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venerdì 4 settembre 2009

Nardò: nuova giunta?


La telenovela di Palazzo Personè potrebbe giungere ad un epilogo. Il sindaco Antonio Vaglio nel pomeriggio, alle 18, incontra tutti i consiglieri di maggioranza senza i segretari e senza il gruppo consiliare di Città Nuova per richiedere loro i nomi degli assessori e varare la nuova giunta. Secondo le prime indiscrezioni il nuovo esecutivo dovrebbe essere composto da sedici consiglieri più il Primo cittadino La notizia giunge quasi in concomitanza con l’appello del segretario provinciale del PD Salvatore Capone e della segretaria cittadina di Nardò affinchè il Sindaco ritiri immediatamente le sue dimissioni. Queste le loro parole: “È giunto il momento che il Sindaco Antonio Vaglio continui a guidare la città di Nardò e lo invitiamo a ritirare le dimissioni.L’attività amministrativa sin qui svolta a favore della città e dei suoi cittadini, l’impegno futuro con i conseguenti progetti da realizzare indurranno, ne siamo sicuri, il Primo Cittadino a tornare sui suoi passi ritrovando nuova forma e motivazione nell’azione di governo che potrà sviluppare una nuova maggioranza”.

I miei rave erano suoni e sogni


Guarda il Video - http://espresso.repubblica.it/multimedia/home/7341956

Le feste illegali come espressione di libertà. Tribù che vivevano sui camion attraversando l'Europa e occupavano fabbriche con musiche e luci. Il racconto anonimo di uno dei pionieri di quella stagione. Mentre ora dominano spaccio e business

Adesso quando si parla di rave è solo questione di cronaca nera: notizie drammatiche, ragazzi che muoiono per overdose o per una pasticca avvelenata. Un tempo il rave era altro:quello che ne resta è solo il contorno marcio che negli anni è cresciuto ai margini, fino a fagocitarlo e distruggerlo. È per questo che ho accettato di raccontarlo: un tempo parlarne sarebbe stato un tradimento. La sua forza è sempre stata l'alone di mistero che lo circondava e lo rendeva impalpabile al modo esterno. Adesso questo non serve più, anzi, penso che per tutte quelle persone che come me ci hanno creduto, che più di me li hanno fatti nascere e crescere, sia giusto distaccarsi dalla degenerazione di oggi. Non trovo più quella coscienza che gli dava ragion d'essere, che rendeva i free party non solo un'occasione di ballare e sballare, senza limiti e senza regole: adesso vedo situazioni dove qualcuno si può arricchire, trasformandole solamente in business.

Quando tredici anni fa ho conosciuto i rave party ero poco più che adolescente, in un mondo un po' più accessibile ai ragazzi di quanto lo sia oggi. Che lasciava più libertà e più possibilità di espressione. Non era ancora nata la stagione dei divieti, della guerra alla movida e della demonizzazione di ogni divertimento giovanile. Il rave era distante da tutto: totale distacco dal sistema in cui viviamo, senza cercare di combatterlo ma neanche di confrontarsi con le sue regole. Lo si capiva già dalla scelta degli spazi. Riportava la vita in quegli edifici diventati fantasmi: i luoghi dove in passato i lavoratori smettevano di essere persone e venivano usati come ingranaggi. Fabbriche abbandonate, capannoni industriali ridotti a scheletro, senza più il cuore meccanico, pulsante, produttivo.

Lì volevamo andare, per l'enorme disponibilità di spazio, per l'acustica particolare, per la possibilità di crearci dentro un altro mondo fatto di persone, musica, cani. Al centro, come fosse un nuovo cuore, c'era il sound system: un muro di casse potente migliaia di watt. Il resto sorgeva come d'incanto. Spuntavano fontane di fiamme e giocolieri che illuminavano il buio con il fuoco, installazioni meccaniche colossali e performance che contaminavano tutte le arti. Questo magma partoriva la Taz, acronimo inglese per 'zona temporaneamente autonoma', totalmente libera. Per un periodo da tre a sette giorni nasceva un altro universo, con i suoi equilibri. Equilibri che percepivi solo vivendoci dentro. E una sola regola dominante: 'La festa sei tu!'.


Era l'espressione di una nuova cultura: quella dei traveller, un movimento nato in Inghilterra alla fine degli anni '80. Persone che le feste le organizzavano, le facevano muovere di paese in paese, di cultura in cultura. Spostando generatori, impianti audio, video, strutture meccaniche; viaggiando su veicoli militari, vecchi camion e autobus trasformati in case o magazzini mobili. Tutto questo era una tribe: una comunità di persone, cani, bambini, che viveva su quei mezzi e si spostava come fosse un circo, in carovana. Ognuno aveva un suo ruolo: chi suonava, chi costruiva le casse, chi montava l'impianto del suono, chi riparava i camion, chi creava le performance. Non esisteva il profitto. Tutti i ricavi, quelli degli alcolici venduti nei giorni del party e quelli delle droghe, servivano solo per vivere: per viaggiare, organizzare altre feste, migliorare le attrezzature.

Le tribe si spostavano in continuazione per tutta Europa e talvolta anche oltre, coinvolgendo sempre più persone, creando sempre più Taz. Così altre tribù sono entrate in contatto inventando i teknival, la massima espressione di questa stagione: enormi feste che fondevano un miscuglio di giovani diversi fino a farne un'unica cosa, legate dallo stesso spirito anarchico ma non ideologico, dalla musica di più sound system. Intorno, fuori, lo stupore: l'impossibilità di bloccare questo movimento. La polizia? Era confusa, impreparata. Quando una pattuglia fermava quella carovana, si scatenava il caos. Una confusione senza violenza, semplicemente disarmante. Dai camion scendevano in massa ragazzi vestiti di nero, coperti di tatuaggi e piercing, con moltitudini di cani: c'era chi cominciava a mettere musica, che parlava inglese, francese, spagnolo, ceco, italiano. Quei camion avevano targhe e documenti di altri paesi, forse falsi, impossibili da controllare. Un incubo per gli agenti d'ogni nazionalità che preferivano lasciarci passare. Tanto - pensavano - finché rimangono ai margini, finché stanno lontani dal sistema civile che fastidio danno?
Questo caos era libertà: di spostarsi, occupare temporaneamente spazi inutilizzati e anche di far girare sostanze stupefacenti. Droghe che venivano prese in Olanda, in Inghilterra, alla fonte, là dove venivano fabbricate e non ancora manipolate. Si vendevano a prezzi politici, la qualità era garantita e a nessuno conveniva tirare pacchi: avresti perso rispetto e credibilità. Non era permesso ad esterni di venire a fare il proprio business, mettendo in circolazione acidi sballati, ecstasy tagliata male. Eroina e cocaina restavano fuori. Infatti in Campania la camorra ha vietato subito i rave, sparando contro i camion, per non vedere crollare il suo monopolio e i suoi prezzi.

I luoghi venivano scelti con attenzione: fabbriche senza più proprietari che potessero sporgere denuncia, lontane dai centri abitati, senza ambienti pericolanti. Poi si organizzava la festa. All'inizio il Web non esisteva. Le informazioni giravano a voce o attraverso i flyer: manifestini che venivano distribuiti solo in quegli ambienti. Indicazioni che comunque non segnalavano il luogo, ma un meeting point in cui trovarsi, per poi partire insieme. Questo sistema garantiva la sicurezza e la riuscita della festa. Proteggeva lo spirito dei partecipanti: un equilibrio che funziona fino a quando ognuno è cosciente dei grandi rischi ma anche delle grandi possibilità che incarna una situazione così libera. Se qualcuno si sente male o si prende male, la festa si trasforma in un bad trip per tutti. Quella forte empatia trasmetteva felicità, serenità, complicità ma al tempo stesso poteva diventare un canale riservato alle paure, alle paranoie e all'aggressività. Dentro il rave le parole e le formalità lasciavano spazio agli sguardi, alle sensazioni vissute da tutti. In tutto questo la musica ha un ruolo fondamentale: è veloce (da 180 a 200 battiti per minuto), scandita da bassi martellanti, arricchiti da suoni quasi psichedelici. Tutti ballano in una trance collettiva. La musica non si interrompe mai, occupa tutto il rave, ne scandisce il ritmo: si sostituisce al tempo, fino a farne perdere la cognizione, fino a trasmettere un senso di libertà totale. Nella festa si può ballare fino a crollare, ma anche mangiare, dormire, esplorare ogni angolo della Taz . Mettersi in macchina e uscirne solo quando ce la si sente. Tutti insieme, proteggendo la tribe dalla polizia con la forza del gruppo.

Mi ricordo un teknival organizzato nel 2001 sul Monte Grappa, nell'ex base Nato, durato più di una settimana, con tribe provenienti da Italia, Francia, Inghilterra, Cecoslovacchia, Spagna: decine di migliaia i partecipanti. La Digos arrivò a festa iniziata, senza sapere che fare. Stupiti, aspettavano fuori. B. - una di quelle persone che i rave li aveva fatte nascere, li viveva, ci suonava - gli andò incontrò con piglio milanese e li accompagnò dentro. La ricordo mentre mostrava agli agenti il muro di casse alto 4 metri, mentre gli presentava i gruppi stranieri: "È un festival di musica elettronica e di incontro tra realtà underground europee". Loro increduli, chiesero solo che entro una settimana tutto scomparisse, nello stesso modo in cui era comparso: 'E senza casini!'. E così fu.

Alcune tribe si spinsero in Bosnia prima e in Serbia più tardi sfidando guerre etniche e raid della Nato, per portare la loro energia nei palazzi dilaniati dalle bombe. Il movimento continuava ad allargarsi. E questa crescita poco alla volta ha segnato la fine della stagione che ho conosciuto. Le notizie diffuse su Internet hanno aperto le porte dei rave a chi non ne condivideva i valori. Cominciarono a nascere decine di nuove tribe, che però avevano perso la filosofia libertaria diventando solo organizzatori di eventi illegali. Occasioni di profitto e divertimento, nulla di più. Iniziarono a comparire sempre più spacciatori di professione, ladri, malintenzionati, felici di poter approfittare di persone troppo 'fatte' per proteggersi. Diventò presto un fenomeno sociale: in Francia ogni fine settimana venivano intasate autostrade, deturpate zone verdi, o distrutte strutture. Erano all'ordine del giorno gli stupri, le violenze, i ragazzi morti. Le tribe delle origini sono fuggite, in cerca di terre vergini: nel nuovo mondo, in Sudamerica. Altri si sono dati alla musica creando etichette indipendenti. O al circo. E di quel mondo adesso è rimasto poco o nulla.

testo raccolto da Gianluca Di Feo
da L'Espresso

Ho sposato Wikipedia?

Quanto ci si deve fidare dell'enciclopedia on line? Ecco cosa mi è capitato e alcune regole per accertare l'esattezza delle informazioni

Ciascuno di noi, ormai, mentre lavora e ha bisogno di controllare un nome o una data, ricorre su Internet a Wikipedia. Per l'ormai sparuto manipolo dei profani ricordo che Wikipedia è una enciclopedia 'on line' che viene scritta e riscritta continuamente dai suoi stessi utenti. Vale a dire che se voi cercate la voce, che so, 'Napoleone' e vedete che una notizia è incompleta o scorretta, vi registrate, la correggete, e la voce viene salvata così, con la vostra integrazione.
Naturalmente questo permetterebbe a malintenzionati o a pazzi di diffondere notizie false, ma la garanzia dovrebbe essere data proprio dal fatto che il controllo è fatto da milioni di utenti. Se un malintenzionato va a correggere che Napoleone non è morto a Sant'Elena ma a Santo Domingo, di colpo milioni di benintenzionati interverrebbero a correggere la illecita correzione (e poi credo che, dopo alcune azioni legali di persone che si erano viste calunniare da ignoti, una sorta di redazione eserciti un controllo almeno sul tipo di correzioni che appaiano chiaramente diffamatorie). In tal senso Wikipedia sarebbe un bell'esempio di quello che Charles Sanders Peirce chiamava la Comunità (scientifica) la quale per una sorta di felice omeostasi espunge gli errori e legittima le nuove scoperte portando così avanti, come lui diceva, la torcia della verità.

Ma se questo controllo collettivo potrebbe funzionare su Napoleone potrà funzionare su un John Smith qualsiasi? Facciamo l'esempio di una persona un poco più nota di John Smith e meno di Napoleone, e cioè chi scrive. All'inizio sono intervenuto a correggere la voce che mi riguardava perché recava date errate o false notizie (per esempio diceva che ero il primo di tredici fratelli, mentre la cosa era accaduta a mio padre). Poi ho smesso, perché ogni volta che per curiosità andavo a rivedere la mia voce trovavo altre piacevolezze messe da chissà chi. Ora alcuni amici mi hanno avvertito che Wikipedia dice che ho sposato la figlia del mio editore
Valentino Bompiani. La notizia non è per nulla diffamatoria ma - nel caso lo fosse per le mie care amiche Ginevra ed Emanuela - sono intervenuto a eliminarla.

In questo mio caso non si può neppure parlare di un errore comprensibile (come la storia dei tredici figli), né dell'accettazione di una vociferazione corrente: a nessuno era mai venuto in mente che io mi fossi accasato in tal modo, e quindi l'ignoto co-autore di Wikipedia interveniva per rendere pubblica una sua privata fantasia, senza che gli fosse mai passato per la mente di controllare almeno la notizia su qualche fonte.

Quanto ci si deve fidare di Wikipedia, allora? Dico subito che io mi fido perché la uso con la tecnica dello studioso di professione: consulto su un certo argomento Wikipedia e poi vado a confrontare con altre due o tre siti: se la notizia ricorre tre volte ci sono buone probabilità che sia vera (ma bisogna fare attenzione che i siti che consulto non siano parassiti di Wikipedia, e ne ripetano l'errore). Un altro modo è vedere la voce di Wikipedia sia in italiano sia in un'altra lingua (se avete difficoltà con l'urdu, ci sarà sempre certamente il corrispettivo inglese): sovente le due voci coincidono (una è la traduzione dell'altra) ma talora differiscono, e può essere interessante rilevare una contraddizione, che potrebbe indurvi (contro ogni vostra religione del virtuale) ad alzarvi e andare a consultare una enciclopedia cartacea.

Ma io ho fatto l'esempio di uno studioso che ha imparato un poco come si lavora confrontando le fonti tra loro. E gli altri? Quelli che si fidano? I ragazzini che ricorrono a Wikipedia per i compiti scolastici? Si noti bene che la cosa vale anche per qualsiasi altro sito, così che da gran tempo io avevo consigliato, anche a gruppi di giovani, di costituire un centro di monitoraggio di Internet, con un comitato formato da esperti sicuri, materia per materia, in modo che i vari siti fossero recensiti (o in linea, o con una pubblicazione a stampa) e giudicati quanto ad attendibilità e completezza. Ma facciamo subito un esempio, e non cerchiamo il nome di un personaggio storico come Napoleone (per cui Google mi dà 2.190.000 di siti), ma di un giovane scrittore diventato noto solo da un anno, e cioè da quando ha vinto lo Strega 2008, Paolo Giordano, autore de 'La solitudine dei numeri primi'. I siti sono 522.000. Come si fa a monitorarli tutti?

Si era pensato una volta di monitorare soltanto i siti su un solo autore su cui gli studenti potrebbero sovente cercare informazioni. Ma se prendiamo Peirce, che ho appena citato, i siti che lo riguardano sono 734.000.

Ecco un bel problema che, per ora, è ancora senza soluzione.

di Umberto Eco da L'Espresso

L'italia [non] è un paese razzista



da http://www.autistici.org/impronte/

Il 26 settembre manifestazione con al centro l’agenda rossa «rubata» di Paolo Borsellino


«Tremate tremate, le agende rosse sono tornate». Si alza forte il brusio del popolo del web, che pian piano risponde massicciamente all’appello «Resistenza». Dopo quella del 19 luglio in via D’Amelio, un’altra manifestazione con al centro l’agenda rossa «rubata» di Paolo Borsellino è già in cantiere. A darne notizia è Salvatore, fratello del giudice, che da anni si scaglia contro le istituzioni coinvolte nella trattativa stato-mafia che portò alla morte dell’unico ostacolo alla patto: quello stesso Paolo Borsellino che scrisse sulla sua seconda agenda, quella grigia, di aver incontrato Mancino il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento come ministro dell’Interno e 18 giorni prima di morire. «Lì a mio fratello venne proposta la trattativa con i boss e lui l’avrà rifiutata in maniera schifata. Oltre a Mancino, che continua a negare dando implicitamente del bugiardo a mio fratello, c’era anche Bruno Contrada, che poco prima il pentito interrogato da Paolo, Gaspare Mutolo, aveva additato come colluso con cosa nostra» ha detto Salvatore Borsellino.

Già il 19 luglio scorso, nel budello d’asfalto in cui era stato ucciso nel 1992 il procuratore aggiunto di Palermo assieme agli agenti di scorta Loi, Catalano, Li Muli, Cosina e Traina, l’ingegnere che vive ad Arese ormai da 40 anni era riuscito tramite il web e i social network a richiamare centinaia di persone da tutta Italia per una tre giorni all’insegna non delle lacrime, bensì della «rabbia costruttiva».

Manifestazione, quella del 19 luglio, disertata quasi completamente dalla gente di Palermo, boicottata ormai ufficialmente dalle grandi associazioni antimafia e soprattutto dai media, se si esclude Enrica Maio del Gr Rai e Silvia Resta di La7. Ora Borsellino torna a suonare la carica: il 26 settembre sarà la volta della capitale. Alle 14 il corteo si riunirà in piazza della Repubblica (Esedra) e da lì il corteo concluderà il suo corso in piazza Barberini. La marcia sarebbe dovuta passare dapprima davanti la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, per ossimoro ubicata in Piazza Indipendenza, e poi al Quirinale, la sede della presidenza della Repubblica; a causa del protocollo sulla sicurezza che vige sulle manifestazioni romane, al Quirinale si potrà recare solo una delegazione di una cinquantina di persone. «Questa manifestazione è la continuazione ideale di quella che abbiamo fatto il 20 luglio davanti al palazzo di Giustizia di Palermo in sostegno di quei magistrati che, a rischio della propria vita, stanno combattendo per arrivare alla Verità sulle stragi del 92 e del 93.

Non dobbiamo dare tregua agli assassini ed ai loro complici. Mobilitiamoci tutti, ognuno di noi si impegni a far venire quante altre persone può, in una catena che non deve avere fine. Adesso hanno paura e si stanno muovendo, cominciano a muovere le loro pedine, Rutelli, Violante, il Pg di Barcellona Pozzo di Gotto; noi dobbiamo agire più rapidamente di loro, impedire che fermino Sergio Lari, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo.

Non lasciamoli soli, impediamo che chiudano la bocca a Massimo Ciancimino, che si muova il CSM, facciamogli capire che dovranno passare sui nostri corpi, che dopo 17 anni non ci lasceremo strappare ancora una volta la verità. Il 19 luglio in via d’Amelio abbiamo fatto scoccare la scintilla, ora è necessario l’incendio» ha spiegato il fratello del giudice che terrà aggiornati i partecipanti tramite il suo sito, www.19luglio1992.com.

IN 15 FOTO LE PROVE DEL MASSACRO DEI SOMALI A BENGHAZI

LE FOTO - http://picasaweb.google.com/gabrieledelgrande/IlMassacroDiBenghazi#5376627475104107858

ROMA – Adesso abbiamo le prove. Sono quindici foto in bassa definizione. Scattate con un telefono cellulare e sfuggite alla censura della polizia libica con la velocità di un mms. Ritraggono uomini feriti da armi di taglio. Sono cittadini somali detenuti nel carcere di Ganfuda, a Bengasi, arrestati lungo la rotta che dal deserto libico porta dritto a Lampedusa. Si vedono le cicatrici sulle braccia, le ferite ancora aperte sulle gambe, le garze sulla schiena, e i tagli sulla testa. I vestiti sono ancora macchiati di sangue. E dire che lo scorso 11 agosto, quando il sito in lingua somala Shabelle aveva parlato per primo di una strage commessa dalla polizia libica a Bengasi, l'ambasciatore libico a Mogadiscio, Ciise Rabiic Canshuur, aveva prontamente smentito la notizia. Stavolta, smentire queste foto sarà un po' più difficile.A pubblicarle per primo sulla rete è stato il sito Shabelle. E oggi l'osservatorio Fortress Europe le rilancia in Italia. Secondo un testimone oculare, con cui abbiamo parlato telefonicamente, ma di cui non possiamo svelare l'identità per motivi di sicurezza, i feriti sarebbero almeno una cinquantina, in maggior parte somali, ma anche eritrei. Nessuno di loro però è stato ricoverato in ospedale. Sono ancora rinchiusi nelle celle del campo di detenzione. A venti giorni dalla rivolta.

Tutto è scoppiato la sera del 9 agosto, quando 300 detenuti, in maggioranza somali, hanno assaltato il cancello, forzando il cordone di polizia, per scavalcare e fuggire. La repressione degli agenti libici è stata fortissima. Armati di manganelli e coltelli hanno affrontato i rivoltosi menando alla cieca. Alla fine degli scontri i morti sono stati sei. Ma il numero delle vittime potrebbe essere destinato a salire, visto che ancora non si conosce la sorte di un'altra decina di somali che mancano all'appello.

Il campo di Ganfuda si trova a una decina di chilometri dalla città di Bengasi. Vi sono detenute circa 500 persone, in maggior parte somali, insieme a un gruppo di eritrei, alcuni nigeriani e maliani. Sono tutti stati arrestati nella regione di Ijdabiyah e Benghazi, durante le retate in città. L'accusa è di essere potenziali candidati alla traversata del Mediterraneo. Molti di loro sono dietro le sbarre da oltre sei mesi. C’è chi è dentro da un anno. Nessuno di loro è mai stato processato davanti a un giudice. Ci sono persone ammalate di scabbia, dermatiti e malattie respiratorie. Dal carcere si esce soltanto con la corruzione, ma i poliziotti chiedono 1.000 dollari a testa. Le condizioni di detenzione sono pessime. Nelle celle di cinque metri per sei sono rinchiuse fino a 60 persone, tenute a pane e acqua. Dormono per terra, non ci sono materassi. E ogni giorno sono sottoposti a umiliazioni e vessazioni da parte della polizia.

Sull'intera vicenda, i deputati Radicali hanno depositata lo scorso 18 agosto un'interrogazione urgente al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri, chiedendo se l'Italia “non ritenga essenziale, anche alla luce e in attesa della verifica dei fatti sopraesposti, garantire che i richiedenti asilo di nazionalità somala non siano più respinti in Libia”. Probabilmente la risposta all'interrogazione tarderà a venire in sede parlamentare. Ma nella realtà dei fatti una risposta c'è già. E il respingimento dei 75 somali di ieri ne è la triste conferma.

Siamo finalmente riusciti a parlare telefonicamente con uno di loro. A bordo erano tutti somali, ci ha detto. E avevano chiesto ai militari italiani di non riportarli indietro, perché volevano chiedere asilo. Inutile. In questo momento, mentre voi leggete, si trovano nel centro di detenzione di Zuwarah. Da quando sono sbarcati, ieri alle tredici, non hanno ancora ricevuto niente da mangiare. Né hanno potuto incontrare gli operatori dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite di Tripoli. Li hanno rinchiusi in un'unica cella, tutti e 75, comprese le donne e i bambini. Nessuno di loro ha idea di quale sarà la loro sorte. Ma nessuno si azzardi a criticare l'Italia per la politica dei respingimenti o per l'accordo con la Libia. Tanto meno l'Unione europea e i suoi portavoce...

da Fortress Europe

Grande accoglienza per Vendola alla festa del PD. La Bindi: «Poi dice che non vuole iscriversi al Pd…»

«Poi dice che non vuole iscriversi al Pd…». La battuta di Rosy Bindi è pienamente legittimata dall’accoglienza che il popolo della Festa dem ha riservato a Nichi Vendola.
Sarà perché «siamo troppo uguali» (ancora la Bindi), sarà perché laicità e questione morale sono temi che solleticano sempre l’attenzione dell’elettorato di centrosinistra, ma il dibattito ospitato ieri al Porto vecchio di Genova ha dimostrato che tra il Pd e la nuova Sinistra e libertà che si accinge a nascere (anche se non si sa ancora bene in che forma) esiste un ponte ben solido. Discutere di future alleanze viene allora naturale, sottolineando comunque, da entrambe le parti, che è finito il tempo della divisione dei compiti tra la sinistra riformista e quella radicale. «Costruire una sintesi non è deteriore, ma è un dovere morale in una società che si deteriora», sostiene con forza Vendola, forte della sua esperienza da presidente della regione Puglia.
«La sintesi che troviamo insieme non è una rinuncia ai nostri valori – gli fa eco Rosy Bindi – ma un arricchimento di questi con le idee degli altri».
È inevitabile che si parli anche della possibilità di allargare all’Udc i confini di un rinnovato centrosinistra.
Nessuno dei due interlocutori è pregiudizialmente contrario, ma le condizioni esistono eccome. Per Vendola, «al centro deve esserci la questione morale per ricostruire la classe dirigente del nostro paese». Per la vicepresidente della camera, «nessuno può porre condizioni alla presenza di altre forze nella coalizione». Ed è ancora più esplicita: «In Puglia non si fa niente senza la partecipazione di Vendola». È proprio lei la prima a non farsi illusioni sulla partita che sta giocando Casini, che «è tutta interna al centrodestra, una volta liberato dall’anomalia Berlusconi ». Bene allora alla proposta di un Cln provvisorio, ma sul domani «vedremo».
Per Bindi, la persona più adatta a costruire questo nuovo schieramento è Bersani, che lei sostiene nella battaglia congressuale, e al suo avversario riserva una stoccata: «Adesso perfino il vice di Veltroni dice che bisogna rifare le alleanze, ma o Franceschini fa autocritica su questi due anni, oppure non è credibile».
I temi di stretta attualità irrompono inevitabilmente nella discussione.
Entrambi sono solidali con l’ormai ex direttore di Avvenire Boffo. E Vendola, che ha vissuto sulla propria pelle i costi di un giornalismo senza scrupoli, ammonisce: «L’attacco ai diritti di libertà e ai diritti sociali sono due facce della stessa medaglia». Per il governatore pugliese «bisogna essere intransigenti quando la politica degenera in porcilaio». Bindi allarga il campo della questione morale, chiamando a vigilare se «la politica fa davvero il suo mestiere e che rapporti ha con l’economia.
Anche in Emilia Romagna, Liguria, Campania, Calabria il Pd deve fare i conti con questa realtà». Sulla libertà di stampa ribadisce che per lei «Mussolini al confronto con Berlusconi era un dilettante» e invita il Pd a non considerare questo tema «con intermittenza, come ha fatto finora».
Ma la vicepresidente della camera si rivolge anche alle gerarchie ecclesiastiche, dalle quali in questi anni è venuto «qualche messaggio agli elettori cattolici su una maggiore affidabilità del centrodestra rispetto a noi». E chiarisce, con linguaggio biblico: «Io “perdono, ma non dimentico” che contro il governo Prodi sui Dico è stata convocata perfino una piazza. Oggi noi possiamo dire a testa alta che chi approfittò di quella piazza non era certo un campione della famiglia». Nessuno insomma può dire “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”, perché «nessuno di noi può scagliare la pietra verso gli altri, ma solo Gesù Cristo può permettersi di dirlo, perché altrimenti si nega il diritto di critica». Per Bindi, «è arrivato il momento di far diventare i cattolici italiani veri e propri cittadini italiani, difendendo i valori senza costruire sepolcri imbiancati ».

VIOLAZIONE DIRITTI UMANI: Testimonianza shock da una prigione Libica



Inseguendo un sogno
Almeno 13.250 persone sono morte, tra il 1993 e il 6 maggio 2009, nel tentativo di raggiungere la fortezza Europa. Durante il viaggio, nei centri d’identificazione, durante il rimpatrio forzato o una volta rimandati nel loro paese.
Non sono incidenti casuali o isolati, accusa l’ong United, che ha pubblicato un rapporto basandosi sui dati di Fortress Europe, ma il frutto di una politica dell’esclusione.
Leggendo l’elenco infinito, si riescono a intravedere le storie di ogni vittima. Vengono da paesi in guerra, dall’Afghanistan, dalla Somalia, genericamente dall’Africa subsahariana. Paesi che sporadicamente appaiono nelle pagine dei giornali, ma non commuovono più.
È la storia di Zaher Rezai, un giovane afgano di 13 anni, che qualche mese fa è morto schiacciato dalle ruote del camion sotto il quale si era legato per sfuggire ai controlli del Porto di Venezia. In una poesia trovata nelle sue tasche, ha scritto: “Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore. Che o riuscirò infine ad amarti o morirò annegato. O mio Dio, che dolore riserva l’attimo dell’attesa, ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera”.

da Internazionale

La sanatoria per le colf, l’inferno della clandestinità per i lavoratori agricoli

Perché deve essere regolarizzato chi lavora nelle case e condannato alla maledizione della clandestinità chi si spacca la schiena nei campi di pomodoro? E’ iniziato un processo che nega l’ingresso regolare, condanna alla schiavitù del lavoro nero e ricattabile, sana solo chi serve e quando serve. Intanto peggiorano sempre più le condizioni dei lavoratori agricoli stranieri nel Sud: una gambizzazione in Campania, uno sgombero in Calabria, mille braccianti senza casa in Basilicata.

E’ l’Italia dei condoni e del tutto s’aggiusta, quando e come ci fa comodo, che fa la faccia feroce con i deboli. La Lega, il partito del rigore e della fermezza, non fa eccezione. Nel 2002 la sanatoria “Bossi-Fini” fu la più grande della storia italiana, perché serviva manodopera per le industrie e l’economia italiana. Oggi si preferisce forza lavoro in condizione schiavile. Le forme di ingresso regolare non esistono più, il “decreto-flussi” è una farsa che sta creando un immenso mercato nero di falsi contratti di lavoro, ed un ceto parassitario di mediatori e speculatori, secondo la “migliore” tradizione italiana. “Abbiamo da troppo tempo una legge sull’immigrazione nella twilight zone, ai confini della realtà, che vive nella finzione che gli immigrati possano venire selezionati e assunti prima ancora di entrare nel nostro paese, come se potessimo far funzionare in Burkina Faso quel servizio di collocamento pubblico che non riesce a trovare un lavoro a chi lo cerca neanche in Italia”, dice l’economista Tito Boeri. La regolarità, quando serve, si produce dunque con le sanatorie.
“Paradossalmente chi non voleva più sanatorie degli immigrati, le ha rese indispensabili”, prosegue Boeri. “L’introduzione del reato di immigrazione clandestina nel nostro ordinamento ci condanna ad una sanatoria permanente degli immigrati”. E saranno regolarizzazioni mirate, come quelle di colf e badanti, e quindi basate sull’ingiustizia. Perché può avere il permesso di soggiorno chi lavora nelle case ed invece deve essere condannato alla maledizione della clandestinità chi si spacca la schiena nei campi di pomodoro?
“Vogliono far pagare la crisi economica agli immigrati”, afferma Emilio Santoro, giurista dell’Università di Firenze. “Le imprese hanno bisogno di manodopera in nero, ricattabile, a basso costo, estremamente flessibile per uscire fuori dalla crisi economica e questo porta alla produzione di soggetti lavoratori debolissimi che peraltro sono già presenti qui, con una buona conoscenza linguistica, abbastanza integrati e via dicendo. E li si mette in condizione di essere debolissimi imponendo appunto il pagamento di 200 euro, rendendogli sempre più difficile l’accesso ad uno status stabile, rendendo complicata la richiesta della residenza per l’ideoneità alloggiativa ecc., e, insomma, si fa di tutto per spingere queste persone verso il nero. Tra l’altro sapendo benissimo, perché se non lo si sa vuol dire che si è scemi, che queste persone nel 98% dei casi non se ne andranno”.

I fantasmi che non vogliamo vedere
Non se ne andranno i “transumanti” del lavoro stagionale, le migliaia di lavoratori africani impegnati in estate nella raccolta dei pomodori nel foggiano, in Campania, nelle campagne di Palazzo San Gervasio; in inverno nella raccolta delle arance nella Piana di Gioia Tauro. Per loro nessuna pietà. Tengono basso il costo del lavoro (la media è di 25 euro al giorno, tutto compreso). Non possono affittare una casa, perché non hanno soldi e se li avessero farebbero rischiare il sequestro dell’immobile al padrone di casa. Dormono nei campi come a Cassibile, in ex fabbriche dal tetto sfondato come a Rosarno, in masserie abbandonate come in Puglia. Mangiano in gran parte i prodotti dei campi, pieni di anticrittogamici. Per la polizia esistono e non esistono. Ci sono quando si mettono in fila davanti alla caserma, per denunciare i loro rapinatori, come nel dicembre 2008 in Calabria. Sono autentici eroi, tutti ad applaudire. Non ci sono più quando si fanno i controlli a campione o autentiche retate, magari quando finisce la stagione e manca poco ai pagamenti, come accaduto spesso in Puglia. Allora diventano clandestini, dall’8 agosto è un reato, un decreto di espulsione e via. Grazie per le dieci ore al giorno di lavoro nei campi sotto il sole o nel freddo dell’inverno, grazie per aver raccolto i pomodori che consumiamo e che esportiamo, il simbolo della dieta mediterranea, orgoglio di questo paese.
Intanto la situazione peggiora sempre più. Ad Afragola, “Salvatore ‘o criminale” ed un suo degno compare ferivano a luglio un ventunenne del Burkina Faso considerato il leader degli stagionali impegnati nella raccolta dei pomodori. Due pistolettate alle gambe, ma anche le successive testimonianze che portavano in galera i feritori. A Foggia ed a Vittoria, nel ragusano, i proprietari giocano sulla concorrenza tra neocomunitari ed irregolari: chi non ha documenti generalmente resta a spasso e si creano tensioni in particolare tra rumeni (spesso donne) ed arabi (quasi sempre uomini).
A Rosarno prosegue il dramma infinito della “Cartiera”, l’ex fabbrica che accoglie gli africani impegnati nei lavoratori agricoli. A luglio un incendio, meno di due mesi dopo l’ordinanza di sgombero da parte del “commissario prefettizio” (gli enti locali della zona sono stati sciolti per mafia o per irregolarità). Un paio di operai si presentano con una catasta di mattoni forati ed iniziano a murare l’ingresso. Per i circa 50 africani presenti all’interno due sistemazioni di fortuna, all’aperto. Ancora promesse per trovare una sistemazione definitiva, in vista della raccolta invernale, e tanti dubbi sui tantissimi soldi promessi o già stanziati dal governo e dagli enti locali e che non hanno prodotto nulla di tangibile.
In Basilicata le associazioni locali si sono unite nel “Comitato per la Difesa dei Migranti”, hanno avviato un presidio estivo nelle campagne di Boreano, chiedono agli enti locali di organizzare l’ospitalità dei lavoratori stranieri e denunciano la situazione di “oltre mille braccianti stranieri che vivono in totale mancanza dei più basilari diritti umani, e nella totale carenza igienico-sanitaria e che vengono puntualmente sfruttati da caporali locali e non”.

“La richiesta è stata inviata con successo”Dal primo settembre fino alla fine del mese ogni famiglia potrà regolarizzare una colf e due badanti extracomunitarie, comunitarie o italiane, a patto che dimostri di averle alle proprie dipendenze almeno dal 30 marzo 2009. Non ci saranno limiti, si prevedono 750 mila domande e la consueta esibizione della fantasia italiana nel confezionamento delle prove da esibire, oppure i tentativi di far confluire lavori di tutt’altra natura nella tipologia eletta del lavoro domestico. Un software faciliterà la presentazione delle domande, ma nella precedente esperienza (2002) ci sono voluti due anni per completare le procedure.
L’invecchiamento della popolazione renderà sempre più necessarie la presenza degli stranieri nelle case degli italiani, facendo risparmiare lo Stato ed il suo sistema di welfare ormai smobilitato, ed anche le famiglie che così eviteranno di ricorrere a costosi istituti privati. La sanatoria diventa l’unica soluzione, perché non è il massimo tenersi un fuorilegge in casa. Per tutti gli altri, continueranno i respingimenti in mare, le torture della polizia libica, gli sbarchi di fortuna, la morte nelle acque del Mediterraneo. Per i pochi che sopravviveranno, la schiavitù nei campi o nelle fabbriche.
Dietro i giochini razzisti su Facebook, oltre i proclami da osteria padana, questa è la vera proposta politica della Lega. Braccia anziché cittadini. Un modello che porta dritto al disastro, perché le nuove generazioni di immigrati e tutti quelli già presenti ed inseriti nella società italiana (parliamo di un milione di persone) non sopporteranno a lungo le angherie senza motivo, le leggi strumentali, le campagne d’odio, le furberie mascherate da rigore.

da MicroMega di Antonello Mangano

Ancora "L'altro" e i fasciofuturisti


Il giornale “L’altro. La sinistra quotidiana” (ma sarebbe meglio dire il “radical-chic quotidiano”) continua con i sofismi anti-antifascisti proprio mentre ogni giorno aumenta la violenza della destra di governo e dei fascisti di strada. E continua a strizzar l’occhio ai “ragazzi di CasaPound”.

Non è un mistero che in tempi di crisi economica le élite dominanti abbiano sempre promosso politiche autoritarie, razziste, familiste, sessiste e omofobe. Non è un mistero che Fascismo e Nazismo siano regimi nati dalla crisi del 1929. Né si può dubitare che oggi stia avvenendo qualcosa di analogo sotto i nostri occhi. Cioè che la fascistizzazione e il disciplinamento sociale siano una risposta preventiva alla crisi economica.
Basta leggere quei vecchi libri passati di moda che non piacciono più ai sinistri giornalisti radical-chic. Un esempio a caso:

«Tutti i governi della repubblica tedesca dopo il settembre 1930 rappresentavano un regime presidenziale piuttosto che un governo parlamentare. Essi governavano con decreti d’emergenza invece che con la normale procedura parlamentare. Questo enorme aumento del potere d’emergenza era naturalmente in flagrante contraddizione con lo spirito della Costituzione benché forse non andasse contro la sua lettera. Nel suo primo periodo esso servì principalmente per investire le autorità esistenti di poteri straordinari per sopprimere quella che a torto o a ragione era considerata una minaccia o un pericolo per l’ordine repubblicano» (Karl Korsch, Scritti Politici, Bari, Laterza, 1975).

Eppure Andrea Colombo, ex dirigente di Potere Operaio, ex politico rampante, ex portavoce di Rifondazione comunista al Senato quando il pacifista Bertinotti era il numero tre dello Stato e benediva i militari della Folgore, non si riesce a capacitare e scrive su “L’altro”:

«In ultima analisi, l’origine materiale dell’ideologia che fa dell’odio antifascista il dovere primo del buon credente di sinistra è proprio nella memoria storica (fondata) che identificava nei fascisti le guardie nere del capitalismo. Dubito tuttavia che questa immagine, senz’altro in buona parte valida fino alla metà degli anni ’70, e certamente in alcuni casi anche oggi, si possa applicare universalmente, ignorando i percorsi e le sterzate profonde della cultura dell’estrema destra a partire dalla fine dei ’70».

Notare la frase un po’ contorta e contraddittoria. Quali sterzate? Colombo non lo dice, lo accredita come un dato di fatto. Ma forse, da vari anni, la sterzata è la sua. Ci sarebbe dunque un fascismo buono e anticapitalistico?

Forse invece c’è chi ha attraversato gli anni Settanta senza capirne molto. C’è chi credeva di far parte di un movimento religioso e di essere un “buon credente”. Poi ha scoperto che i neofascisti non hanno sei occhi o le branchie. E ora dubita della sua stupidissima “fede”.

Come si sa, l’ideologia del Fascismo è nata storicamente da una rete di scambi e ibridazioni tra “destra” e “sinistra”, combinando lotta di classe e nazionalismo, dittatura del proletariato e stirpe eletta, socialismo e razzismo.

L’ideologia fascista da sempre si è alimentata di discorsi rivoluzionari e libertari per virarli verso l’autoritarismo. Per questo la resistibile ascesa del fascismo porta sempre con sé persistenti fenomeni di collaborazionismo e mimetismo politico. Per questo i neofascisti sono tanto interessati a fare discorsi “di sinistra”, “anticapitalisti”, “rivoluzionari”, “antimperialisti”. Non da oggi è la loro strategia.

http://assembleantifascistabologna.noblogs.org/post/2009/09/04/ancora-l-altro-e-i-fasciofuturisti

da Antifa

Pinochet e l'Italia. Un'intervista esclusiva a Italo Moretti

Nel cimitero di Santiago del Cile si scopre che molte delle umili tombe contengono ognuna i resti di due, anche tre vittime della repressione. “Avete visto come si economizzava!” commentò Augusto Pinochet Ugarte nel 1991. Oggi, che il generale 91enne, nonchè senatore a vita, dopo esser stato colpito da un infarto al miocardio è morto, si discute se Pinochet abbia diritto o meno ai funerali di Stato in Cile. L’ex dittatore, accusato di gravi violazioni dei diritti umani nel suo paese (ma gli eran stati revocati gli arresti domiciliari dalla Corte d’Appello di Santiago), non essendo ancora stato processato, avrebbe perciò diritto ai funerali di Stato come ex presidente della Repubblica.

Michelle Bachelet, presidente del Cile, che fu arrestata e torturata sotto il regime Pinochet, ha finora evitato di esprimersi pubblicamente sulla questione. Comunque, un anno fa, in campagna elettorale, la Bachelet aveva dichiarato che un omaggio solenne all’ex dittatore avrebbe “violentato la coscienza dei cileni”. Ora la faccenda, come si dice, è una vera gatta da pelare, anche perchè in Cile Pinochet gode di larghe fasce di sostenitori, non solo negli ambienti militari, che chiedono a gran voce funerali in pompa magna, nonostante il giudizio che noi possiamo dare su di lui.

Abbiamo chiesto a Italo Moretti, inviato della Rai in Sudamerica e successivamente direttore del TgTre, di offrirci un ritratto dell’uomo che con il golpe dell’11 settembre 1973 diede il via, dopo il suicidio di Salvador Allende (la Moneda viene incendiata alle ore 13.30, un’ora dopo Allende, rifiutando la resa, era già morto), alla feroce repressione di chiunque fosse in odor di comunismo. Tra i più ricercati, gli esponenti del Mir, l’estrema sinistra rivoluzionaria che contestava il governo Allende.

I ricordi di Moretti, naturalmente, hanno il valore di una lunghissima pagina di storia contemporanea che, con la scomparsa del dittatore, può essere riletta.

“C’è un particolare antefatto da ricordare per tentare di ricostruire la personalità di Augusto Pinochet”, inizia a raccontare Italo Moretti. “Nel 1948 Pinochet era un capitano dell’esercito, mentre Allende era un senatore socialista. Il capitano Pinochet comandava il campo di Pisagua, una caletta sul Pacifico dove il deserto di Atacama si inoltra fino al confine col Perù. Una delegazione di parlamentari di sinistra, cui partecipava Salvador Allende, era venuta a visitare dei prigionieri politici quando fu fermata dai Carabineros a un posto di blocco. “Di qui non si passa – intimò Pinochet -. Se non ve ne andate, ordino di aprire il fuoco”. Venticinque anni dopo Allende affida proprio al generale Pinochet (non ricordando più di averlo già conosciuto nel lontano episodio di Pisagua) la guida dell’esercito”. Ma occorre aggiungere che anche la Dina, i servizi segreti cileni, dipendevano da lui.

La nomina di Pinochet a capo dell’esercito è suggerita ad Allende dal generale Carlos Prats, militare generoso e leale, che si è appena dimesso dalla carica di comandante in capo e ministro della Difesa. Non appena assunto il comando Pinochet scrive una lettera a Prats, suo ex superiore, “l’immutabile affetto e la stima profonda” che prova per lui. Il 15 settembre 1973, quattro giorni dopo il golpe ordito da Pinochet, Prats e la moglie si rifugiano a Buenos Aires, in Argentina, dove il 30 settembre vengono assassinati dai servizi segreti cileni della Dina, su ordine di Augusto Pinochet.

La Dina compie o coordina molte altre esecuzioni, anche fuori dal Cile.

Una di queste avviene a Roma dove si era rifugiato Bernardo Leighton, dirigente della Dc cilena. La sera del 6 ottobre del 1975, a Roma, in via Aurelia, Leighton viene colpito in fronte da un proiettile (sopravviverà semiparalizzato e disabile nel parlare). Viene ferita anche sua moglie (costretta sulla sedia a rotelle). L’attentato è predisposto dal capo della Dina, Contreras, che aveva contattato l’estremista di destra italiano Stefano Delle Chiaie (appartenente ad Avanguardia Nazionale), il quale risultò aver vissuto a Santiago coperto dal nome “Alfa”. La magistratura italiana apre un’indagine. Ne risulteranno coinvolti Delle Chiaie e Pier Luigi Concutelli (entrambi assolti per insufficienza di prove), Contreras (condannato a 22 anni), il sicario americano Michael Townley e Eduardo Iturriaga della Dina (condannati a 20 anni).

Ma perchè Italo Moretti, che pure ha potuto entrare e uscire dal Cile molte volte sotto la dittatura, a un certo punto venne messo alla porta?

La goccia che fa traboccare il vaso fu il servizio televisivo sui Carabineros del dicembre del 1984. S’intitolava “Le due facce delle Ande” ed era andato in onda per un’ora per TgDue Dossier. L’intervistato è un gesuita, Renato Hieva, che spiega quanto sia cambiato l’atteggiamento dei Carabineros, prima rispettati dal popolo quali difensori dei diritti umani, e poi divenuti violenti e assassini per conto di Pinochet.
Alla testimonianza del gesuita per il servizio Moretti fa seguire il suo personale commento: “I Carabineros scatenano la loro aggressività su inermi abitanti delle borgate, sui bambini, lanciano bombe lacrimogene, sparano, uccidono. Violentano ragazzine, com’è successo a Luisa Sara, nel I Commissariato di Santiago. Torturano, massacrano. Negli ultimi mesi, la Vicaria de la Solidaridad ha denunciato che trentadue persone sono state assassinate dai Carabineros”.
Ronald Geiger, incaricato d’affari dell’Ambasciata del Cile in Italia invia un telegramma al direttore del TgDue. Nel telegramma si deplora il servizio di Italo Moretti, ritenuto “disgustoso”, nonchè il linguaggio del giornalista, definito “procace”, e ci si rammarica di “aver concesso al giornalista facilitazioni perchè svolgesse il suo compito in Cile”. In seguito, anche il Ministero degli Esteri comunica alla Rai che Moretti non otterrà più il permesso di lavorare in Cile (dove si recò ancora, ma col solo visto turistico).

Ma torniamo al racconto di Moretti dall’inizio della storia del golpe militare di Pinochet.

L’aereo atterra la notte del 18 settembre 1973 a Los Cerrillos, l’aeroporto militare di Santiago del Cile. Italo Moretti, allora inviato del giornale radio Rai, raggiunge nella mattinata del 19 settembre il centro città mentre un altoparlante, a nome dei Carabineros, ammonisce di rispettare il codice della strada. “Il semaforo è rosso, nessuno può attraversare”, si ripete con enfasi dall’altoparlante.

Il coprifuoco è finito e a una settimana dal colpo di Stato si è ripreso a lavorare anche nelle fabbriche, dove le retate dell’esercito sono state le più violente. Nella zona industriale di Vicuna Mackenna i soldati svuotarono gli stabilimenti e riempirono il viale di uomini e donne stesi a terra con la faccia in giù e le mani sulla nuca. Dopo un turbinio di manganellate, tutti furono trasportati allo stadio Chile, già trasformato con lo stadio nazionale, a campo di concentramento, di tortura e di morte. La repressione militare è stata compiuta allo scoperto. Ostentata addirittura. Le acque del fiume Mapocho restituiscono i cadaveri sfigurati di decine e decine di vittime della violenza.

Per trasmettere i servizi radiofonici Moretti deve avvalersi della strumentazione di una radio cilena, sorvegliata 24 ore su 24 dai militari, ma aiutato dal tecnico del suono della Rai Francesco Durante, riesce a inviare le sue cronache a Roma mettendo il registratore vicino al ricevitore del telefono. I tribunali di guerra di Pinochet sentenziano pene capitali che vengono eseguite immediatamente. C’è perfino un elicottero della morte con a bordo un generale, Arellano Stark, che ha ricevuto direttamente da Pinochet l’ordine di sterminare contadini, operai, commercianti, giornalisti, studenti, impiegati, insegnanti e militanti socialisti o comunisti. Ogni visita di Stark, dove si posa l’elicottero, si conclude con una fucilazione di massa.

Le porte dello stadio nazionale vengono aperte alla stampa che ha raggiunto Santiago da tutto il mondo. Sebbene il tempo della visita sia limitato a trenta minuti, i reporter possono vedere e fotografare migliaia di prigionieri stipati negli spalti e tenuti dietro le reti metalliche. “Hay mas gente adentro” gridano in coro. Le foto di quella scena fanno il giro della Terra, mentre per dare un giudizio politico ci vorrà un po’ più di tempo: l’orrore e l’emozione prende il sopravvento sul ragionamento.

Anche a Italo Moretti sembra prioritario comunicare a Roma quel che ha visto, in più così tanto ostentato, ma poi si iniziano ad analizzare i tre anni precedenti al golpe, a cominciare dal risicato successo elettorale di Unità Popolare (coalizione catto-comunista che sosteneva Salvator Allende) nel 1970 (solo il 36,3 per cento delle preferenze), gli errori commessi dai partiti del governo di sinistra e l’irresponsabile comportamento del Partito dell’estrema sinistra (Mir) e anche di alcuni settori del Partito socialista.

Tuttavia, nonostante i tanti errori politici, esiste in Cile soprattutto il Plan Condor, attuato dalla Cia per conto del governo Nixon degli Stati Uniti (il segretario di Stato è Kissinger, il capo della Cia è Richard Helms).
La repressione e le fucilazioni di massa sono giustificate dalla Cia al Dipartimento di Stato quali “esecuzioni capitali secondo la legge marziale instaurata dalle autorità cilene” che devono “scoraggiare qualsiasi proposito di resistenza armata”.
Non ci sarebbe voluta molta immaginazione per collegare l’ascesa di Pinochet al sostegno di governi stranieri nemici dichiarati del comunismo, soprattutto se considerato pericoloso avercelo “nel cortile di casa”. Infatti, nel dicembre del 1973, lo stesso Pinochet dichiara alla Reuters che le prime riunioni segrete per preparare il golpe si erano svolte nel 1972.

Il 1° febbraio del 1999 l’amministrazione americana Clinton toglie il vincolo del segreto ai fascicoli del Rapporto Church e vengono diffusi dal National Security Archive i primi 5.800 documenti liberati dal veto. Peter Kornbluh, direttore del National Security Archive, dichiara: “Il materiale svincolato permetterà di porre in una luce più chiara i delitti ordinati da Pinochet e le implicazioni del governo nordamericano nell’appoggio dato alla dittatura”.

Passano gli anni e il regime di Pinochet - continua a narrare Italo Moretti – comincia a segnare una evidente flessione. Le proteste popolari si trasferiscono dalle baraccopoli al centro di Santiago. Sebbene limitatamente (fallisce il tentativo di organizzare uno sciopero generale) i sindacati hanno ripreso a lavorare, così come alcuni partiti democratici. Per fronteggiare il calo di terrore provocato dal suo regime, il 6 novembre del 1984 Pinochet proclama lo stato d’assedio. A quel punto, però, si apre un conflitto fra dittatura e Chiesa cattolica: il numero di sacerdoti imprigionati e uccisi è via via divenuto troppo elevato.

Il 1° aprile del 1987 Moretti viaggia a bordo dell’aereo decollato da Montevideo con Papa Giovanni Paolo II che si reca in visita a Santiago. La domanda del giornalista “in volo” è secca: “Santità, il Cile è dominato da un dittatore che si professa cattolico. Molti cattolici cileni temono che il regime possa trarre vantaggio da questo suo viaggio”. E Papa Wojtyla risponde: “La differenza fra regimi autoritari come quello del Cile e regimi totalitari, come quello polacco, è che i regimi autoritari sono reversibili, al contrario di quelli totalitari che sono irreversibili”. La dichiarazione del Papa viene riprese dalle agenzie di stampa mondiali, meno che da quelle cilene.

E’ nella notte del 5 ottobre 1988 che si consuma la sconfitta politica presidenziale di Pinochet che aveva chiesto con un referendum di restare in carica fino al 1997. Vince il NO con il 54,7 per cento (fronte capitanato dal centro-destra della Dc cilena, che candida Patricio Aylwin, e dal Partito socialista, che ha fra i suoi esponenti Ricardo Lagos), ma Pinochet potrà restare alla guida dell’esercito: glielo garantisce una norma costituzionale fatta apportare da lui stesso nel 1980. Il presidente è furibondo, disorientato, non si aspettava assolutamente di essere sconfitto.
Che cosa gli era sfuggito? Probabilmente non si era accorto che il Cile nei quindici anni della sua dittatura era cambiato, l’idea di vivere perennemente in un conflitto senza risoluzione aveva da un lato fatto risorgere alcune reazioni (Pinochet scampa all’attentato con i bazooka del 7 settembre 1986 del Fronte di estrema sinistra Manuel Rodriguez) e dall’altro lato aveva infiacchito i suoi uomini. Gli Stati Uniti, poi, non lo sostenevano più e avevano deciso d’isolarlo (era subentrata l’amministrazione Reagan). Pinochet, allora, dichiara ai media: “Sono l’ultimo anticomunista del mondo perchè il marxismo si è infiltrato anche nella Casa Bianca”.

Il 10 marzo del1990 Pinochet fa il suo ultimo pranzo da presidente alla Moneda. Al commiato sa solo dire: “Provo una gran pena”. In tv si vede il passaggio dei poteri con l’ex dittatore che se ne va scortato da un plotone a cavallo. Pinochet procede lentamente, benchè si odano levarsi grida come “assassino” e si lancino monetine. Tutto il Cile è incollato al televisore per piangere di gioia o di dolore. Dal giorno dopo, l’11 marzo 1990, alla tv nazionale cilena Canal 7 tornano a lavorare registi e giornalisti che per 16 anni e sei mesi erano stati pesantemente discriminati o allontanati.

Il 5 dicembre 1991 l’ambasciatore americano in Cile rivela al presidente Aylwin che i militari cileni han venduto armi alla Croazia, rompendo l’embargo fissato dall’Onu. Il mediatore dell’affare, per 3 milioni di dollari, è Augusto Pinochet Iriart, il figlio primogenito dell’ex dittatore. “Dicono che abbiamo violato la Costituzione?”, risponde alle domande della stampa Pinochet. “E va bene, l’abbiamo violata. E adesso basta”.

Il 16 ottobre del 1998, a Londra, gli agenti di Scotland Yard consegnano al generale Augusto Pinochet, ricoverato in una clinica, il mandato di arresto emesso su richiesta del giudice spagnolo Baltazar Garzón per i crimini commessi in Cile e anche fuori dal Cile.
Santiago, però – come sempre - si spacca in due. C’è chi si sdegna e protesta pubblicamente, c’è chi invece esulta e invoca giustizia. I servizi televisivi suscitano sorpresa e interrogativi, soprattutto in Europa, anche perchè da anni del Cile non si parlava quasi più.

Pinochet rimane agli arresti domiciliari a Londra per 503 giorni (il governo Blair nega a Garzón l’estradizione in Spagna; sulla stessa posizione, cioè dalla parte del Cile, si schiera anche l’Italia). Il 3 marzo del 2000 l’ex tiranno atterra a Santiago in carrozzella, con uno stuolo di medici al seguito. Si diceva che non riconoscesse i familiari e che muovesse a stento le gambe. Quando vede ad attenderlo all’aeroporto il comandante dell’esercito Ricardo Izurieta abbandona la carrozzella e gli va incontro in modo impeccabile, senza nemmeno il sostegno di un bastone. Si abbracciano. Pinochet ha 85 anni e, come si vede in televisione, non è nè demente, nè sordo, nè afono, nè semiparalizzato.

“In quel periodo venivo invitato a dibattiti pubblici e televisivi – ricorda Italo Moretti – e notavo che le mie parole suscitavano autentico stupore. Per esempio quando dicevo che per il governo cileno di centro-sinistra la richiesta d’arresto e d’estradizione di Pinochet aveva causato un gran allarmismo. Il centro-sinistra cileno avrebbe piuttosto voluto un rientro in patria del vecchio tiranno”.

Con un elicottero militare SuperPuma SA 300 l’ex dittatore viene trasportato dall’aeroporto di Santiago all’Ospedale Militare di Providencia, in uno dei quartieri più chic della capitale. Alle 7 di sera la degenza è già finita e Pinochet raggiunge casa sua, a La Dehesa.

Su La Tercera del 3 marzo del 2000, in un articolo di Ascanio Cavallo, si legge: “Pinochet torna sconfitto, sapendo che non potrà più uscire dal Cile. Il suo potere si era estinto quando lasciò il comando dell’esercito. L’hanno arrestato solo perchè non vestiva più l’uniforme”.

Un caso, quello di Pinochet, che non si può certo chiudere con la sua morte, sebbene le conseguenze della verità, quando venisse tutta a galla, sono pur sempre spaventose.

da Indymedia

Rossana Rossanda

Lo scenario politico degli ultimi anni sta arrivando a consunzione. Non sarà facile metterne alla luce uno più decente tanta è la bassezza, istituzionale e culturale, in cui siamo per responsabilità di molti, forse di tutti, nell'inseguire una transizione verso una seconda repubblica che, in assenza di un progetto di qualche spessore, si è risolta soltanto nel tentativo di minare lettera e spirito della Costituzione del 1948 - largo a un mercato da Far West, concessioni illimitate a una proprietà senza coraggio, abbattimento, e possibilmente fine, di ogni diritto sociale. Risultato, un decisionismo cialtrone sommato alla tradizione nazionale di evadere il più possibile la legge e il fisco.
In questo quadro, l'ascesa folgorante di una figura come quella di Silvio Berlusconi ha la sua logica. Non è solo per le sue imprese sessuali - ciliegina sulla torta della legge sulla sicurezza più indecente d'Europa - che si ride di noi, perduto quel rispetto che nel dopoguerra eravamo con fatica riusciti a conquistarci. Tale è l'imbarazzo che circonda l'Italia che siamo usciti perfino dalle abituali statistiche, non siamo neanche un'anomalia, siamo da non prendere sul serio.
Gli scricchiolii si avvertono a destra e a sinistra. Sulla sinistra è perfino superfluo tornare, è detta estrema solo perché ha una certa attenzione alle sofferenze del lavoro e una certa sensibilità allo scombussolamento delle coscienze, ma non è in grado di uscire dalla ripetitività di formule da una parte, Ferrero e Diliberto, e dall'altra dal troppo silenzio di un Vendola diventato oggetto di tiro regionale al bersaglio.
Né è possibile attendersi dal Partito democratico almeno un aggiornamento del keynesismo a livello 2009 - la crisi è tornata tutta nelle mani di chi l'ha provocata e a pagarne le spese sono i ceti più deboli e i lavoratori di ogni tipo, per il calo continuo dell'occupazione. Questo non è solo un problema nostro, anche Obama è in pericolo, incastrato com'è fra il corporativismo della società americana e l'eredità sempre più avvelenata del Medio Oriente.
Insomma "sinistra", parola che credevamo impraticabile per mollezza, è diventata addirittura simbolo di estremismo, neanche il Pd la pronuncia senza scusarsi, cosa che non succede neppure alla Spd, per non dire della Linke. Di Bersani non ricorderemo certo i voli di pensiero, noioso com'è a forza di buon senso emiliano, e di Franceschini ci rimarrà in mente lo sforzo d'un democristiano perbene per tenere assieme ai ds un settore cattolico lusingato da sirene da tutte le parti.
Questa inaffondabilità dei cattolici è il solo processo che emerga con qualche chiarezza assieme alla crisi del ciclo berlusconiano. Come succede con i personaggi del suo tipo, sarà una fine agitata, a colpi di coda, ma il suo blocco si è rotto.
La scelta del cavaliere per la Lega - unica vera tendenza di fascismo localista e in abiti nuovi - ha posto Fini in posizione di challenger, in nome di una destra meno turpe che non gli sarà facilissimo rappresentare; certo ce la mette tutta. Se l'ex Forza Italia non sa bene dove guardare, An è divisa fra lui e un Gasparri che lo sfida. Lega e Pdl sono entrati in conflitto con la Chiesa (s'erano tanto amati!) per le intemperanze del cavaliere e di Feltri: così pieni di sé che la prudenza è andata a farsi benedire.
Così sotto traccia riappare la voglia di un partito cattolico, sia in chi sta scomodo nel Pd sia in chi sta scomodo nel Pdl, via Casini. L'Italia continua a replicare la partizione tricolore, con un rosso sempre più sbiadito, un bianco sempre piu sporco e un verde da giocare non con la Lega, ma con il Vaticano.
Verrebbe da dire "tanto rumore per nulla", se il suicidio del Pci e del Psi non avesse spostato a destra l'asse del centro. È curioso che il paese dove più lunghe sono state le code del sessantotto sia destinato a diventare di nessuna, o scarsa, importanza per l'Europa.

da IlManifesto

"Andrini, ora Alemanno revochi la nomina" ·

"Andrini, ora Alemanno revochi la nomina"
Parla l´altra vittima del raid neofascista. Il Pd chiede spiegazioni. Il sindaco: "È ormai riabilitato"

«Questa nomina è una beffa, per me e per tutti: rimandiamo a casa gli "ex" nazisti come Andrini». Vent´anni fa, nel 1989, Giannunzio Trovato era «disteso all´entrata del cinema Capranica con diversi giovani che continuavano a colpirlo», come raccontò un testimone nella requisitoria del processo che condannò Stefano Andrini a 4 anni e 8 mesi per tentato omicidio. Non gli basta, l´indignazione per la nomina di Andrini ad amministratore di Ama Servizi Ambientali.
Quel sentimento espresso ieri da Andrea Sesti, l´altra vittima che come lui finì in ospedale con la scatola cranica fratturata per «la violenza e la ripetizione dei colpi» che provocarono «la fuoriuscita di sostanza celebrale devitalizzata», non è sufficiente: «L´indignazione - dice - è un sentimento buono per un trafiletto. E il piagnisteo della vittima mi fa orrore quanto il potere di chi la costringe a rimanere tale. Sono arrabbiato, piuttosto. La rabbia dura una vita, si trasforma e si adatta alle situazioni, ma non fa dimenticare. Andrini ha un curriculum che fa rabbrividire».

Trovato, che oggi è operatore in un centro disabili, chiede una reazione forte: «È un´occasione per levare un coro di indignati vade retro da parte di una sinistra disorientata. Queste persone, questo governo... li abbiamo voluti con le nostre scelte e con le nostre paure. Ricominciamo da noi stessi, solo cosi rimanderemo a casa gli "ex" nazisti come Andrini e gli ex fascisti come il sindaco Alemanno».

E continua a crescere l´ondata di proteste per la prestigiosa nomina dell´ex naziskin, arrestato anche per un´aggressione nel ´94 e trovato con una pistola e un tirapugni in casa. Lo conosce bene anche la Digos: in un´informativa alla procura del ´07 lo cita come intestatario del sito degli Irriducibili definendolo «il noto Andrini Stefano, conosciuto per la sua pregressa militanza nei gruppi estremistici di destra». Il capogruppo del Pd, Umberto Marroni, chiede l´intervento di Alemanno: «Si adoperi per la revoca di una nomina inopportuna e inadeguata». Ma all´ennesimo giorno di passione, il sindaco replica da Lourdes: «Non sta a me, sarebbe illegittimo. C´è l´autonomia del cda dell´Ama, e non ci sono motivi concreti per farlo. Andrini è ormai incensurato ed è già stato ampiamente riabilitato. Ho chiesto spiegazioni, me le hanno date e ne ho preso atto. L´ad Panzironi mi ha detto che in questi mesi ha dimostrato una grande efficienza manageriale».

http://roma.repubblica.it/dettaglio/andrini-ora-alemanno-revochi-la-nomina/1710725

di Paolo G.Brera da Antifa

Da sterminare


Dall'inizio dell'anno 28 Awà sono stati ammazzati. Si suppone un piano per estinguerli e occuparne le preziose terre

"Nell'omicidio dei miei compagni il 26 agosto è coinvolto anche l'esercito": La denuncia arriva da Eder Burgos, il portavoce degli indigeni Awá, che non si stanca di ricordare, con la morte nel cuore, il massacro di dodici persone tra cui sette minorenni. Tra questi un bambino di appena un anno. "Ci sono oscuri interessi che cercano di insabbiare i veri autori della strage", spiega, un fatto che ha commosso l'opinione pubblica non solo colombiana.
Tutto è accaduto nelle prime ore del mattino di mercoledì scorso, in una casa del resguardo indigeno di Gran Rosario, nel Tumaco, dipartimento al confine con il Nariño, nel sud-est del paese. Uomini incappucciati e in mimetica hanno sterminato questo gruppo di persone in una casa di El Divisio. Non è ancora ufficiale a che gruppo appartenesse lo squadrone che ha sterminato il gruppo di Awà, ma è noto che si tratti di un'area a vasta presenta paramilitare. E da sempre i paracos vanno a braccetto con l'esercito.

Eppure, per questa strage c'è già un capro espiatorio che le autorità si sono affrettate a consegnare alla giustizia. Si tratta di Jairo Miguel Paí, anch'egli indio, da tempo espulso dalla comunità per i suoi legami con i paramilitari. Ma Burgos non ci sta. Paí, secondo gli Awà, merita di restare dietro le sbarre, certo, ma perché ha tentato di estorcere denaro a molta gente, non certo perché mandante o responsabile di un crimine tanto efferato. "Adesso, quello che vogliono (le autorità di polizia) è che le indagini portino a dei colpevoli, siano quelli che siano", ha spiegato, precisando, appunto, che la sua comunità non condivide la tesi che Paí sia l'autore della strage.

E i fatti sembrano dar loro ragione. Non solo la zona è ad alta presenza paramilitare, e quindi sotto il loro diretto, quanto violento e illegale controllo, ma l'esecuzione dei dodici indigeni è avvenuta proprio nella casa di Sixta Tulia García, la donna 35enne che aveva osato denunciare la morte del marito, Gonzalo Rodríguez, puntando il dito contro l'esercito. Coincidenza o chiaro segnale di avvertimento in puro stilo mafioso?

I nativi non hanno dubbi. Siamo di fronte all'ennesimo crimine di Stato, insabbiato e deviato grazie a un caprio espiatorio. E per questo difficile da dimostrare.
A indagare è la Fiscalia e l'unica cosa certa è che l'esecuzione è stata fatta usando pallottole calibro nove millimetri. Certo, c'è anche la testimonianza di chi descrive uomini in mimetica, ma in Colombia la mimetica la indossano tutti, indistintamente: esercito, paramilitari e persino guerriglieri. L'unico elemento distintivo, dato che sicuramente fasce e simboli sono scrupolosamente rimossi prima di ogni retata in cui l'anonimato è fondamentale, possono essere le calzature. È cosa nota che i guerriglieri di Forze armate rivoluzionarie colombiane o Esercito di liberazione nazionale siano soliti indossare stivali in plastica nera, in puro stile contadino. A differenza di militari e paracos che invece camminano con anfibi rinforzati e pieni di stringhe. Un piccolo particolare che però la gente calata in simili realtà è solita notare.

Intanto, a rincarare la dose sull'esistenza di un piano criminale teso a sterminare gli Awà è il presidente dell'Unità indigena di tale popolo (Unica), Gabriel Bisbicus, che parla di "forze oscure, con la complicità di organismi di sicurezza statale". E ricorda come da mesi gli Awà siano pedinati, minacciati, perseguitati, sia nel loro territorio che a Pasto, la capitale dello stato di Nariño. Da gennaio, sono 28 i morti ammazzati tra i 27mila cinquecento Awà, sparsi nei 21 resguardos tra Nariño e Putumayo, in un territorio di 322mila ettari. Tanto che le associazioni in difesa delle popolazioni indigene lo definiscono il popolo che corre il maggior rischio di estinzione in Colombia.

Gli Awà, che in Awapit significa 'gente', hanno già subito molto dal conflitto armato che da 45 anni logora la Colombia. Intanto, nati cacciatori, hanno dovuto diventare agricoltori e allevatori di animali domestici, perché impossibilitati a muoversi dietro animali e branchi. Coloni, guerre civili, cercatori di oro e di legno, cocaleros, mine antiuomo, conflitti a fuoco, retate e blitz orchestrati da quelle forze che agognano le loro terre ricche e fertili, li hanno costretti a cambiare drasticamente stile di vita, limitandoli e castrando una cultura millenaria. E, come se non bastasse, restano nell'occhio del mirino.

E le altre popolazioni native non se la passano certo meglio in Colombia. Il relatore speciale dell'Ufficio Onu sui diritti umani dei popoli indigeni, James Anaya, in luglio ha dichiarato che la situazione di queste etnie nel paese andino "è grave, critica e profondamente preoccupante".



di Stella Spinelli da PeaceReporter

Venezia - Global Beach non si fa intimidire


Conferenza stampa degli attivisti di Global Beach dopo le cariche della polizia contro i precari della cultura davanti all'Hotel Des Bains

Gli attivisti di Global Beach hanno indetto una conferenza stampa in merito ai fatti di ieri, quando un centinaio di precari della cultura e di studenti dell'Onda sono stati violentemente e ripetutamente caricati dalla polizia nel momento in cui si avvicinavano all'Hotel Des Bains dove avevano intenzione di indire una conferenza stampa per portare la voce di una realtà lavorativa e di vita, altrimenti invisibile, in un luogo simbolo del lusso e dell'opulenza portata al Lido dalla Mostra d'Arte Cinematografica.
Gli interventi che si sono succeduti hanno in primo luogo ribadito l'importanza che la spiaggia occupata assume quest'anno come luogo di incontro e confronto di diverse realtà di lavoratori precari che si stanno mobilitando a Venezia come in altre città, dai lavoratori della Biennale d'Arte ai componenti del Movem che si sono mobilitati contro i tagli del Fus il luglio scorso, insieme anche agli studenti dell'Onda di diverse città d'Italia.

In seconda battuta gli attivisti di Global Beach hanno ricostruito i fatti di ieri, sottolineandone la gravità e le pesanti responsabilità di chi ha gestito le cariche violente contro lavoratori e studenti che avevano con loro solamente cartelli, palloncini neri e riso dipinto di nero, e l'intervento successivo degli agenti della Digos contro gli attivisti che erano riusciti a raggiungere il Red Carpet.

Di seguito i comunicati di solidarietà inviati a Global Beach:

Ieri, martedí 1 settembre, i giovani lavoratori di MTV hanno partecipato all’assemblea di apertura di Global Beach, al Lido di Venezia. Iniziativa che da quattro anni riunisce, in occasione della Mostra del Cinema, i lavoratori del settore Arte, Cultura e Spettacolo.
All’assemblea, sede di dibattito e confronto sulla grave crisi del settore che penalizza i precari, erano inoltre presenti: gli attivisti di Global Project, i precari della Biennale di Venezia, il Movem, Onda Anomala, S.A.L.E., i precari del Comune di Venezia.

I 104 giovani lasciati a casa da MTV appoggiano inoltre la “Street Parade” e tutte le iniziative di protesta che si sono tenute oggi durante l’inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia.
L’associazione 100 autori esprime la propria solidarietà agli studenti e ai precari della cultura e dello spettacolo che sono stati oggetto di una reazione, tanto violenta quanto ingiustificata, da parte delle forze dell’ordine. Segnaliamo inoltre la nostra preoccupazione per un episodio
che mostra per l’ennesima volta come questo governo voglia tacitare ogni voce di dissenso. Ribadiamo quindi il diritto di ognuno di manifestarlo questo dissenso, sempre nel rispetto dei principi di non violenza che hanno finora caratterizzato tutte le manifestazioni del mondo della cultura.
Le manifestazioni degli ultimi mesi hanno messo sul piatto le numerose e gravissime problematiche economiche e sociali legate al progressivo smantellamento della cultura di questo paese. Se l’unica risposta che questo governo sa dare è la militarizzazione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia significa che facciamo bene ad essere preoccupati, e ad insistere in ogni luogo e in ogni modo perché le nostre voci vengano ascoltate.
100autori


Ieri al Lido di Venezia un corteo di precari dello spettacolo partito da Global Beach è stato selvaggiamente caricato dalla Polizia di Stato all'altezza dell'Hotel Des Bains, mentre manifestava pacificamente contro le indegne condizioni di lavoro di migliaia di lavoratori e lavoratrici.
Ormai esprimere il proprio dissenso e rivendicare i propri diritti è diventato fuori legge, mentre viene accettato e protetto un sistema di sfruttamento delle persone che di fatto nega diritti, sicurezze e prospettive di un futuro dignitoso.
Riteniamo vergognoso quanto è avvenuto ed esprimiamo solidarietà ai precari e alle precarie dello spettacolo che hanno subito questa violenta e ingiustificata aggressione.
Il coordinamento autonomo dei precari del Comune di Venezia

Ritengo l’episodio avvenuto ieri al Lido grave e preoccupante, ed è ingiustificabile l’azione di aggressione delle Forze dell’Ordine nei confronti dei partecipanti alla manifestazione del Global Beach.
Persone che, in questo caso, hanno cercato visibilità (nell’occasione dell’evento della Mostra del Cinema), per denunciare lo stato di precarietà e sfruttamento che vivono i lavoratori che operano nel mondo della Cultura e dell’Arte Veneziana.
Non è certo con le “bastonate” che si risolve, o cancella, il problema.
Il precariato e la deregolamentazione del diritto al lavoro è di imbarazzo anche per la nostra Città; solo attraverso un confronto aperto e responsabile, da parte di tutti, si potranno affrontare certe tematiche.
FILCAMS CGIL Metropolitana Venezia - Andrea Brignoli

Foto copertina di Giacomo Cosua

da GlobalProject

I TRISTI APPLAUSI DEL PD A FINI

Fanno impressione, ma fanno riflettere, le cronache sul ritorno di Gianfranco Fini sul luogo del delitto, ossia Genova. A otto anni dal tragico G8 del 2001, l'attuale presidente della Camera è stato ospite della Festa nazionale del Pd. E' stato applaudito, a quanto parte, quasi sempre, anche quando ha parlato dell'uccisione di Carlo Giuliani: «Sono soddisfatto e, come italiano, sono felice che la Corte Europea per i Diritti dell´uomo abbia detto in modo inequivocabile che quel carabiniere ha agito per legittima difesa».

La felicità di Fini riguardava la sentenza che ha "recepito" il giudizio del pm e del gip di Genova, secondo il quale Carlo Giuliani sarebbe stato ucciso da un proiettile diretto verso l'alto e deviato da un sasso e comunque sparato per legittima difesa e facendo un uso legittimo delle armi. La sentenza dell'Alta Corte in realtà dice anche altre cose, visto che ha condannato lo stato italiano a risarcire la famiglia Giuliani (40mila euro), giudicando inadeguata l'inchiesta condotta e assai dubbia l'efficacia dell'organizzazione dell'ordine pubblico.

Stupisce che il pubblico di una festa del Pd dimentichi che Fini era nel 2001 vice presidente del consiglio e che fu protagonista di una insolita e poco chiara lunga sosta nella centrale operativa dei carabinieri. Che era ed è tuttora altissimo dirigente di una coalizione che ha rifiutato ogni approfondimento sulla disastrosa e tragica gestione del G8 genovese, dicendo no alla commissione indipendente internazionale chiesta da Amnesty International e anche a quella parlamentare, chiesta dalle stesse forze politiche che nel 2009 lo hnno richiamato a Genova! Stupisce che si appaluda chi esprime "felicità" per un giudizio che riguarda, comunque sia, l'uccisione di un ragazzo da parte di un dipendente dello stato, e a fronte di una sentenza che condanna lo stato a risarcire la famiglia.

Lo sconcerto è grande. La riflessione riguarda la debolezza e la confusione di forze politiche che sembrano avere cancellato ogni coscienza sul passato recente d'Italia: Genova G8 resterà nei libri di storia come macchia indelebile per il nostro paese, nonostante la "felicità" di Fini e i superficiali applausi di chi lo ascoltava. I dirigenti del Pd hanno dimostrato pochezza politica e un uso disinvolto della storia. Viene da pensare che dimenticando il ruolo di Fini a Genova 2001 e le sue responsabilità successive in quanto leader della destra, abbiano voluto cancellare anche le proprie responsabilità sul dopo G8: le promozioni dei dirigenti di polizia coinvolti, il no alla commissione d'inchiesta, la carriera di Gianni De Gennaro.

Triste paese il nostro. Mentre il "popolo del Pd" applaudiva Fini che esprimeva soddisfazione e felicità in quanto italiano e uomo di stato, ero in Francia; Le Monde riportava la notizia sulla sentenza della Corte Europea, con questo titolo: "L'Italie condamnée après le décès d'un manifestant au G8 de Genes".

Soddisfazione? Felicità? Applausi?

da Altreconomia

Piccoli e soli?

Pubblichiamo la rubrica Cantieri sociali in uscita su il manifesto del giovedì 3 settembre...

Lo scorso week end sono stato ad Oropa, città-santuario su un colle sopra Biella, in Piemonte, all’incontro nazionale dei Bilanci di giustizia. Un movimento costituito da 1.200 famiglie che, riunite in 43 gruppi locali, mettono in pratica uno stile di vita «fondato sulla giustizia», ossia risparmiano acqua ed energia, si preoccupano della quantità e qualità dei rifiuti, comprano biologico e autoproducono il più possibile il necessario, e così via.
I risultati sono rilevanti: meno quaranta per cento di consumo di acqua, crollo dei rifiuti prodotti, ecc. Qualche anno fa, una campagna organizzata dal comune di Venezia [dall’allora assessore all’ambiente Paolo Cacciari] e dai Bilanci di giustizia, intitolata «Cambieresti?» e rivolta in generale ai cittadini, ha avuto un grande successo. Insomma, i «bilancisti» sono una pattuglia avanzata delle legioni di persone che cercano vie d’uscita, a cominciare dai propri stili di vita, dalla società dello spreco, dell’abuso di natura e, quindi, ingiusta.

E’ da gente come loro che è nata fra l’altro in questi anni la grande corrente dell’economia sociale, i gruppi d’acquisto solidale, i presidi di Slow Food… Dunque, le famiglie «bilanciste», che hanno in Gianni Fazzini, prete veneto, la persona di riferimento, avrebbero tutte le ragioni per sentirsi, se non orgogliose, per lo meno sicure di sé. Invece non è questa l’impressione che ho ricavato partecipando al loro incontro, ai gruppi di discussione, alle conversazioni informali. C’ero andato, su invito di don Gianni, per discutere di un appello rivolto da Francuccio Gesualdi, con una lettera su Carta, a noi, ad Altreconomia e a Valori, due mensili che si occupano appunto di economia sociale, di finanza critica, di nuovi stili di vita ecc. Francuccio, per chi non lo sapesse, è l’animatore del Centro nuovo modello di sviluppo, e ha in pratica avviato, una ventina di anni fa, la corrente di ricerca che si usa chiamare del «consumo critico»: analisi su quel che fanno le multinazionali, esami su quel che acquistiamo ogni giorno, proposte alternative e una «Guida al consumo critico» che è ormai diventata obbligatoria per chiunque si ponga queste domande entrando in un supermercato.

Ora Francuccio, da buon allievo di don Milani, si chiede se questo suo enorme lavoro sia sufficiente, di fronte all’ondata di barbarie che ci sta travolgendo, dalla crisi climatica alla caccia al «clandestino», fino al crollo della democrazia rappresentativa. Perciò ha proposto a Carta e ai direttori di Altreconomia e di Valori, Pietro Raitano e Andrea Di Stefano, di farsi insieme promotori di una qualche iniziativa che aiuti a connettere parti diverse di società civile attiva allo scopo di disegnare insieme la cornice, l’orizzonte, della società che vorremmo. Perché insomma chi si dà da fare per la raccolta differenziata, o per fermare una base militare, o per organizzare un corso d’italiano per migranti, possa vedere questa sua azione come il tassello di un mosaico più grande. Non si tratta, ha chiarito Gesualdi ad Oropa, di inventare una società ideale, ma sì da quel che si fa ricavare un progetto da correggere via via in base all’esperienza. In un certo modo, è la stessa ispirazione che ha spinto noi e molti altri a proporre, il 10 e 11 ottobre alla comunità delle Piagge di Firenze, un incontro intitolato «Democrazia chilometro zero» [tutti i dettagli sono su carta.org], e infatti le due cose convergeranno. La speranza, l’utopia che si può toccare con mano, si chiama autogoverno: una enorme ambizione, certo, che ha però già alcune esperienze reali su cui basarsi.

Ma il clima, tra i «bilancisti», non era questo. A me è parso prevalessero timidezza e sensazione di essere isolati, depressione per le esperienze finite [come la Rete Lilliput, da cui molti di loro provengono] e in sostanza la percezione che il disastro è talmente grande e travolgente che, forse, ricavarsi una nicchia sana è l’unica cosa realistica, ossia procedere a piccoli passi invece che cercare una accelerazione. Forse sbaglio, ma se questi sono i sentimenti prevalenti, allora faremo assai poca strada, sia nell’alzare un argine pratico – fatto di società che si auto-difende – e simbolico, sia nella fatica di far comunicare tra loro culture differenti, per quanto unite dalla ricerca, appunto, della giustizia.

di Pierluigi Sullo da Carta

Per i bambini etiopici niente primo giorno di scuola

Il 31 agosto, quasi due milioni di bambini israeliani sono tornati a scuola. Ma non tutti sono riusciti a entrare in classe.

Per tre giorni, infatti, è andato avanti un braccio di ferro tra le famiglie di ottanta bambini, figli di immigrati etiopici, e le autorità delle scuole religiose del quartiere di Petah Tikvah, dove le famiglie sono state da poco trasferite.
Le scuole spiegano che i bambini non sono ancora ebrei a tutti gli effetti, e quindi non è possibile iscriverli.

Il caso è stato molto discusso e analizzato sulla stampa. Ma secondo Gideon Levy la vicenda è molto semplice, ed è solo la punta di un iceberg: “La nostra è una società razzista”.

da Internazionale

Dimmi cosa non mangi e ti dirò chi sei

Dopo l’anoressia e la bulimia, un’altra ossessione alimentare arriva sulle tavole dei paesi ricchi. Si manifesta con un’attenzione eccessiva per la scelta degli alimenti che devono essere rigorosamente sani.

Chi è colpito da questo disturbo - il cui nome ufficiale è ortoressia nervosa - segue regole alimentari rigidissime, mangia solo il cibo che ritiene “puro” e rifiuta di assumere sostanze come lo zucchero o il sale. Gli effetti per la salute sono disastrosi e i casi di malnutrizione da ortoressia sono sempre più comuni, scrive il Guardian.
Sono stati i nutrizionisti a lanciare l’allarme: fine a qualche anno fa infatti il disturbo riguardava una percentuale bassissima della popolazione e rientrava nei disordini alimentari generici, ora invece l’ortoressia è talmente diffusa da richiede uno studio a sé stante.

Le persone più colpite hanno caratteristiche ben precise: hanno più di trent’anni, appartengono alla classe media e sono istruiti. S’informano sulle caratteristiche nutrizionali dei cibi sui giornali o su internet e hanno i soldi per comprarsi le alternative più sofisticate.

Deanne Jade, fondatrice del centro britannico per i disordini alimentari, dichiara che “c’è un confine sottile tra chi è convinto di prendersi cura di sé e chi ha l’ortoressia, ma spesso le persone non hanno la minima idea di cosa sia questo disturbo”.

Per Jade “la società moderna ha perso la bussola con il cibo”. E denuncia il fatto che interi gruppi di alimenti stanno scomparendo dalle tavole perché l’ha consigliato il trainer in palestra, e tanti dietologi e naturopati diffondono piani alimentari personalizzati in base al gruppo sanguigno o alla velocità del metabolismo.

Tutte queste pratiche fomentano l’ansia legata al cibo e turbano la vita delle persone. Per chi soffre di ortoressia, per esempio, mangiare diventa un atto altamente stressante, per questo tende a trascurare le relazioni interpersonali e si isola socialmente.

da Internazionale

Il 19 settembre tutti in piazza con un euro, contro il bavaglio all'informazione

Due bombe a mano scagliate contro la libertà di stampa (quella avvocatesca per le dieci domande di Repubblica sulle vicende del porno-Stato e quella giornalistica per i “moralismi” di Avvenire), e quelle minacciate contro i commissari europei da Danzica, fanno un unico botto. Dimostrano l’incapacità del regime berlusconiano di sopportare critiche e reprimende, di tollerare qualsiasi rilievo al governo di uno solo. Siamo al 1923, quando Mussolini preparò le leggi speciali contro la libertà di stampa, divenute operative il 3 gennaio 1925, dopo il delitto Matteotti : che aveva fatto traballare il regime delle camice nere e spinto gli estremisti – i consoli della Milizia più teppisti- a imporre la “controffensiva”: parola tornata molto di moda nella strategia della destra, dopo lo smacco per le porcate di Casoria, Sardegna e Roma, che stanno facendo traballare il nuovo regime. A cominciare dal suo pilastro esterno, il Vaticano, senza del quale, dice Gianni Letta, “in Italia non si governa a lungo”. Alla faccia del centocinquantenario dell’unità nazionale, e dell’indipendenza e sovranità dello Stato e della Chiesa conclamate nella costituzione. Perciò siamo lieti che la Federazione della stampa, l’Ordine, Articolo 21, partiti dell’opposizione e sindacati, abbiano deciso di portare in piazza, a giorni, il problema dell’informazione, prima che la ghigliottina cada anche sul Tg3 e sulla Terza Rete, coi suoi programmi di denuncia, “incompatibili” col consenso unanimista preteso dalla morente satrapia. La stampa non cloroformizzata, ormai minoritaria, ha espresso la sua solidarietà alle testate colpite dalla “controffensiva dei consoli”, e ci auguriamo che sia in piazza. Come lo fu altre volte, quando la volontà di lottare era più viva che non oggi. Eppure oggi la situazione è assai più grave per le libertà, perché siamo all’epilogo: o si ferma la mano liberticida o si finisce alle leggi speciali. Occorre qualcosa di più forte delle parole dei pur qualificatissimi personaggi che avranno il microfono: qualcosa di simbolico. La mia modesta e personale proposta è che giornalisti, lavoratori, artisti dello spettacolo, intellettuali, docenti, precari, vadano alla manifestazione e offrano a chi ne avrà titolo un euro : fino al milione chiesto da Berlusconi a Repubblica. Da tener pronti in un fondo di solidarietà (chiamiamolo “Soccorso costituzionale”) per ogni aggressione alla libertà di stampa: mi dicono che ce ne sia un'altra contro l'Unità, un'altra contro Di Pietro. Contro il terrorismo giudiziario, un euro è nulla, un milione di euro sono una notizia. Una notizia capace di aprire un altro capitolo nella guerra non ancora perduta tra repubblica democratica e sultanato.


ULTIME ADESIONI ALLA MANIFESTAZIONE PER LA LIBERTA' DI STAMPA

Italians for Darfur, FreeBurna, AnnaVicva, Tavola Pace, Events for Rights, UISP, Ettore Scola, Andrea Purgatori, Citto Maselli, Ugo Gregoretti, Laura Delli Colli, Giuliana Gamba, Emidio Greco

CLICCA QUI E FIRMA L'APPELLO PER L'ARTICOLO21 DELLA COSTITUZIONE
http://www.articolo21.info/22/appello/appello-per-larticolo21-della-costituzione.html

da MicroMega

La mafia, il potere e la cultura

Se provate a chiedere a un fruitore medio di fiction e di film sulla mafia che idea si sia fatto della stessa, vi sentirete sciorinare i nomi dei soliti noti: Riina, Provenzano, i casalesi e via elencando.

Sentirete evocare frammenti di una storia di bassa macelleria criminale, intessuta di omicidi, cadaveri sciolti nell’acido, estorsioni, traffici di stupefacenti, di cui sono esclusivi protagonisti personaggi di questa risma: gente che viene dalla campagna o dai quartieri degradati delle città, e che si esprime in un italiano approssimativo.
Una storia di brutti sporchi e cattivi, e sullo sfondo la complicità di qualche colletto bianco, di qualche pecora nera appartenente al mondo della gente “normale”. Ma, del resto, in quale famiglia non esiste qualche pecora nera?

Se dunque la mafia è solo quella rappresentata (tranne qualche eccezione) da fiction e film, è evidente che il fruitore medio tragga la conclusione che la soluzione del problema consista nel mettere in carcere quanti più brutti sporchi e cattivi, e nel fare appello alla buona volontà di tutti i cittadini onesti perché collaborino con lo sforzo indefesso delle forze di polizia e della magistratura per estirpare la mala pianta.

Questo, con le dovute varianti, il pastone culturale ammannito da fiction e film di conserva con la retorica ufficiale televisiva, e metabolizzato dall’immaginario collettivo.

Un pastone che non fornisce le chiavi per dare risposta ad alcune domande elementari.

Ad esempio come mai, tenuto conto che le cose sono così semplici, lo Stato italiano è riuscito a debellare il banditismo, il terrorismo e tante altre forme di criminalità, ma si rivela impotente dinanzi alla mafia che dall’unità d’Italia a oggi continua a imperversare in gran parte del Paese?

Come mai parlamenti, consigli regionali e comunali, organi di governo e di sottogoverno sono affollati di pregiudicati o inquisiti per mafia, tanto da insinuare il dubbio che quel che combattiamo fuori di noi sia dentro di noi?

Come mai, oggi come ieri, tra i capi organici della mafia vi è uno stuolo di famosi medici, avvocati, professionisti, imprenditori, molti dei quali già condannati con sentenze definitive?

Come mai commercianti e imprenditori a Palermo, a Napoli, in Calabria continuano a pagare in massa il pizzo e, a differenza del fruitore medio, non si bevono la buona novella che la mafia è alle corde?

Come mai i vertici di Confindustria lanciano tuoni e fulmini contro i piccoli commercianti che non hanno il coraggio di denunciare gli estorsori, minacciandoli di espellerli dall’organizzazione, ma vengono colti da improvvisa afasia quando si chiede loro perché intanto non comincino a prendere posizione nei confronti delle centinaia di imprenditori, inquisiti o già condannati, che hanno azzerato la libera concorrenza e costruito posizioni di oligopolio utilizzando il metodo mafioso?

Ecco, quando a un fruitore medio ponete queste e altre domande, lo vedrete annaspare cercando vanamente possibili risposte nell’infinita massa di fotogrammi, immagini e battute stipate nelle sue sinapsi, dopo centinaia di ore trascorse a vedere fiction e film che raccontano le note storie di brutti sporchi e cattivi.

Mentre sceneggiatori continuano a proiettare catarticamente il male di mafia sul monstrum (colui che viene messo in mostra) – Riina, Provenzano, Messina Denaro, i casalesi – elevato a icona totalizzante della negatività, centinaia di processi celebrati in questi ultimi quindici anni hanno raccontato un’altra storia della mafia, sacramentata da sentenze passate in giudicato, che fornisce risposte illuminanti a molte delle domande di cui sopra.

Un’altra storia intessuta di centinaia di delitti, di stragi di mafia decise in interni borghesi da persone come noi, che hanno fatto le nostre stesse scuole, frequentano i nostri stessi salotti, pregano il nostro stesso Dio ...

Un’altra storia che ha dimostrato come la città dell’ombra – quella degli assassini – e la città della luce, abitata dalle “persone perbene”, non siano affatto separate ma comunichino attraverso mille vie segrete, tanto da rivelarsi come due facce dello stesso mondo.

Un’altra storia che racconta l’osceno di questo Paese, quel che è avvenuto ob scenum, mettendo a nudo un fuori scena affollato di una moltitudine di sepolcri imbiancati che hanno armato la mano dei killer o li hanno protetti con il loro silenzio complice.

Che racconta come gli assassini arrivino sulla scena per buon ultimi, quando i sepolcri imbiancati hanno fallito nel fuori scena tutti i tentativi necessari per convincere la vittima ad ascoltare, per il suo bene e quello della sua famiglia, i consigli degli amici, sicché, come sono solite fare le persone istruite e timorose di Dio, allargando sconsolati le braccia ripetono: “Dio sa che è lui che ha voluto farsi uccidere ...”.

Centinaia di processi che costringono a rileggere la storia della mafia non più come una storia altra, che non ci appartiene e non ci chiama in causa, ma piuttosto come un terribile e irrisolto affare di famiglia, interno a una classe dirigente nazionale tra le più premoderne, violente e predatrici della storia occidentale, la cui criminalità si è estrinsecata nel corso dei secoli in tre forme: lo stragismo e l’omicidio politico, la corruzione sistemica e la mafia.

Tre forme criminali che essendo espressione del potere sono accomunate non a caso da un unico comune denominatore, che è il crisma stesso del potere: l’eterna impunità garantita ai mandanti eccellenti di stragi e omicidi politici e ai principali protagonisti delle vicende corruttive.

Una storia-matrioska nel cui ventre si celano centinaia di storie accertate con sentenze definitive, che sembrano fatte apposta per la felicità di qualsiasi sceneggiatore e regista che volesse prendersi la briga di narrarle.

Vogliamo provare a raccontarne solo una tra le tante?

C’era una volta..., anzi... mi correggo. Ci fu per una volta, e per un breve periodo, in un’isola di assolata e bruciante bellezza, un Presidente della Regione che si chiamava Piersanti Mattarella, notabile democristiano figlio di un ex Ministro, il quale si era messo in testa di cambiare il corso delle cose e di moralizzare la vita pubblica.

Iniziò quindi a promuovere leggi per controllare il modo in cui erano spesi i soldi della collettività, e a disporre ispezioni straordinarie per accertare come venivano assegnati gli appalti pubblici.

Gli amici gli consigliavano di lasciar perdere, ma lui non recedeva dai suoi propositi.

Lentamente, giorno dopo giorno, cominciò a trovarsi sempre più solo. Frequentarlo significava rischiare di restare impigliati dentro la «camera della morte». Così viene chiamata in Sicilia l’enorme e invisibile rete costruita sott’acqua per imprigionare i tonni, che, quando riemergono in superficie dal fondo della rete, si trovano circondati dalle barche disposte in cerchio e vengono finiti a colpi di arpione nel corso delle mattanze: bagni di sangue che evocano antichi rituali sacrificali dove vita e morte si confondono, giacché l’una si nutre dell’altra.

Quando Mattarella percepì attraverso il linguaggio mutigno dei gesti degli “amici” - i loro sguardi costernati, i loro silenzi imbarazzati - che il rullo dei tamburi di morte si faceva sempre più vicino, tentò di salvarsi la vita chiedendo aiuto a Roma ad alcuni vertici del suo partito e al Ministro degli Interni.

Al ritorno dalla sua trasferta romana, confidò alla sua segretaria che se gli fosse accaduto qualcosa la causa sarebbe stata da ricercarsi in quel viaggio romano.

Mentre Mattarella volava a Roma, un altro aereo si alzava segretamente in volo dalla Capitale verso la Sicilia.

A bordo si trovava uno degli uomini più potenti del Paese, personificazione stessa del potere statale: Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, ventidue volte Ministro.

Dove andava Andreotti in gran segreto? Partecipava a un incontro con i capi della mafia militare e quelli della mafia dei colletti bianchi: l’onorevole Salvo Lima e i cugini Nino e Ignazio Salvo.

In quel qualificato consesso si discuteva del “problema Mattarella”, quel democristiano anomalo che si ostinava a non ascoltare i buoni consigli degli “amici” e stava compromettendo gli interessi del sistema di potere mafioso.

Il 6 gennaio 1980, Mattarella fu ucciso sotto casa da un commando mafioso. Giulio Andreotti tornò segretamente in Sicilia e all’interno di una villa incontrò alcuni dei mafiosi assassini di Mattarella che, com’è sacramentato in una sentenza definitiva della Repubblica italiana, avrebbe coperto con il suo silenzio complice per il resto dei suoi giorni, garantendo così la loro impunità e alimentando il senso di onnipotenza della mafia (1).

Che ve ne pare? Non vi sembra una storia inventata apposta per un film?

Se, come diceva Hegel, il demonio si nasconde nel dettaglio, nel dettaglio di questa storia è leggibile il segreto dell’irredimibilità e della dimensione macropolitica del problema mafia, al di là delle imposture e dei depistaggi alimentati dal sapere ufficiale che lo spaccia come quella vicenda di bassa macelleria criminale di cui dicevo all’inizio.

Di storie simili se ne potrebbero raccontare per mille e una notte. Sono tutte racchiuse in un enorme giacimento a cielo aperto a disposizione di chiunque: le pagine dei tanti processi che con un tributo altissimo di sangue hanno per la prima volta in Italia portato sul banco degli imputati non solo i soliti brutti sporchi e cattivi, i bravi di Don Rodrigo, ma anche il “Principe” di cui essi sono stati instrumentum regni e scoria, e senza la cui protezione e complicità sarebbero stati da tempo spazzati via.

Un album di famiglia di “intoccabili”, che nel loro insieme ricompongono il segreto ritratto di Dorian Gray di una componente irredimibile della nostra classe dirigente: ministri, capi dei servizi segreti, vertici di polizia, parlamentari, alti magistrati, alti prelati, banchieri, uomini a capo di imperi economici.

Storie scomode perché chiamano in causa responsabilità collettive, costringono a interrogarsi sull’identità culturale del Paese e sul passato e sul futuro ... o sulla mancanza di futuro di un’Italia ancora troppo immatura per fare i conti con la propria storia e verità, e quindi condannata a vivere all’interno di una tragedia inceppata, destinata ciclicamente a ripetersi, pur nelle sue varianti storiche.

Storie scomode che dimostrano quanto sia fuori dalla realtà continuare a raccontare il come e il perché della mafia come una sorta di opera dei pupi dove vengono messi in scena solo eroi solitari - Orlando e Rinaldo - che guerreggiano contro turpi saraceni: Riina, Provenzano, ecc.

Dinanzi a tutto ciò, come spiegare il silenzio, la distrazione - che talora sembrano sconfinare nell’omertà culturale - di tanti sceneggiatori e registi? Induce a riflettere come tale omertà appaia perfettamente speculare a quella che caratterizza il discorso pubblico sulla mafia e sulla criminalità del potere, e come l’una e l’altra celino sotto il velo della retorica le piaghe della nazione.

Che pensare dinanzi a tante pellicole che, pure di ottima fattura, si rivelano tuttavia depistanti nel loro raccontare un universo mafioso quasi completamente decorrelato nella sua genesi e nelle sue dinamiche dal sistema di potere di cui è espressione e sottoprodotto?

L’equivalente di raccontare la storia dei bravi di manzoniana memoria come un sottomondo autorefenziale, tagliando il cordone ombelicale con il sopramondo dei Don Rodrigo.

L’equivalente di raccontare il Fascismo ascrivendone la responsabilità solo a un manipolo di esaltati gerarchi, e non già come l’autobiografia di una nazione.

La storia di questo Paese ricorda a tratti quella di certe famiglie che nel salotto buono mettono in bella mostra per gli ospiti le glorie e il decoro della casata, e nello scantinato nascondono la stanza di Barbablù che gronda sangue.

È lecito dubitare che la rimozione, alla quale ho accennato, sia solo frutto di distrazione o sottovalutazione?

Si può ipotizzare che costituisca la “fisiologica” declinazione dell’essere la mafia una delle forme in cui si è storicamente manifestata la criminalità del potere in Italia?

Il cardinale Mazzarino, gesuita di origine italiana, consigliere del Re di Francia Luigi XIV, soleva ripetere: «Il trono si conquista con le spade e i cannoni, ma si conserva con i dogmi e le superstizioni».

Questa massima riassume in modo magistrale l’esigenza di condizionare la costruzione del sapere sociale in modo da impedire al popolo di comprendere i segreti della macchina del potere, tra i quali i suoi crimini.

Proprio per questo motivo, da sempre il sistema di potere ha falsificato il sapere sociale sulla mafia.

Prima per decenni ne ha negato ostinatamente l’esistenza, poi, sino alla metà degli anni Ottanta, l’ha banalizzata a mera criminalità comune e, infine, dopo le stragi del 1992 e 1993, ha giocato la carta - sinora vincente - di ridurla a una storia di “mostri”, di orchi cattivi ...

Poiché, dunque, il sapere sociale non è mai innocente, viene da chiedersi sino a che punto la rimozione e l’adulterazione che caratterizza la rappresentazione filmica della mafia sia condizionata non solo dalle autocensure di chi ritiene sconveniente raccontare storie sgradite al potere, ma anche da un sistema che orienta la produzione, canalizzando le risorse solo sui film e le fiction “innocui” o, peggio, depistanti nel senso che contribuiscono a cristallizzare nell’immaginario collettivo i dogmi e le superstizioni tanto cari ai Mazzarino di ieri e a quelli di oggi.

Comunque sia, quel che accade - o meglio che non accade - chiama in causa la responsabilità di tutti coloro che lavorano nel mondo delle fiction e del cinema.

C’è una storia collettiva che attende ancora di essere raccontata e salvata dall’oblio organizzato, per restituire al Paese la sua verità e aiutarlo a divenire adulto.

Portarla alla luce in tanti processi è costato un altissimo prezzo: alcuni sono stati assassinati, altri - magistrati, poliziotti, semplici testimoni - segnati per il resto della vita.

Ora tocca a qualcun altro fare la sua parte.

E se ciò non dovesse avvenire, tra qualche anno dovremmo purtroppo fare nostra l’amara considerazione di Martin Luther King: «Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici».

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(1) Nella motivazione della sentenza n. 1564 del 2.5.2003 della Corte di Appello di Palermo nel processo a carico di Andreotti, confermata definitivamente in Cassazione, si legge: «E i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono, comunque, al di là dell’opinione che si voglia coltivare sulla configurabilità nella fattispecie del reato di associazione per delinquere, che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del Presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».

di Roberto Scarpinato, Procuratore della Repubblica Aggiunto di Palermo

Testo pubblicato per gentile concessione della rivista Duellanti, www.duellanti.com

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