elettorale, per parlare nell’ordine dei milioni di cittadini), la situazione è questa: un lavoratore vive nella coscienza l’ideologia marxista, e di conseguenza, tra gli altri suoi valori, vive nella coscienza l’idea di “progresso”; mentre, contemporaneamente, egli vive, nell’esistenza, l’idea consumistica, e di conseguenza, ha fortiori, i valori dello “sviluppo”. Il lavoratore è dunque dissociato. Ma non è il solo ad esserlo.
Anche il potere borghese classico è in questo momento completamente dissociato: per noi italiani tale potere borghese classico (cioè praticamente fascista) è la Democrazia cristiana.
A questo punto voglio però abbandonare la terminologia che io (artista!) uso un po’ a braccio e scendere a un’ esemplificazione vivace. La dissociazione che spacca ormai in due il vecchio potere clerico-fascista, può essere rappresentato da due simboli opposti, e , appunto , inconciliabili: “Jesus (nella fattispecie il Gesù del Vaticano) da una parte, e i “blue-jeans Jesus” dall’altra. Due forme di potere l’una di fronte all’altra: di qua il grande stuolo dei preti, dei soldati, dei benpensanti e dei sicari; di la gli “industriali” produttori di beni superflui e le grandi masse del consumo, laiche e, magari idiotamente irreligiose. Tra l’ ”Jesus” del Vaticano e l’ “Jesus” dei blue-jeans, c’e’ stata una lotta. Nel Vaticano –all’apparire di questo prodotto e dei suoi manifesti- si son levati alti lamenti. Alti lamenti a cui per solito seguiva l’azione della mano secolare che provvedeva a eliminare i nemici che la Chiesa magari non nominava, limitandosi appunto ai lamenti. Ma stavolta ai lamenti non è seguito niente. La longa manus è rimasta inesplicabilmente inerte. L’Italia è tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta “chi mi ama mi segua” e rivestiti per l’appunto dei blue-jeans Jesus. Il Gesù del Vaticano ha perso.
Ora il potere democristiano clerico-fascista si trova dilaniato tra questi due “Jesus”: la vecchia forma di potere e la nuova realtà del potere………….

di Pierpaolo Pasolini da Scritti Corsari 1975

Contro il virus A/H1N1 (influenza suina) saranno distribuite 24 milioni di dosi di vaccino

La vaccinazione contro la nuova influenza prenderà il via in Italia il prossimo 15 novembre. La prima fase per mettere al tappeto il virus A/H1N1 "prevede l'immissione in circolazione di 8 mln di dosi, che saranno a disposizione a partire dal 15 novembre sino a tutto il mese di dicembre. Le altre 16 mln di dosi del vaccino saranno disponibili a partire dal 31 gennaio in poi".

Lo afferma, in una nota, Giuseppe Mele, presidente della Federazione italiana medici pediatri (Fimp). La strategia è stata tracciata nella riunione del Tavolo permanente delle cure primarie territoriali del 20 agosto scorso, come rende noto il comunicato sul sito della Fimp. "Il ritardo del picco - dichiara Mele - ha consentito anche di guadagnar tempo in attesa della produzione del vaccino specifico. L'offerta di tale vaccino è estremamente inferiore alla domanda. L'intenzione è quella di vaccinare il 40% della popolazione al di sotto dei 65 anni di età. La distribuzione a livello regionale terrà conto di tali percentuali e avverrà sulla base dei criteri di popolazione residente". "Il vaccino non sarà disponibile in farmacia - precisa Mele - Si è saputo inoltre che sarà privo di bugiardino e sarà multi dose, dieci dosi per fiala. Sarà un vaccino adiuvato con MS 59". Innanzitutto la vaccinazione verrà destinata "agli addetti ai servizi essenziali e, tra questi - spiega Mele - personale sanitario e di assistenza dei servizi sanitari accreditati (resterà fuori da questa prima fase il personale delle strutture private), le strutture socio sanitarie (case di riposo, Rsa), il personale dei Distretti sanitari, almeno il 90% dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, i medici competenti, gli addetti ai servizi amministrativi di supporto, il personale delle Poste italiane e della Telecom. Per queste categorie si prevedono un milione e mezzo di dosi di vaccino". Altre 7 mln di dosi verranno destinate alle persone "a rischio dai due ai 65 anni. Si è discusso ampiamente - spiega nella nota il presidente della Fimp - su quali siano le categorie a rischio. Il ministero emanerà una circolare esplicativa sulla base delle valutazioni emerse" nel corso del Tavolo di giovedì scorso. Intanto è allo studio "una scheda di registrazione unica per tutto il territorio nazionale". Gli altri 16 mln di vaccini "saranno indirizzati specificatamente alla popolazione tra i due e i ventisette anni, comprendendo quindi la popolazione sana, con modalità che dovranno ancora definirsi. Si è infine convenuto - aggiunge Mele - sull'aumento del 20% dell'offerta attiva per la vaccinazione antinfluenzale stagionale classica, estendendola a una popolazione più ampia rispetto alle categorie previste negli anni precedenti". E una raccomandazione a vaccinare prima le donne incinte, i lavoratori del settore sanitario e le persone con problemi medici cronici è arrivato dal comitato per la sicurezza della salute dei 27 Paesi dell'Unione europea. ''Una volta che questi primi gruppi prioritari sono stati vaccinati, la vaccinazione deve proseguire finché non vengono raggiunti gli obiettivi nazionali'', sottolineano ancora gli esperti dell'Ue.

da CorriereSalentino

Melpignano (LE), Blasi: “La Copersalento non può riaprire”

Lecce (salento) - Il sindaco di Melpignano, Sergio Blasi, non abbassa la guardia davanti al collega magliese. Poi ad Astore, primo cittadino di Poggiardo, suggerisce: “Basta lamentarsi, chieda all’Ato un impianto di compostaggio come faccio io da 3 anni”.

(Pierpaolo Spada) - Disputa senza tregua. Se il sindaco di Maglie Antonio Fitto fa di tutto pur di permettere la riapertura di Copersalento, il sindaco di Melpignano Sergio Blasi fa lo stesso pur di ostacolare la riaccensione dell’inceneritore temuto come un “cancro”. A tre giorni dalla revoca dell’ordinanza 42 del 24 marzo, con la quale il sindaco magliese aveva disposto a Copersalento l’immediata sospensione delle attività di combustione, Sergio Blasi prende carta e penna e scrive: “Non esistono i presupposti affinché la Provincia possa consentire a Copersalento la ripresa dell’attività”.

Un’uscita non sorprendente che coerentemente Blasi lega alla posizione di contrarietà assunta con ostinazione da tempo, soprattutto ora che l’ordinanza di Fitto riabilita la Copersalento per 4 mesi. A supporto della sua tesi, il sindaco di Melpignano premette le seguenti motivazioni: “L’ordinanza n. 134 del 21.08.09 emanata dal Sindaco Fitto, è condizione non sufficiente per consentire a Copersalento la ripresa dell’attività essendo necessaria anche l’autorizzazione da parte dell’Ente provinciale che, a suo tempo, aveva disposto il divieto di prosecuzione all’esercizio in regime di procedure semplificate accordando a Copersalento una fase sperimentale diretta a verificare il rispetto del limite di 0,1 ng. La fase sperimentale, tuttavia, si è conclusa con esito negativo per Copersalento che ha superato del doppio quel limite, come la stessa Asl e Arpa hanno confermato nella nota del 07.08.2009”.

E non è tutto. Blasi rafforza le sue osservazioni rilevando quanto contenuto nella nota della Asl dello scorso 14 agosto: “Una nuova situazione di criticità sanitaria potrà essere scongiurata solo se Copersalento è in grado di rispettare il limite imposto”. Il che non è accaduto, soprattutto quando, alla combustione, sono state destinate consistenti miscele di biomasse e rifiuti. Non è un caso infatti che sia stata la stessa ditta, lo scorso 21 aprile in prefettura, a chiedere l’autorizzazione a riaprire promettendo (la procedura semplificata) “bruciamo solo biomasse, così rispetteremo i limiti”. Fitto non è rimasto a guardare e dopo aver querelato Blasi, si è arrotolato le maniche e lavorato per ottenere la riapertura dell’impianto più contestato del Salento per il suo potenziale inquinante, purtroppo, già verificato. Nella sua ordinanza del 21 agosto elenca innumerevoli considerazioni e osservazioni, prima di concludere con la nota Asl del 18 agosto: “Al momento, non vi è pericolo per la salute pubblica nella ripresa dell’attività da parte di Copersalento, purché vengano rispettati i limiti di emissione fissati dalla Provincia di Lecce”.

Per Antonio Fitto, quindi, i forni possono tornare a far ardere i fusti. Anzi, occorre che il tutto parta subito. Per lui, sembra proprio non esserci altra priorità. Dal canto suo, Blasi tranquillizza i suoi cittadini, “non sarà certo questo carnevale fuori stagione giocato tra le parti – dice, con tanto di riferimento ai legami tra Fitto e Copersalento - a fermare questa battaglia”; non molla, e si rivolge ai 30 lavoratori impiegati nell’impianto in attesa di risposte. Ricorda loro di aver già chiesto al Consiglio provinciale che si dedicasse una seduta intera rivolta alla loro attuale condizione; ma, di fatto, spiega, nessuno si è mosso.

Poi coinvolge il presidente della Regione Vendola, con la richiesta di un monitoraggio costante sulla realtà-Copersalento al fine “di sottrarre il sindaco Fitto”, come dice, “gli ultimi spruzzi di una vecchia rivoltella ad acqua”. Dal rifiuto di accettare la riapertura di Copersalento al rifiuto di sentire ancora lamentarsi il sindaco di Poggiardo Silvio Astore. Blasi, al primo cittadino poggiardese che, praticamente ossessionato dalla presenza nel territorio di sua competenza del biostabilizzatore della Sud Gas, insiste nel chiedere a Vendola l’intervento, in sintesi, replica: si rivolga come ha fatto fino a oggi al presidente della Provincia e alle Ato controllate dal centrodestra, ma chieda, come faccio io da tre anni, un impianto di compostaggio in modo tale che non ci sia il bisogno di biostabilizzare l’umido e dunque di un biostabilizzatore a Poggiardo”.

da IlPaeseNuovo

Mario Lupo, 37 anni fa l'omicidio


Il 25 agosto ricorreva il 37esimo anniversario della morte di Mario Lupo, il giovane ventenne di Lotta Continua assassinato a Parma la sera del 25 agosto 1972 da un gruppo di neofascisti.
Per iniziativa del Comitato antifascista e per la memoria storica-Parma si è tenuta una manifestazione commemorativa martedì 25 alle 18.30 a Parma in viale Tanara di fronte all'ex cinema "Roma" dove avvenne l'agguato.
Ha parlato William Gambetta, ricercatore del "Centro Studi Movimenti".Mariano Lupo era un giovane operaio meridionale immigrato a Parma per lavoro.
Militava in una formazione della sinistra extraparlamentare. Come molti altri giovani suoi coetanei credeva in una società più giusta, di liberi ed uguali, in un mondo liberato dallo sfruttamento e dall’oppressione, e per questo si batteva.
La sera del 25 agosto 1972 fu assassinato, ventenne, in viale Tanara davanti all’allora cinema «Roma», da cui era appena uscito, con una pugnalata al cuore inferta da un gruppo di fascisti. L’omicidio, premeditato e organizzato, avvenne dopo una lunga serie di intimidazioni e minacce, nei confronti suoi come di diversi altri militanti della sinistra politica e sindacale, da parte di neofascisti legati all’estrema destra extraparlamentare e al Movimento Sociale Italiano; la stessa Questura di Parma parlava in proposito di «episodi non tra loro isolati ma che presentano le caratteristiche di un chiaro piano di provocazione ed intimidazione di chiaro stile fascista messo in atto dagli estremisti di destra con lo scopo di fomentare disordini».
I funerali, culminati con l’orazione in piazzale Picelli del sen. Giacomo Ferrari, partigiano «Arta», furono una delle più grandi manifestazioni svoltesi a Parma, parteciparono migliaia di giovani provenienti da tutta Italia e tutta la Parma popolare antifascista.
Al processo, che si concluse ad Ancona nel giugno ’76, gli autori dell’agguato, Bonazzi, Ringozzi e Saporito, vennero condannati rispettivamente a 14 anni e 8 mesi, 9 anni e 4 mesi, 6 anni e 3 mesi.

COMITATO ANTIFASCISTA E PER LA MEMORIA STORICA – PARMA

http://www.parmadaily.it/Notizie/Dettaglio.aspx?pda=CTT&pdi=24964

da Antifa

Giustizia non è fatta


La decisione della Corte Europea sulla morte di Carlo Giuliani è una sentenza pilatesca, un capolavoro di equilibrismo tra la necessità di difendere i principi che dovrebbero stare alla base della concezione del diritto nell'Unione europea, secondo i quali ognuno ha diritto ad un equo e celere processo; e dall'altra parte la ragione di Stato, o meglio, in questo caso gli interessi politici del governo italiano. Governo, non dimentichiamolo, che per la gestione del G8 genovese è stato già condannato sul piano politico dalle istituzioni di Strasburgo fin dalla relazione sui diritti umani votata dal parlamento europeo nel 2002. Governo che ha nominato capo dei servizi segreti Gianni De Gennaro, l’uomo che a Genova era responsabile dell'ordine pubblico e che oggi è sotto processo per istigazione alla falsa testimonianaza di un suo subalterno. Un governo che non poteva quindi assolutamente rischiare su un tema così sensibile, un nuovo pubblico processo su richiesta in particolare della corte europea.
Si dovrebbe dare per scontato che a prevalere debba sempre essere la ricerca della verità: ma non siamo ingenui e sappiamo bene che non sempre è così. Lo scontro tra i giudici deve essere stato duro se, come pare, il verdetto finale ha prevalso per 4 voti contro 3.
La sentenza vuole essere salomonica e invece non ha semplicemente il coraggio di affermare, fino in fondo, la verità; infatti la Corte ha stabilito che Placanica ha agito per legittima difesa, ma che avrebbe dovuto svolgersi un'inchiesta giudiziaria per valutare la gestione dell'ordine pubblico in quel contesto e le eventuali responsabilità.
La verità è un'altra.
La morte di Carlo come ormai chiarito anche dai processi genovesi, in particolare quello contro i 25 manifestanti in cui sono stati ricostruiti i fatti di quel maledetto 20 luglio, è stata la conseguenza di una gestione folle dell'ordine pubblico, delle due separate centrali di comando di polizia e carabinieri, del contrasto tra le due forze dell'ordine e dell'iniziativa «spontanea» di un capitano dei carabinieri che decise di attaccare il corteo del Carlini anche di fronte a diverse indicazioni provenienti dalla questura.
Ma l'assassinio di Carlo è stata innanzitutto la conseguenza della gestione politica dell'ordine pubblico, dell'autorizzazione «di fatto» data a tutte le forze dell'ordine di usare la forza oltre qualunque ragione e in contrasto con ogni regolamento, ogni legge e con la stessa Costituzione. I responsabili di tutto questo, non possiamo dimenticarlo, sono stati il governo Berlusconi di allora, i vertici di polizia,carabinieri e servizi e, in prima fila alcuni parlamentari di An «in visita» alla centrale dei carabinieri, primo fra tutti l'attuale presidente della Camera Gianfranco Fini, ora quasi un'icona per l'opposizione parlamentare.
La Corte Europea non ignora questi fatti e condanna l'Italia per non avere indagato la gestione e l'organizzazione dell'ordine pubblico, pur non richiedendo la celebrazione di un processo. Resta comunque un duro schiaffo per l'attuale governo, fotocopia di quello di allora.
Di fronte a questo quadro le dichiarazioni di Maurizio Gasparri appaiono l'ennesimo tentativo di manipolare la realtà. Il governo italiano è condannato e con lui anche la parte della magistratura troppo sensibile al potere politico, e che per autocensura evitò di compiere autonomamente il suo dovere come, per ora è ancora così, avrebbe dovuto fare.
La Corte invece giustifica Placanica riconoscendogli la legittima difesa: ho sempre sollevato, e non da solo, molti dubbi che a sparare sia effettivamente stato il carabiniere ventenne; più di un fatto fa ritenere possibile che a sparare sia stato, o sia anche stato, qualcuno di ben più in alto in grado e probabilmente con un'arma non di ordinanza.
Un sospetto molto forte che se riconosciuto degno di indagine avrebbe potuto coinvolgere personaggi molto altolocati e con importanti relazioni.
Un processo avrebbe potuto chiarire tutto questo e forse cancellare definitivamente lo scudo della legittima difesa dietro al quale si è nascosto, fin dai primi minuti dopo la morte di Carlo,il governo italiano.
La Corte Europea rinuncia a sollevare questo velo, evitando così di chiedere la celebrazione di un processo,unico strumento per la ricerca della verità.
I quarantamila euro riconosciuti alla famiglia Giuliani sono l'ultimo insulto ad una vita che continua a non essere lasciata riposare in pace nemmeno dopo la morte; la vita di un giovane prima ammazzato e poi, dopo la morte, ancora violato nel suo corpo con una pietra, come emerso dalla ricostruzione dei fatti.
No, Genova non è una pagina del passato, nessuna riconciliazione è possibile, la memoria di Carlo e di quelle giornate continuerà a vivere nella nostra memoria e nei nostri ideali. Continueremo a chiedere verità e giustizia.

di Vitorio Agnoletto ex portavoce del Gsf Genova 2001
da Il Manifesto

Raid omofobo, Qube in fiamme


Neanche il tempo di creare un osservatorio per contrastare la violenza omofoba, come stabilito dal sindaco Alemanno, che a Roma, ieri, si registra l’ennesimo raid. Solo il pronto intervento dei vigili del fuoco ha impedito che il Qube, locale in zona Portonaccio che il venerdì sera ospita la serata gay «Muccassassina», fosse completamente avvolto dalle fiamme.
Il blitz sarebbe avvenuto verso le 22,30 di martedì: gli attentatori hanno rotto il vetro della porta principale della discoteca e gettato all’interno liquido infiammabile. Il fumo è arrivato fino all’ultimo piano. Per fortuna lo stabile, chiuso per ristrutturazione in preparazione della stagione invernale, al momento del rogo era vuoto, gli ultimi operai erano usciti da pochi minuti. Gli assalitori, subito dopo aver dato fuoco, si sono dati alla fuga. Alcuni passanti hanno visto il piccolo incendio e chiamato immediatamente i vigili del fuoco, che hanno domato le fiamme in pochi minuti, limitando i danni alla struttura.
Ma se i gestori del Qube vanno cauti dicendo di «non poter mettere la mano sul fuoco sui colpevoli di questo attentato», la comunità gay e trans non ha dubbi sull’origine razzista e intimidatoria del gesto. «E’ la risposta dell'estremismo romano di destra all'arresto di Svastichella e alla generale condanna dell'omofobia» esclama Franco Grillini, presidente di Gaynet, che nota «un significativo silenzio del Vaticano» nel condannare queste aggressioni.
Non è la prima volta, comunque, che questa discoteca viene presa di mira da gruppi fascistoidi. L’anno scorso almeno due i pestaggi notturni a ragazzi appena usciti dal locale. Sempre il venerdì è facile sentire su via Portonaccio urlare «froci di merda» da auto che sfrecciano a tutta velocità. Ora il Mario Mieli, circolo omosex che si è inventato il Muccassassina, fa appello al prefetto, questore e forze dell’ordine di «perseguire con tenacia e fermezza gli attori di questi atti vandalici». «Sempre di più è necessario - aggiunge il Mieli - lo sforzo di tutti per un radicale cambiamento culturale che passa anche attraverso l’approvazione di leggi a tutela di gay». Proprio ieri Alemanno, in evidente difficoltà per la mancata sicurezza promessa in campagna elettorale, ha ribadito di voler procedere nella creazione di un osservatorio e «nella necessità di una legge». «Le dichiarazioni del sindaco hanno scatenato la reazione di quanti, nell'estrema destra, credevano di godere di copertura e impunità e invece si sono scoperti soli, decidendo di alzare il tono dello scontro dando fuoco al Qube», dice la deputata Pd Paola Concia, relatrice del ddl (ora in commissione giustizia della Camera) che prevede l’aggravante di intolleranza sessuale.
«Il centrodestra deve uscire allo scoperto - aggiunge la democratica - Ci deve far sapere se vuole appoggiare o meno questo provvedimento, nel frattempo ho già chiesto la calendarizzazione in aula al presidente Fini». Un ddl che è frutto di una mediazione. La comunità lgbt si batte per l’estensione del decreto Mancino all’omofobia, che includerebbe anche i reati di opinione e istigazione. «Non mi accontento di questo ddl - spiega Aurelio Mancuso, presidente dell’Arcigay - dopodiché se quella mediazione va in porto è un precedente importante».
Intanto nel movimento lgbt si ragiona su come provare ad arginare questa omofobia dilagante che a Vladir Luxuria fa respirare «lo stesso clima pesante della vigilia del nazifascismo, quando gli omosessuali venivano attaccati, insultati e picchiati da squadracce nere nei luoghi di aggregazione». Se le ronde gay vengono bollate come «idiozia», divisioni nascono sulla maggiore sorveglianza di alcuni «luoghi sensibili». «Le telecamere sono un deterrente per la nostra sicurezza, non servono a niente» spiega Andrea Berardicurti del Mario Mieli che dà appuntamento per il 12 settembre, alla notte bianca «Più cultura, meno paura» organizzata dal X municipio: «Invito tutta la comunità a parteciparvi in massa - conclude - Per dimostrare che non ci lasciamo intimidire da vili attacchi di chi ci vorrebbe silenziosi e invisibili».

di Giacomo Russo Spena da IlManifesto

Neofascisti in festa a Busto Arsizio con la benedizione del Ministro


Come ogni anno tra giugno e luglio il parco Colonia Elioterapica di Busto Arsizio ha ospitato "La Festa", una rassegna di concerti, esposizioni e manifestazioni sportive. L'evento, patrocinato da tutte le istituzioni locali, provinciali, regionali e addirittura dal "Ministero della Gioventù", è organizzato da Comunità Giovanile, la quale per festeggiare il suo ventennale, ha deciso per quest'anno di fare le cose in grande.
Comunità Giovanile, che da sempre si fregia di essere l'unica vera alternativa apartitica e apolitica del varesotto, è invece nota per le sue frequentazioni destrorse. Risale ad alcuni mesi fa una notizia che ha avuto risalto anche a livello nazionale, riguardante uno dei suoi massimi sostenitori (Tra l'altro capogruppo ex AN nel consiglio comunale bustese) nella cui abitazione furono rinvenuti cimeli del III Reich, indagato in quanto facente parte di un'associazione sovversiva (Nuovo Partito Nazista) smembrata dalle forze dell'ordine. E' noto inoltre in tutto l'alto milanese come la sua sede abbia sempre ospitato camerati e naziskin di tutta Italia, con feste e concerti a tema.Si ricordano diversi episodi spiacevoli che coinvolsero ragazzi non di destra o semplicemente colpevoli di portare i dreadlocks. Per avere un inquadramento chiaro dell'associazione è infine necessario citare le sue connessioni con realtà come Lega Nord, Compagnia delle Opere e CL, di cui molti associati fanno parte.
"La Festa" quest'anno, forse proprio in occasione del ventennale dell'associazione, ha voluto svelare alla comunità il suo orientamento. L'odierno clima politico nazionale permette anche questo: all'apertura dell'evento ha parlato il Ministro della Gioventù (carica il cui nome, modificato proprio dal governo Berlusconi, ricorda appunto l'approccio mussoliniano alle politiche sociali) Giorgia Meloni, a capo di Azione Giovani per diversi anni. E' certamente agghiacciante vedere un Ministro della Repubblica lodare un'associazione alla cui festa vengono esposte per la vendita, tra salamelle e raccolte fondi per l'Abruzzo, magliette stampate dagli amici di Casa Pound, inneggianti a concetti deliranti che molto si allontanano dal ruolo istituzionale che il Ministro in questione dovrebbe rivestire.
Rimane comunque un dato di fatto l'orientamento di Comunità Giovanile, che da sempre con imbarazzo tenta di camuffarsi per non mostrare quello che è, ovvero un'associazione "culturale" con connotazioni fascistoidi, e quindi da isolare e denunciare con ogni mezzo.

da Indymedia

Falcone non deve parlare

Dove sono i diari elettronici del magistrato morto a Capaci? Qualcuno potrebbe averli distrutti per cancellare le prove dell’esistenza di apparati deviati dello Stato.

La riapertura dell’inchiesta a Palermo e Caltanissetta sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra e sulle stragi del ’92 costringe a un esercizio della memoria. Tornando, appunto, a quell’anno terribile. «Questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone.
Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista Milella, li avevo letti in vita da Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi». Così parlò Paolo Borsellino nel corso di una manifestazione promossa da MicroMega presso la biblioteca di Palermo il 25 giugno 1992, poche settimane prima della sua morte. I diari di Falcone. Anche Giuseppe Ayala, altro pm del maxi processo, parla di questi scritti sempre nel giugno del 1992. «Aveva un diario, sul quale scriveva tutto. Tutto era riportato in un dischetto, perché Falcone scriveva sul computer. Che io sappia, soltanto io, forse una volta Paolo Borsellino, e probabilmente la moglie di Falcone, Francesca, eravamo stati messi a conoscenza dell’esistenza del diario. Non so se il dischetto è stato trovato e, se è stato trovato, naturalmente sarà stato letto e conosciuto. Nel caso in cui, invece, non sia stato trovato o sia stato smarrito, si è perduta l’occasione per ricostruire dalla fonte più autorevole quel che è accaduto intorno a Giovanni Falcone, dentro e fuori il palazzo di Giustizia di Palermo».

Il procuratore di Caltanissetta dell’epoca, Salvatore Celesti (diventato in seguito procuratore generale a Palermo), che indagava per competenza sulla strage di Capaci, in prima battuta negò l’esistenza dei dischetti, poi ammise in parte l’esistenza dei file: «Sono stati acquisiti alcuni dischetti nell’abitazione e negli uffici di Falcone, ora affidati a tecnici per la trascrizione. Il lavoro non è completo, ed è segreto. Se nei dischetti ci sono episodi privati non saranno da noi resi pubblici». Talmente segreti che vennero addirittura cancellati, cosa che in qualche modo già temeva Ayala, come si intuisce rileggendo con attenzione le sue parole. Cancellati da un portatile Toshiba, da un’agenda elettronica Casio in via Notarbartolo a Palermo, dai computer del ministero di Giustizia in via Arenula a Roma. Da chi? Della vicenda si occupò anche Gioacchino Genchi che testimoniò in seguito. Ecco cosa dice: «Dopo l’accettazione di questo incarico, in effetti, ho dovuto rilevare una serie di atteggiamenti estremamente diversi da parte del ministero dell’Interno - afferma Genchi -. (…) Tenga conto che io allora rivestivo l’incarico di direttore della Zona telecomunicazioni (…) e proprio dopo la strage mi era stato dato l’incarico, per coordinare meglio alcune attività anticrimine, presso la Criminalpol della Sicilia occidentale di dirigente del Nucleo anticrimine. Il dirigente dell’epoca, che sicuramente non agiva da solo perché si vedeva che era portavoce di volontà e decisioni ben più alte, in effetti non mi ha certamente agevolato in questo lavoro (…); siamo ritornati con la decodifica dell’agenda, ho ricevuto varie pressioni (…) fui trasferito, per esigenze di servizio con provvedimento immediato, (…) dalla Zona telecomunicazioni all’Undicesimo reparto mobile». Tornando al procuratore Salvatore Celesti, c’è da dire che la storia, nonostante la sua carriera, lo smentì clamorosamente. Il 23 giugno 1992 il procuratore si lasciò sfuggire una dichiarazione che all’epoca fece scalpore. Affermò, infatti, che secondo lui sulla strage di Capaci «non c’è più mistero per quanto riguarda il diario». E contemporaneamente c’era chi cancellava la memoria del Toshiba, alterava i dati sui computer al ministero e sottraeva la scheda di memoria dell’agendina Casio. Il sospetto emerse subito, la conferma, anche grazie alla perizia di Genchi, arrivò qualche anno dopo. Ma intanto qualcuno, L’espresso, aveva rivelato parte del contenuto di questi diari, in particolare i 39 punti di conflitto e di dissidio fra Giovanni Falcone e il procuratore capo Pietro Giammanco che mise il magistrato morto a Capaci nella condizione di abbandonare la Procura e Palermo. Si andava, questo raccontava il settimanale, dalla decisione di togliere al giudice assassinato la delega per le inchieste di mafia fino alla controversia che coinvolse Falcone dopo che il nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia degli appalti e che il procuratore capo sottovalutò e sminuì pubblicamente.

Torniamo a Borsellino e a ciò che disse in quello che è stato il suo ultimo intervento pubblico prima della strage del 19 luglio 1992 a via D’Amelio. «Ecco perché forse ripensandoci, quando Caponnetto diceva “cominciò a morire nel gennaio del 1988” aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare». Sembra quasi che oggi si presenti il conto di quanto avvenuto 17 anni fa. «Quando si parla di trattative, di presenza in via D’Amelio di uomini dei servizi, di servitori dello Stato infedeli, di agende rosse e di uffici del Sisde a Castel Utveggio - spiega Salvatore Borsellino, fratello di Paolo - in realtà si raccontano cose che già allora erano emerse ma che poi forse sono state fatte cadere». Come avvenne nel caso delle dichiarazioni del tenente Carmelo Canale, ex maresciallo dei carabinieri promosso tenente per meriti speciali e collaboratore di Paolo Borsellino. Nel 1994 rilasciò dichiarazioni esplosive. Fra le tante, ecco alcune battute indicative del clima e del personaggio: «Il dottor Falcone era molto agitato, aveva gli occhi di fuori, parlava con Borsellino. “Caro Paolo, il responsabile del fallito attentato all’Addaura era Bruno Contrada” (…) Io rimasi sconvolto e mentre scendevamo le scale chiesi a Borsellino chi fosse Bruno Contrada. Borsellino mi pregò di non parlare con nessuno di quell’episodio (…). Nel corso di una conversazione telefonica Borsellino mi disse che aveva appreso da Falcone dell’intenzione di Gaspare Mutolo di iniziare a collaborare. Fra le prime cose che aveva rivelato, Mutolo aveva parlato di episodi di corruzione inerenti il giudice Domenico Signorino e Bruno Contrada».

Successivamente, nel 1997, Canale, accusato da due pentiti di mafia, venne processato per associazione esterna, e poi in seguito assolto (nel 2008 la conferma). Anche sulle sue rivelazioni, e sulla sua vicenda, ci sono tante ombre, e come tante altre dichiarazioni dell’epoca tornano attuali. È sempre più evidente che, all’epoca, a Palermo due uffici dello Stato molto particolari, i Ros del generale Mario Mori e il Sisde di Bruno Contrada, agissero al limite della legalità e, a volte - è il caso di Contrada condannato - sfociassero in vera e propria collaborazione con la criminalità, in una sorta di continuità. La domanda è, oggi, se i due uffici agissero in concorrenza e all’oscuro ciascuno di cosa stesse facendo l’altro, oppure se su distinti punti si muovessero in convergenza. È certo, però, che senza la loro azione oggi si saprebbe molto di più di quello che avvenne fra il 1992 e il 1993, anno degli attentati a Firenze, Milano e Roma: i due anni delle stragi.

di Pietro Orsatti su Left-Avvenimenti da Indymedia

Fine pena per il Neo Fascista Gianni Guido, responsabile della strage del Circeo


Da ventiquattro ore è un uomo libero: Gianni Guido, uno dei tre responsabili della strage del Circeo, ha da ieri chiuso i conti con la giustizia italiana. «Fine pena 25 agosto 2009», è scritto sulla sua scheda del casellario giudiziario.

L'ormai 53enne ex ragazzo della borghesia romana che assieme ad Angelo Izzo e Andrea Ghira seviziò e uccise Rosaria Lopez e ridusse in fin di vita Donatella Colasanti in una villa del Circeo la notte del 30 settembre 1975, non ha più l'obbligo di dimora nella
casa dei genitori così come previsto dall'affidamento ai servizi sociali che il Tribunale sorveglianza gli aveva concesso l'11 aprile 2008.

http://www.unita.it/news/italia/87662/delitto_del_circeo_le_immagini_deg...

Massacro del Circeo. Il gioco macabro di tre "bravi ragazzi"

Il 29 settembre del 1975 prendeva corpo uno dei peggiori fatti di cronaca nera della storia italiana. Tre giovani neofascisti romani sequestrano e massacrano le diciassettenni Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, in quello che passa alla storia come “il massacro del Circeo”. di Cecilia Dalla Negra
UN GIOCO DA BRAVI RAGAZZI - Un promontorio isolato, che racchiude le acque del golfo di Gaeta, in provincia di Latina. Lazio, Italia, secolo scorso, ma di poco. È la noiosa fine d’estate del 1975 quando tre giovani di alto rango e dalle simpatie politiche destrorse, decidono di spezzare la routine alto borghese e viziata rendendo l’idilliaco panorama laziale - rifugio estivo della Roma bene – nel teatro di un massacro dalla ferocia inaudita. Che riempirà le cronache fra disgusto e rabbia, con i dibattiti scatenati fra gli intellettuali che litigano sulla natura più o meno politica di un atto di barbara violenza compiuto contro due ragazze inermi. Tra gli strascichi umani e processuali della vicenda ci sarà lo spazio in cui far entrare gli alterchi intellettuali, le divisioni politiche e le lotte femministe: su tutto, spiccherà una giustizia incapace di punire tutti i colpevoli, capace invece di rimetterne alcuni in libertà, lasciandogli la possibilità di compiere nuovi fatti di sangue. A colpire l’immaginario collettivo e indignare la pubblica opinione oltre alla violenza del gesto, gli artefici. Il massacro del Circeo passerà alla cronache per essere stato compiuto da tre “bravi ragazzi” dell’alta borghesia romana. I figli invidiati, gli studenti modello, che nascondono sotto abiti di marca realtà assai diverse. Un gioco violento il loro, per rompere quell’ozio e quella noia viziata che sono propri di chi nella vita non ha dovuto ottenere nulla, perché ogni cosa è dovuta. Anche il corpo di una donna – considerata niente più di questo – da seviziare, violentare e massacrare per interrompere il ciclo della noia di fine estate. Ma nel loro gesto atroce non scelgono due donne qualunque: Rosaria e Donatella sono due ragazze umili, figlie dell’emarginazione e del degrado di una grande capitale che dimentica le proprie estremità, le proprie appendici periferiche. È la lezione da dare quindi in quanto classe sociale dominante a chi deve sottostare per ceto e appartenenza. E se di genere femminile, ancora di più.
GLI AUTORI, LE VITTIME - Giovanni Giudo, Angelo Izzo e Andrea Ghira sono tre ventenni dall’aspetto rassicurante. Vestono elegante, hanno orologi pregiati ai polsi, macchine sportive e all’ultima moda. Forse un sogno di emancipazione per due ragazze di 17 anni che vengono dalla periferia romana fatta di quell’isolamento tanto caro a Pier Paolo Pasolini. Ragazze di borgata, di umili origini, che della vita hanno perso l’illusione del sogno ancora prima di cominciare. Rosaria Lopez nemmeno ha finito le scuole medie per occuparsi dei genitori anziani, con cui divide due stanze all’Ardeatino, giù al sud, lontano dal centro sfavillante della dolce vita. Donatella Colasanti è figlia di un impiegato e di una casalinga, ed è stata lei a conoscere i suoi aguzzini qualche giorno prima, al “bar del Fungo” all’Eur, fra un caffè e un aperitivo. Sono giovani, affascinanti, dall’aspetto affidabile. Solo all’apparenza però, perché dei tre Giovanni Guido, studente di architettura, è l’unico incensurato. Gli altri “fratellini”, come si chiamano fra camerati, sono compagni di giornate, scampagnate, rapine e stupri. Figli della Roma che conta, Angelo Izzo e Andrea Ghira sono famosi in città per la prepotenza che li caratterizza, e per passioni non propriamente convenzionali. Se il primo è in cura da uno psichiatra che gli diagnostica nevrosi maniaco-depressive, il secondo subisce una pericolosa fascinazione per tutto ciò che è discriminante: in casa sua verranno ritrovati busti di Hitler e Mussolini, scritti di Julius Evola che inneggiano alla supremazia della razza. Al liceo ha abbracciato la causa squadrista, ed ha fondato un gruppetto neofascista che teorizza la violenza e il crimine come forma di affermazione sociale. È lui il capo della banda, e si fa chiamare Jacques. Per non essere riconosciuto, certo, ma anche per la sua ammirazione verso quel Berenger, criminale marsigliese, che ha messo a segno rapine e sequestri su Roma proprio negli anni ’70. Ma non finisce qui. Perché Izzo e Ghira sono già noti alla polizia per aver compiuto rapine, sequestri di persona, violenze sessuali. Sono stati arrestati per stupro, ma sebbene condannati non hanno mai scontato un giorno di carcere. “Era prassi consolidata nel gruppo stuprare le ragazze”, ammetterà candidamente Izzo, durante un’ intervista recente. Le due prede che incontrano nel bar dell’Eur, poi, devono apparir loro particolarmente ambite, se oltre ad essere giovani donne sono anche parte di quella plebe che tanto disprezzano.
L’INCUBO - Iniziano così, fra i tavolini di un bar, 36 ore di incubo per Donatella e Rosaria, che culmineranno con la tragedia. I ragazzi danno loro appuntamento per lunedì 29 settembre alle 4 del pomeriggio. “Andiamo a una festa, ci divertiamo, vedrete” dicono loro, mentre le caricano sulla Fiat 127 di Guido. Parte la corsa verso Villa Moresca. Residenza estiva della famiglia Ghira, è una grande abitazione disposta su due piani, giardino, taverna, garage. Affaccia sul bel panorama dell’Isola di Ponza ed è isolata, immersa nel silenzio come ogni villa del Circeo. Un inferno, se sei stato sequestrato, perché nessuno può sentire le tue grida. Sono le 18.30 quando arrivano e, puntando le pistole contro le ragazze, le chiudono nel bagno. Per Giovanni Giudo c’è anche il tempo di tornare a casa, a Roma, e cenare con i genitori come nulla fosse. A vigilare sulle ragazze sequestrate resta Angelo Izzo, che le costringe a turno ad avere rapporti con lui. Sono le 23 quando rientra Guido, questa volta insieme a Ghira: sono drogati, e da questo momento inizieranno sevizie, violenze sessuali, percosse. Donatella approfitta di un attimo di distrazione, striscia fino al telefono, chiama il 113. “Mi stanno ammazzando” riesce a dire, prima che una spranga di ferro le colpisca la schiena. Sente le grida di Rosaria che arrivano dalla stanza accanto, come se qualcuno la stesse affogando. Ed è proprio quello che stanno facendo, perché Rosaria Lopez, 17 anni, dopo le violenze subite viene annegata nella vasca da bagno. Donatella riuscirà a salvarsi solo fingendosi morta. È a questo punto che i tre chiudono i corpi dentro due sacchi di plastica, nascondendoli nel baule della macchina con cui erano arrivati. Sono le 21 di martedì 30 settembre, il supplizio delle ragazze è andato avanti per 36 ore. Rientrano a Roma, parcheggiano l’auto nei pressi di via Nomentana e cercano una pizzeria. Come non avessero massacrato e violentato due ragazzine sino a quel momento. Come non ne avessero nascosto i cadaveri nella propria auto. Ma Donatella è viva, e si fa sentire. Un metronotte, richiamato dai suoi lamenti, la trova agonizzante e coperta di sangue nella notte inoltrata: in quel bagagliaio, accanto al cadavere dell’amica, c’è rimasta quasi tre ore. Le immagini del ritrovamento faranno il giro del mondo, e lasceranno l’Italia attaccata allo schermo di una tv in bianco e nero, che quel sangue e quella violenza li lascia solo immaginare.
L’ITER GIUDIZIARIO - Gianni Giudo e Andrea Izzo vengono arrestai poche ore dopo il ritrovamento di Donatella Colasanti. Ghira inizialmente non è neanche indiziato, e nei lunghi anni del processo non verrà mai catturato. Conosciuti dalle forze dell’ordine per i precedenti, i “bravi ragazzi” vengono mandati in primo grado nel luglio del 1976. Mentre i primi due vengono accusati di omicidio pluriaggravato e condannati all’ergastolo, Ghira è fuggito. Arruolato nel Tercio, dicono, la Legione straniera spagnola, da cui sarebbe poi stato espulso nel 1994 per abuso di droga. Morto di overdose e sepolto nel cimitero di Melilla, con il falso nome di Massimo Testa de Andres. Almeno questo è quello che sostiene l’esame del Dna effettuato sul cadavere riesumato nel 2005. Non è quello che sosteneva invece Donatella Colasanti, parte civile al processo, che ha continuato a denunciarlo per anni senza ascolto: “Ghira non solo è vivo, ma abita ancora a Roma”. La Cassazione, nel 1981, confermerà le condanne per Izzo e Guido. La loro storia però sarà costellata, da questo momento in poi, da tentativi di evasione più o meno riusciti, che porteranno addirittura Izzo a uccidere ancora. Ottenuto il regime di semilibertà nel 2001, nel maggio 2005 ucciderà la compagna Maria Carmela Limucciano e sua figlia Valentina, di 14 anni. Un “errore” della giustizia, come tanti altri. Forse più grave, se si tiene conto della ferocia con cui si erano mossi i colpevoli di questo terribile caso di cronaca nera. Che sarà capace di scatenare dibattiti intellettuali sulle colonne dei giornali, tra firme come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini. E la cui vicenda giudiziaria sarà accompagnata dai movimenti femministi, anche loro costituitisi parte civile al processo contro gli aguzzini. Un processo condotto e vinto dall'avvocato Tina Lagostena Bassi, portavoce dei diritti delle donne calpestati dalla violenza maschile.
EPILOGO TRISTE - Donatella Colasanti è sopravvissuta alle violenze di quel giorno, ma non al loro ricordo. Una donna distrutta, rovinata, che se n’è andata silenziosamente nel 2005, dopo una lunga malattia. Continuando a chiedere che venisse fatta giustizia, con quella morte negli occhi che appartiene solo a chi la morte l’ha sfiorata, e l’ha vista da vicino. Difficile pensare di poter dimenticare, nel corso di una vita, violenze tanto gravi che sono state subite. Ancora più difficile se nella consapevolezza che a muoverle fu la bestialità di ragazzini arroganti e annoiati, che sotto le camicie inamidate nascondevano un’identità per troppo tempo impunita di violenti criminali.
Cecilia Dalla Negra
http://www.fondazioneitaliani.it/index.php/Massacro-del-Circeo.-Il-gioco...

da Indymedia

Orrendo editoriale di socialismo rivoluzionario

Leggete l'articolo qui sotto, firmato Barbara Spampinato ed intitolato: "Contro la miseria della politica" (editoriale de La Comune 131).
A me viene da parlare della miseria di Socialismo Rivoluzionario, sedicente organizzazione libertaria (in verità, strutturata in senso assolutamente verticale).
Perché - sia pure in un passo fugace - anche a questi non è sembrato vero di poter strumentalizzare una vicenda tragica come lo stupro di una ragazza.
Se in alcuni blog femminili si criticavano gli organizzatori della Mayday non per una presunta responsabilità nell'accaduto, ma per il loro successivo comunicato (la critica era: la preoccupazione di difendere la manifestazione dagli sciacalli prevale sulla solidarietà nei confronti della ragazza), sul sito di socialismo rivoluzionario si entra invece nella logica dell'uso per propri fini della vicenda.
Sì, perché quel che si vuole suggerire è che le logiche politiche sono uguali dappertutto: che gli organizzatori della Mayday sarebbero addirittura affini a Hu Jintao che reprime le minoranze in Cina.
Per fortuna - continuano i nostri "amici" - ci siamo noi che siamo fuori dalla politica (cosa tutta da dimostrare) e che siamo liberi da ogni peccato.
Ma, a me pare che questi le tecniche della peggiore politica le conoscono molto bene...
Peter Punk

Contro la miseria della politica

un impegno di valore
La politica in crisi esprime una decadenza morale senza precedenti. In testa Berlusconi, al centro di squallide vicende di cronaca. Ma il caso non riguarda solo il partito di governo e non è solo italiano. La scenografia posticcia del G8 mostrava il Gran Sasso innevato, dato che le macerie del terremoto avrebbero testimoniato troppo crudamente le responsabilità delle istituzioni statali nella devastazione aquilana. I potenti della Terra, riunitisi incuranti delle migliaia di persone che chiedevano verità e giustizia per le vittime del sisma, non hanno risolto alcunché nella crisi iraniana: ma come aspettarsi altro se del G8 è degna parte la Cina, il cui premier si allontana dal vertice per organizzare la repressione di migliaia di donne ed uomini nel suo paese? Quali differenze qualitative vi sono fra il regime cinese che massacra con i carri armati e quello iraniano che reprime ed impicca oppositori? Ambedue sono nemici dell’umanità, come il resto degli Stati chiamati a raccolta, inclusi quelli democratici, particolarmente ipocriti nel coprire la propria naturale immoralità.

Ciò che viene a nudo è la tipica doppia morale della politica: si predica “bene” nel pubblico e si stupra nel privato, e ciò avviene nei Palazzi di governo come è avvenuto anche in una piazza “antagonista”, quella del May-day di quest’anno; ci si fa di coca nei festini e si appare in doppiopetto nelle occasioni ufficiali; e mentre si parla di pace, si massacra in Afghanistan, perché all’origine della politica c’è la guerra di cui gli Stati non possono né potranno fare a meno. La radice inestirpabile dell’immoralità della politica è infatti la pratica e la logica di guerra che disprezza la vita umana. Da lì al disprezzo delle donne da comprare o da violare, degli immigrati da uccidere ed espellere, delle migliaia che muoiono sul lavoro senza che questo susciti in chi governa il minimo scrupolo il passo è breve, ed è stato da tempo irreparabilmente compiuto. La Chiesa, che anche recentemente ha tuonato contro l’immoralità della politica, solleva una questione morale come se non vi fossero ampi settori del clero coinvolti in abituali ed impunite violenze contro donne e minori, solo per fare l’esempio più eclatante. Tante persone, di diversa formazione ed ispirazione, sono comprensibilmente disgustate dall’orrido spettacolo che è la politica, senza che necessariamente questo motivi una reazione positiva o una ricerca alternativa. Forse, allora, proprio interrogandosi su ciò che è al fondo della questione morale, si può comprendere che in discussione è lo stesso DNA della politica e di ogni potere oppressivo, incompatibile con il bene vero e profondo delle donne e degli uomini. Come si svolge la ricerca del bene cui tutti tendiamo quotidianamente riguarda direttamente noi, donne ed uomini, poiché il bene più prezioso è la vita stessa di ciascun essere umano e su questa terra, ed il suo miglioramento. L’impegno per affermare la vivibilità contro l’uccidibilità, dunque per preservare e migliorare la vita verte per noi, come umanisti e socialisti, rivoluzionari e libertari, attorno ad una centralità etica: per questo è un impegno umano ed ideale, non politico. È una ricerca di bene in libertà in cui scegliamo di cominciare da quelli che per la politica e spesso anche per le religioni, al di là delle parole, sono gli ultimi: donne e bambini, immigrati e persone che lavorano, chi sceglie di vivere diversamente e dunque prova a reagire anche all’immoralità del sistema, guardando all’assieme della nostra specie e cercando di prendere le mosse dalle sue migliori qualità per incrementarle. Ogni politica è intrisa di miserie e disvalori: i veleni si chiamano Pacchetto sicurezza, stragi impunite, ed in molti altri modi. Un impegno per cambiare la vita deve basarsi su valori che ci aiutino a realizzare al meglio la nostra umanità e dunque a viverla nella libertà e per il bene, per la bellezza e con la giustizia che possono esprimerla nella sua pienezza. Un impegno di valori può dunque essere un impegno di valore, in cui il valore delle persone e delle idee può enormemente accrescersi.

19 luglio 2009 Barbara Spampinato

da Indymedia

Omicidio, non catastrofe


Le reazioni degli eritrei in Libia alla notizia della tragedia che ha colpito i loro 75 connazionali morti nel tentativo di raggiungere l'Europa

''Caro, hai saputo della tragedia? 75 eritrei sono morti... ANSA, che Dio li benedica! Buona notte''. Con questo sms, il 20 agosto alle 23:04 un amico eritreo a Tripoli mi informava dell'ultima strage nel Mediterraneo. Lui su quella barca aveva un'amica. Una ragazza di nome Adada, il cui nome compare nella lista dei morti. Era una cara amica. Per questo si era interessato dall'inizio della sorte di quel gommone.E si è fatto un'idea precisa: ''Non è stato un incidente in mare, è stato un omicidio''. Lo scrive in una mail spedita a mente fredda, due giorni dopo, dopo aver controllato le notizie sui siti in lingua inglese. ''Nell'era della tecnologia una barca così grande non può sfuggire agli occhi d'aquila che pattugliano ogni angolo di questo mondo''. I primi giorni dopo la partenza, avvenuta all'alba del 28 luglio, tra gli eritrei a Tripoli si diffuse la notizia che il gommone era arrivato a Malta. I dallala, come sono chiamati in lingua tigrigno gli intermediari, ovvero gli organizzatori dei viaggi, avevano detto di aver ricevuto una telefonata col satellitare la sera del 29 luglio, in cui i passeggeri dicevano di vedere le luci di Malta. Ma che qualcosa era andato storto lo capirono subito. Selamawi - lo chiameremo con questo pseudonimo - aspettò invano una telefonata dai centri di detenzione di Malta. Passava ore negli internet point della capitale libica per cercare notizie sugli sbarchi e sui respingimenti.

Fino a metà agosto, quando iniziò a circolare un'altra versione dei fatti. Nella comunità degli eritrei in Libia c'era chi diceva che il gommone avesse lanciato un sos e che metà dei passeggeri fossero morti, altri invece dicevano che il gommone era stato respinto in Libia dagli italiani. Ogni verifica però era impossibile perché il telefono satellitare era scarico. In questo rincorrersi di voci e ricostruzioni, la notizia della strage il 20 agosto ha seminato il panico tra la comunità eritrea. "Gli stessi intermediari sono terrorizzati". Nessuno riesce a farsi un'idea di come il gommone possa essere stato abbandonato in mezzo al mare per tre settimane. Nemmeno a Tripoli esiste una lista delle vittime. Le partenze sono tenute segrete, per motivi di sicurezza. A volte chi parte non informa nemmeno gli amici fidati e i parenti. E i dallala non vogliono che in giro si facciano troppe domande sui loro affari. Inoltre il periodo non è dei migliori. Il ramadan è appena iniziato e i poliziotti approfittano delle retate per arrotondare lo stipendio. "In Libia i rifugiati eritrei sono usati come moneta di scambio. Ci valutano in dollari americani - dice Selamawi -. I poliziotti cercano sempre soldi. Ti sequestrano quello che hai quando ti arrestano, e poi si fanno pagare per lasciarti andare. Il prezzo di un'evasione va dai 500 ai 900 dollari".

Eppure l'Italia sostiene che la Libia sia in grado di accogliere i rifugiati del Corno d'Africa che si imbarcano dalle sue coste. Forse il premier Berlusconi dovrebbe approfittare della visita a Tripoli il prossimo 30 agosto per incontrare i rifugiati eritrei detenuti dal 2006 a Misratah. Oppure i rifugiati somali detenuti a Benghazi, sei dei quali sono stati recentemente uccisi dalla polizia durante una sommossa. I rifugiati detenuti a Benghazi non sapevano niente della strage in mare dei 73 eritrei. Li ho raggiunti telefonicamente. ''Che tragedia!'', è il loro commento a caldo. Dello sbarco dei 57 eritrei ieri pomeriggio invece dicono ''Finalmente una buona notizia!''. Già perché il sogno di tutti è andar via. E ottenere il riconoscimento dell'asilo politico per rifarsi una vita, anche a costo di attraversare nel Mediterraneo sfidando la morte. Selamawi ne è certo: ''Nessuno sa esattamente quando, ma tutti qui aspettano il giorno in cui tutte queste sofferenze avranno fine e tornerà la libertà!".

Gabriele Del Grande da PeaceReporter

Sempre più isolati


Il governo israeliano più duro con chi vuole viaggiare in Palestina

Il governo israeliano ha recentemente adottato nuove procedure relative all'ingresso nel Paese di cittadini provenienti da paesi occidentali. Sono stati segnalati molti casi di persone provenienti dal ponte di Allenby, alla frontiera con la Giordana, che hanno ricevuto un timbro sul passaporto recante la dicitura 'solo Autorità Palestinese'.

Questa procedura, istituita dal Ministero degli Interni, limita l'accesso ai soli Territori Palestinesi sotto il controllo totale o parziale dell'Autorità Palestinese (rispettivamente chiamati Area A e B) che corrisponde a circa il 60 percento della Cisgiordania, in quanto il restante 40 percento (o Area C) è sotto il totale controllo israeliano. In pratica vieta l'ingresso a Gerusalemme, Gerico e alle colonie israeliane oltre la Linea Verde riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Le implicazioni di tale decisione sono molteplici. Innanzitutto la violazione degli accordi di Olso 2 (1995), i quali precedevano che i ''cittadini di paesi che intrattengono relazioni diplomatiche con Israele sono ammessi in Cisgiordania e Striscia di Gaza con un regolare visto israeliano e un passaporto valido''.
Tale accordo era già stato messo in pericolo dalla decisione presa dal governo israeliano nel 2006 di abolire la regola decennale che permetteva a cittadini stranieri di visitare, vivere e lavorare in Cisgiordania con visti turistici rinnovati ogni tre mesi. In seguito ad una campagna internazionale contro simili restrizioni la decisione fu rivista e sostituita, nel marzo 2007, da una nuova restrizione: l'entrata in Cisgiordania era condizionata dal consenso del comandante militare.

Queste misure entrano in contraddizione non solo con i cosiddetti accordi di pace, ma anche tra loro: nel caso recente si nominano i territori sotto il controllo dell'Autorità Palestinese, mentre nei precedenti si nominava in modo generale la Cisgiordania. Il criterio di applicabilità non é chiaro a nessuno: tutto é rimesso alla discrezione del funzionario di frontiera.
La confusione deriva anche dal fatto che un permesso limitato al transito nelle aree A rende di fatto impossibile spostarsi da una città palestinese all'altra in quanto queste sono ormai ridotte a zone isolate, separate da zone a controllo militare israeliano, bypass roads (proibite ai palestinesi), colonie e zone di sicurezza. In pratica, per andare da Betlemme a Ramallah, essendo in possesso del visto 'solo Autorita' Palestinese' si dovrebbe volare o scavare un tunnel per non solcare clandestinamente il suolo israeliano. Anzi, neanche volare visto che lo spazio aereo, quello marittimo e i confini sono sotto controllo del governo di Netanyahu.

Anche il quotidiano israeliano Ha'aretz ha cercato di fare luce sulla questione, ma i funzionari del Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori (Cogat), una volta interpellati, hanno replicato che i visitatori dovranno rivolgersi all'Amministrazione civile per richiedere i permessi di entrata nell'area A. Il Ministero degli Interni ha rimandato la chiarificazione in merito all'accesso all'area B ai comandi militari. Il portavoce dell'esercito ha rimandato al Minsitero della Difesa, il quale a sua volta ha rimandato al Cogat, che ha rimandato invece al Ministero dell'Interno. La patata bollente gira tanto quanto un turista occidentale che vuole visitare Nablus e Hebron.

Lo stesso Ministero degli Affari Esteri israeliano ha criticato i colleghi degli Interni sostenendo che tali procedure danneggiano l'immagine di Israele all'estero. La reazione dell'amministrazione Usa non si sono fatte attendere: ''Ci aspettiamo che tutti i cittadini degli Stati Uniti d'America siano trattati in modo equanime, indipendentemente dalla nazionalità d'origine o da altre cittadinanze possedute''. Alcune ambasciate europee stanno considerando l'idea di interpellare il Governo di Tel Aviv al fine di ottenere delucidazioni in merito all'applicazione delle direttive in palese contrasto con gli accordi siglati nel 1995.
Il quotidiano israeliano Ha'aretz sta seguendo da vicino gli sviluppi della vicenda, attraverso la nota Amira Hass, giornalista che spesso riporta notizie scomode in prima pagina, e non é da meno il Jerusalem Post, che enuncia le motivazioni indicate dai vertici del Ministero degli Interni: ''assicurarsi che individui che potrebbero porre a rischio la sicurezza non posssano circolare liberamente in Israele".
Numerose le proteste delle associazioni, dei mezzi d'informazione alternativa, blog e liberi pensatori i quali hanno espresso con parole a volte dure la condanna alle nuove misure adottate al valico di Allenby.

Già dall'inasprirsi della Seconda Intifada nel 2000 il governo israeliano aveva reso più selettivi i permessi rilasciati a turisti, attivisti, uomini d'affari e familiari di palestinesi che volevano recarsi in Cisgiordania. Il Jerusalem Post riferisce che i permessi rilasciati ai confini della Striscia di Gaza sono ai minimi storici dall'evacuazione delle colonie voluta nel 2005 da Sharon.
Anche i volontari che si trovano in Palestina hanno notato un inasprirsi dei controlli. S. Ha dovuto interrompere gli studi in quanto non ha ottenuto un visto di studio per l'Universita' di Betlemme. N ha ricevuto in un primo tempo un visto di tre mesi all'aeroporto di Ben Gurion, diminuito poi a 1 per un capriccio della poliziotta di frontiera, essendo cosi' obbligata a recarsi al Ministero degli Interni a presentare domanda di rinnovo e incorrere in minuziosi controlli. S e R sono entrati da Allenby e hanno ottenuto 3 mesi di visto geograficamente "illimitato" solo affrontando l'interrogatorio e mostrando la prenotazione del volo di ritorno in Europa. S, che appartenva all'International Solidarity Movement (Ism), si è visto negare l'entrata alla frontiera di Taba (Egitto / Israele) senza nessuna motivazione valida. J, palestinese di passaporto statunitense, aspettava da tutta la vita di conoscere la famiglia che vive a Hebron e che non aveva mai visto: rispedita a casa direttamente dall'aeroporto Ben Gurion: i funzionari di frontiera hanno addotto motivi di visto inesistenti in quanto cittadina Usa.

A, sposato con una palestinese padre di una bimba di 3 anni, é costretto a rinnovare il visto a ogni scadenza entrando e uscendo a spese sue. S, nella stessa situazione, vive invece in Cisgiordania col visto scaduto da ben 4 anni.
I caschi bianchi in servizio nei Territori avranno vita dura nel 2010: arrivati al Ben Gurion dovranno girare la roulette e sperare che esca niente di meno che il doppio zero verde. In caso contrario si giocherebbero la permanenza in Palestina, la possibilità di muoversi, nonché il servizio civile, un'esperienza unica e talmente intensa da cambiare la vita.
Bisogna poi ricordare che nelle scorse settimane é stata approvata la legge che istituisce il reato penale di immigrazione clandestina, il quale prevede nei casi più gravi anche la reclusione. C'é anche da chiedersi se, nel caso in cui i volontari col visto 'solo Autorita' Palestinese' venissero fermati ad esempio tra Jenin e Ramallah, incorrerebbero in questa neo norma voluta da Liebermann, Ministro degli Affari Esteri ed esponente di estrema destra, in quanto sprovvisti di regolare visto turistico.

di Ines Gramigna casco bianco del progetto Go'el in Palestina, con l'Associazione Papa Giovanni XXIII
da PeaceReporter