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martedì 8 settembre 2009

FABIZIO DE ANDRE' - NELLA MIA ORA DI LIBERTA'



Le immagini sono tratte da il film "L'odio (La Haine), 1995 di Mathieu Kassovitz"

Nella mia ora di libertà - Fabrizio De André

Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà

se c'è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione.

È cominciata un'ora prima
e un'ora dopo era già finita
ho visto gente venire sola
e poi insieme verso l'uscita

non mi aspettavo un vostro errore
uomini e donne di tribunale
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci so stare
se fossi stato al vostro posto...
ma al vostro posto non ci sono stare.

Fuori dell'aula sulla strada
ma in mezzo al fuori anche fuori di là
ho chiesto al meglio della mia faccia
una polemica di dignità

tante le grinte, le ghigne, i musi,
vagli a spiegare che è primavera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera
e poi lo scanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera.

Tante le grinte, le ghigne, i musi,
poche le facce, tra loro lei,
si sta chiedendo tutto in un giorno
si suggerisce, ci giurerei
quel che dirà di me alla gente
quel che dirà ve lo dico io
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio
da un po' di tempo era un po' cambiato
ma non nel dirmi amore mio.

Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni.

E adesso imparo un sacco di cose
in mezzo agli altri vestiti uguali
tranne qual'è il crimine giusto
per non passare da criminali.

C'hanno insegnato la meraviglia
verso la gente che ruba il pane
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame.

Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
e abbiamo deciso di imprigionarli
durante l'ora di libertà
venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un'altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

8 SETTEMBRE 1943


Sandro Pertini, Il 25 luglio 1943.
Domenica 25 luglio: una serata come tante altre: Quando la radio diede il comunicato ci avevano già rinchiusi nel camerine. Eravamo più di settecento, nella stragrande maggioranza comunisti: Longo, Terracini, Scoccimarro, Camilla Ravera, Secchia. Poi c’erano Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, del partito d’azione, e anche gli anarchici, gente che veniva dalle prigioni, naturalmente, che aveva fatto la guerra in Spagna, che era stata nei campi di concentramento francesi. Alcuni di noi, ritenuti “pericolosissimi”, godevano di un trattamento speciale: venivano sorvegliati a vista. La mattina del 26 notai che i militi che avevano la consegna di pedinarmi erano costernati. Un agente gridò: “C’è una comunicazione importante: tutti in piazza”. Era lì che ci riunivano per l’appello; quando veniva letto il nostro nome bisognava rispondere: “Presente”. Una guardia non seppe star zitta, e si lasciò scappare una notizia che aspettavamo da vent’anni: “Hanno arrestato Mussolini”.
Scoprimmo così che c’era un nuovo governo, presieduto dal maresciallo Badoglio, e che la guerra continuava. Scoppiò un applauso, ma non si videro scene di esultanza clamorosa, il sentimento che prevalse fu un sentimento di angoscia per quello che ci aspettava: una eredità fallimentare. Presi subito contatto con alcuni compagni: “ Se non stiamo attenti”, dissi “può accadere qualcosa di grave”. Costituimmo un comitato, ne facevano parte ricordo, anche un albanese, che fu ucciso al ritorno in patria, e un libertario, Giovanni Damaschi, impiccato poi durante la lotta partigiana. Chiedemmo di essere ricevuti dal direttore della colonia penale, il commissario Guida, che diventò poi questore di Milano. Lo trovammo nel suo ufficio, era pallido, nervoso, aveva già fatto togliere il ritratto del duce. Gli spiegai che dal quel momento era il comitato che comandava, e lui doveva collaborare con noi, e come primo gesto, come prima prova di conversione era opportuno che impartisse l’ordine alla Milizia di smetterla di tenerci dietro; e quei giovanotti avrebbero fatto anche bene a togliersi la camicia nera e i distintivi e le cimici, come le chiamavano. Il dottor Guida poteva, saggiamente, per evitare inconvenienti, incorporarli nell’Esercito. Gli chiedemmo di far presente, con forte urgenza, al ministero dell’Interno, che c’era una logica conseguenza dei fatti: dovevamo essere tutti liberati e senza troppe formalità. Capivamo che, se i sorveglianti fossero intervenuti per frenare, controllare, sarebbe scoppiata una rissa furibonda, un macello. L’animo di molti era esasperato. Arrivai persino a disporre che le osterie servissero soltanto il vino necessario per consumare il pasto. Una sera fui fermato da due detenuti: “Hai fatto bene”, mi dissero “ma non dovevi proibire che si bevesse a volontà”. Incontrai uno con un fiasco in mano, ubriaco, e cercò di giustificarsi; c’era nella voce come un singhiozzo: “ Ho tanto atteso questo momento”. Noi laggiù, vivevamo secondo regole immutate, che dovevano essere rispettate con rigore: si poteva uscire dagli stanzoni, dove alloggiavano dalle tre alle cinquanta persone, verso le otto del mattino, bisognava rientrare per le otto di sera. Non si doveva superare un certo limite, appunto il confino. Camilla Ravera racconta nelle sue memorie che riuscì finalmente a scoprire le strade sassose, le siepi gialle dei fichi d’India, il mare grande e azzurro che ci circondava: immagini che erano vietate- Il tempo dell’attesa, passava lentamente, continuava ad arrivare il battello che partiva da Gaeta e trasportava i rifornimenti, la posta, i giornali; quando doveva sbarcare bestiame non c’era l’attracco, lo buttavano in acqua, con forti urla lo spingevano alla riva. Vedemmo arrivare una corvetta, che gettò l’ancora in una insenatura. A bordo c’era Mussolini. Scesero dei funzionari della Sicurezza, e avevano già deciso: lo avrebbero scaricato lì, ma ad un tratto si imbatterono in un ufficiale tedesco. Chiesero a Guida cosa ci stava a fare e così seppero che sulla costa c’era una batteria antiaerea, con cento soldati. Allora pensarono di cambiare rotta. Non tenevano in alcun conto la nostra presenza e il rischio che comportava. Andammo subito dal direttore per fargli presente il pericolo: ci disse: “So perché siete venuti, ma state tranquilli. Lo hanno già portato a Ponza”. Lo misero nella casa dove lui aveva fatto alloggiare Ras Immirù, l’abissino che aveva guidato le truppe del Negus e che, dopo la sconfitta, rifiutò di sottomettersi. Era un uomo pieno di dignità, alto, severo, portava un lungo mantello nero. Mussolini io lo vidi dunque una sola volta: all’arcivescovado di Milano, nell’aprile del 1945, lui scendeva le scale, io le salivo. Era emaciato, la faccia livida, distrutto. Tutte le mattine io andavo da Guida, per dargli le disposizioni. A Roma si muovevano molto adagio. Continuavamo a vivere secondo le consuete abitudini. Ricevevamo la “mazzetta”, una quota per acquistare i viveri: si versava un tanto, quelli del Pci avevano organizzato le mense collettive, c’erano dei cuochi che preparavano il pranzo e la cena per tutti. Ognuno di noi a turno, doveva fare il cameriere o il lavapiatti, apparecchiare, ripulire il refettorio. I comunisti dedicavano molte ore allo studio, avevano la loro scuola e quando arrivava materiale clandestino dall’Unione Sovietica o da Parigi discutevano le tesi politiche e non sempre erano d’accordo, così nascevano dure condanne e drammatici silenzi. Ed ecco il fausto momento: partì finalmente il primo veliero, ci furono molti abbracci, e quelli che se ne andavano stavano aggrappati alle sartie per salutarci, e noi eravamo lì sul molo, quelli sventolavano i fazzoletti, c’era un confinato che aveva portato con sé il bombardino, lo aveva salvato nelle trincee delle Asturie, nei campi di Vichy, attaccò l’inno di Mameli e noi ci mettemmo a cantare con passione, con ira, “va fuori d’Italia”, e quelli della Wehrmacht che capivano, ci fissavano cupi. Noi non dovevamo avere contatti con la popolazione, e temendo il peggio, lo scatenarsi di chissà quali cupidigie, tutte le ragazze, le donne giovani, erano state allontanate. Allora io dissi a Guida che potevano ritornare, non sarebbe accaduto niente. Un giorno il direttore mi mandò a chiamare: “Ho una bella novità per voi. È arrivato il telegramma che dispone per la vostra liberazione”. “Grazie, dissi, però non me ne vado finché qui resta uno solo di noi”. Ma Camilla Ravera, che diede sempre prova di una straordinaria forza morale, Terracini, e altri, mi convinsero che dovevo partire, per andare a perorare la causa dei detenuti, e così non diedi pace a Senise, Capo della Polizia, e a Ricci, che era agli Interni. Li andavo a trovare ogni giorno con Bruno Buozzi. Erano restii, avevano nei confronti dei comunisti paura e odio. Minacciammo uno sciopero generale, e l’argomento li convinse. Quando arrivò l’ultimo di Ventotene, potei andare a trovare mia madre. Era molto vecchia e mi attendeva. Strava sempre seduta su un muretto che circondava la nostra casa. “Che cosa fa, signora?” le domandavano. “Aspetto Sandro”, rispondeva. Poi, rientrai nella capitale. Ero diventato con Nenni, con Saragat, membro dell’esecutivo del partito, e con Giorgio Amendola e Bauer facevo parte della Giunta Militare. Venne l’8 settembre e fui a Porta San Paolo, c’erano anche Longo, Lussu e Vassalli, e gli ufficiali dei granatieri sparavano e piangevano: “Il re ci ha lasciati, il re ci ha traditi”. Vittorio Emanuele III e Badoglio fuggivano verso Pescara, i tedeschi si preparavano a liberare Mussolini, cominciava un’altra triste e lunga storia.

Enzo Biagi, Quel 25 luglio 1943. Pertini, in “La Stampa”, 7 agosto 1973

da Indymedia

COS'E' CAMBIATO ??? BRAVISSIMO COME ATTORE

Lamezia Terme: fuga dal Cie. La polizia spara lacrimogeni

LAMEZIA TERME (CATANZARO) - Sei immigrati sono riusciti a scappare nella serata di ieri dal Centro identificazione ed espulsione (Cie) di Lamezia Terme, a Catanzaro, dove erano detenuti perché sprovvisti di documenti di soggiorno. Non si conosce la loro nazionalità, ma pare che fossero tutti originari del Maghreb. I sei sono riusciti a scavalcare l'alta rete di recinzione esterna del centro. Gli agenti in servizio di vigilanza, per evitare che anche altri potessero seguirli, hanno lanciato alcuni lacrimogeni. Sul posto sono poi intervenute diverse pattuglie di polizia e carabinieri che poco dopo hanno bloccato tre dei sei fuggitivi mentre si aggiravano nelle campagne di Lamezia. L'evasione di Lamezia segue quella di Brindisi della scorsa settimana, e quelle di Gradisca e Bari. Segno che la tensione nei Cie continua a essere alta

Un buon compleanno, Emergency


L'associazione compie quindici anni e quasi tre milioni e mezzo di persone curate. E li festeggia a Firenze

Si è tenuta lunedì la conferenza stampa di lancio dell'Incontro nazionale di Emergency che si terrà a Firenze dall'8 al 13 settembre. A fare gli onori di casa Maso Notarianni, direttore di Peace Reporter e componente del Direttivo di Emergency, con a fianco Paolo Hendel, uno degli artisti che parteciperanno alla settimana di Firenze, Massimo Toschi per la Regione Toscana e Stefania Saccardi per il comune di Firenze. Notarianni ha ricordato come, in 15 anni, Emergency abbia curato circa 3 milioni di persone e come tutti gli ospedali di Emergency siano di altissimo livello. «Il criterio al quale ci atteniamo – ha detto – è questo “ci faremmo curare i nostri figli?”.» E in particolare ha citato l'ospedale di Khartoum, sostenuto dalla Regione Toscana, che – ha aggiunto - «rappresenta il meglio della cardiochirurgia mondiale».

«In questi 15 anni – ha spiegato ancora Notarianni – abbiamo curato tutti, senza distinzioni, abbiamo messo a disposizione ospedali belli, perchè chi è in guerra ha diritto di essere curato in strutture belle, abbiamo imparato che la pace si può fare e che costa molto meno che fare la guerra. Costruire e far funzionare un ospedale di Emergency – ha concluso – certo costa molto meno che comprare un cacciabombardiere ».

«Sono stato sabato scorso a Milano, con il Gonfalone della Regione Toscana, per i funerali di Teresa Sarti Strada, la fondatrice insieme a Gino Strada di Emergency. L'ho fatto perchè noi siamo debitori verso Teresa e verso Emergency, lo è il nostro Paese, l'Italia», ha detto Massimo Toschi, assessore regionale alla cooperazione internazionale, alla conferenza stampa tenuta oggi, al Nelson Mandela Forum di Firenze, durante la conferenza stampa organizzata per presentare la settimana di Emergency, che si terrà nel capoluogo toscano da oggi al 13 settembre. «Sono stato a Kabul – ha ricordato Toschi – e sono stato a Khartoum per l'inaugurazione dell'ospedale. Ho visto Gino Strada operare, non era solo un'operazione chirurgica, la sua, ma una liturgia d'amore. E ancora, ricordando Teresa Strada: «E' salita in cielo una stella luminosa e bellissima. Nella notte del mondo c'è una stella che indica la pace. Questa stella è Teresa.»

Paolo Hendel ha poi spiegato il senso della sua partecipazione, insieme a molti altri artisti, alla settimana di Emergency. «Ma come si può non sostenere – ha detto Hendel – un'associazione di volontari, medici e paramedici che salva le persone nelle zone di guerra del mondo. Sono eroici. Comunque all'incontro nazionale di Firenze non partecipa Hendel, ma Carcarlo Pravettoni, l'industriale cinico e baro che costruisce le mine antiuomo. Con Emergency c'è una complementarietà, perchè Pravettoni fa le mine antiuomo, Emergency fa di tutto per toglierle e Pravettoni ce le rimette subito.»

da PeaceReporter

Tutti in piazza contro lo squadrismo mediatico

Anche per chi, come il sottoscritto, neppure un giorno di “ferie” ha potuto concedersi, il rientro nella quotidianità politico-mediatica, dopo un agosto in cui abbiamo continuato a sentire notizie sulla maschia possanza del Grande Capo, e ne abbiamo (colpevolmente) sogghignato, è sconvolgente.

La crisi, a quanto pare, sta cambiando obiettivo: ora saranno presi di mira soprattutto gli occupati da gettare sul lastrico: la chiameranno, eufemisticamente, “disoccupazione strutturale”; ma il governo continua a dire che noi stiamo meglio degli altri, e ci ordina di essere ottimisti, e magari a sputare in faccia ai seminatori di panico, gli inguaribili e ignobili pessimisti (ovviamente comunisti, o loro “utili idioti”). Su questa strada, il faro dell’ottimismo obbligatorio, dopo il venditore, è il suo grottesco spaccamontagne Brunetta, il nostro-Nobel-mancato-ma-di-poco. Dal canto suo, il sodale ministrino-Tremonti-dalla-voce-chioccia, porta avanti la sua personale battaglia di frizzi e lazzi contro le banche, a cui peraltro va tutto il sostegno governativo, in nome della “gente” o del “popolo”; e, poiché, esiste ancora un manipolo di economisti veri, e seri, non piegati al volere dei potenti, non trova di meglio che invitarli a star zitti, con modi bruschi e un sarcasmo stupefacente sulla bocca di chi si vanta di non aver studiato economia.

A tacere, del resto, il suo leader invita tutti noi, anzi ordina, praticamente ogni giorno, dopo la sua troppo breve vacanza in Sardegna, isola che ormai gli appartiene (tale si intuisce sia la percezione vagamente distorta del Cavaliere): il silenzio dev’essere davvero d’oro, se con tanta affettuosa o irritata insistenza ci ingiungono di perseguirlo. Le sole parole consentite sono gli assist al Capo, per permettergli di insaccare la battuta di turno, per raccontare una di quelle orribili barzellette di cui va tanto fiero: o, naturalmente, per assentire, sorridere, applaudire. Lo ricordate il famoso dialogo con la folla di Nerone, nella mirabile e irripetibile gag di Ettore Petrolini? “E noi faremo Roma, più grande e più bella che pria…” – “Bravo!” – “Grazie!” – “Prego”; e così via per una manciata di minuti, con il “Bravo!” che finisce per anticipare la frase di Nerone, e di seguito. Irresistibile. Petrolini, indubbiamente, aveva sotto gli occhi il modello (anch’esso irraggiungibile) di un altro Capo, al balcone di Palazzo Venezia.

Oggi, quella scenetta torna alla mente, davanti alle memorabili esternazioni del Cavaliere, ma che finora, ha indotto a qualche rabbuffo o, nei casi estremi, all’espressione di una “preoccupazione”. Anzi, v’è chi, ancora, invita a non cadere nell’“antiberlusconismo”, a non “fare il gioco dell’avversario” (il virus veltroniano a quanto pare non è debellato). Siamo insomma tutti cloroformizzati? Fortunatamente, no: ci sono voci che ancora osano levarsi, e dicono la verità – che pure è lampante – cercando di risvegliare i dormienti o di metter sull’avviso gli ottimisti. E qual è la verità? La stessa che si parava dinnanzi agli italiani nel 1922: ma anche allora v’era chi si accontentava di ripetere “nutro fiducia” (così l’ultimo presidente del Consiglio, prima di Mussolini, il liberale giolittiano Facta), chi si intestardiva a esprimere auspici, o proferiva inviti: alla buona volontà, al dialogo, alla calma. E le basi della dittatura, intanto, venivano poste.

Certo, allora c’erano le camicie nere, che scorazzavano per il Paese, nell’indifferenza delle “forze dell’ordine”, che, anzi, spesso e volentieri, davano loro manforte: e somministravano manganellate, colpi di rivoltella e di pugnale, e purghe antisovversive ai sospetti socialisti, bolscevichi, nemici della patria. Oggi abbiamo le buffonesche camicie verdi, e le loro filiazioni: le “ronde”.

Ne stiamo sorridendo, così come sorridiamo inebetiti davanti all’olio di ricino che ci ammannisce la televisione, ogni santissima sera. Questo è lo squadrismo odierno; meno appariscente, e più pericoloso di quello del “biennio nero”. E invece di ribellarci, finiamo per cedere, per stanchezza, per sfiducia in noi stessi, o semplicemente travolti dalla nostra impegnativa quotidianità, alle squadre d’azione televisive, e beviamo, complici o succubi, quell’intruglio velenoso che chiamano infotainment: informazione mescolata all’intrattenimento, dove il secondo dovrebbe essere la cornice della prima: ma quel tipo di “intrattenimento” è pensato come un “trattamento”, una forma di svuotamento del cervello dello spettatore, in modo che vada opportunamente riempito di menzogne e falsità dalla parte “informativa”.

E l’aspirante duce, non pago di tutto ciò, nelle pause della più impegnativa delle sue “grandi opere” – il sesso, perlopiù a pagamento – si dedica quotidianamente all’esercizio dell’ingiuria e dell’intimidazione degli avversari, o semplicemente, di quei pochi che ancora non sono sul suo chilometrico libro-paga. E ci si invita ad “abbassare i toni”!? Giammai. I toni vanno alzati. La mobilitazione deve essere immediata, generale, capillare. Possibile che lo si capisca fuori d’Italia, dove i gridi d’allarme sulla tenuta democratica del Bel Paese si lanciano un po’ dappertutto; e noi ci accontentiamo del diritto al mugugno oppure, ahimè, facendo come “lui”, ci riduciamo al motto di spirito? Vogliamo renderci conto che dobbiamo svegliarci? Hannibal ad portas! Dunque, per cominciare, tutti a Roma, il 19 settembre!

Angelo d'Orsi da Micromega

IL GIAPPONE CANCELLA IL DEBITO

È stato annullato dal governo del Giappone il debito del Burundi, equivalente a oltre 24 milioni di euro. “La cancellazione del debito serve ad aiutare l’economia burundese e a rafforzare le relazioni di cooperazione tra i due paesi” ha detto l’ambasciatore nipponico Shigeo Iwatani a Bujumbura, annunciando uno stanziamento di circa sette milioni di euro destinato al miglioramento dei trasporti.Sin dal 2006, la cooperazione giapponese ha investito circa 50 milioni di euro nell’aiuto allo sviluppo del Burundi, nei settori della sanità, dei trasporti, delle infrastrutture stradali, della sicurezza alimentare e per il consolidamento della pace, dopo una guerra civile in parte conclusa nel 2000 con gli accordi di Arusha. Il piccolo paese affacciato sul Lago Tanganica si sta preparando alle elezioni generali, previste per il 2010.

da Misna

Roma, svastica di due metri sul portone del presidente della Comunità ebraica

ROMA (7 settembre) - Una svastica alta circa due metri è stata disegnata sul portone dell'abitazione del presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, in via Fonteiana. La svastica, tracciata senza sigle di rivendicazione, è stata disegnata con una particolare vernice trasparente che si nota solo in controluce. La polizia, Digos e Commissariato Monteverde, ha avviato rilievi scientifici e indagini.

«La svastica è di mesi fa», dice in una nota la portavoce della comunità ebraica di Roma, Ester Mieli. «Per dovere di cronaca siamo obbligati a precisare che la notizia data oggi circa la svastica ritrovata sul portone di casa del Presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, risale ad alcuni mesi fa, quando sì era preferito non rendere nota la cosa. Ieri, il portone sembrava di nuovo imbrattato, mentre dai confronti con l'arma dei carabinieri si è capito che si trattava di una vecchia svastica, già denunciata alle forze dell'ordine. Ringraziamo il mondo politico, che in modo bipartisan ha condannato e espresso solidarietà al Presidente. Attendiamo comunque l'esito delle indagini della Digos, riguardo all'episodio dei mesi trascorsi».

Alemanno: gesto inqualificabile. «Nell'esprimere la mia solidarietà a Riccardo Pacifici e a tutta la comunità ebraica, condanno con la massima fermezza queste istigazioni all'intolleranza e all'odio razziale, inqualificabili di per sè e veramente indegne di Roma, capitale del dialogo interreligioso». Lo dichiara il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «Rigettando ogni forma di discriminazione, che sottrae libertà e diritti alla persona umana, auspico che su questo episodio vergognoso, che dimostra tutta la viltà di chi lo ha concepito, venga fatta al più presto la massima chiarezza», conclude il sindaco.

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=72329&sez=HOME_ROMA

da Antifa

Shock Journalism - La libertà di informazione a L'Aquila

Piazza D’Armi è la prima tendopoli dell’Aquila che viene smantellata ed è il campo di accoglienza che è stato, per vari motivi, sotto i riflettori dei media mainstream per più tempo. I residenti sono stati informati dello smantellamento del campo con 48 ore di preavviso; le assegnazioni ai nuovi alloggi provvisori (in alberghi aquilani – di cui uno nella zona rossa – o sulla montagna, o sulla costa, alla Caserma della Guardia di Finanza, in luoghi ancora da definire mentre scrivo), dopo oltre 5 mesi di vita nella tendopoli, si sono svolte in un clima di confusione e incertezza. Alcuni residenti del campo si sono definiti, in uno striscione, “I Ri-sfollati di Piazza d’Armi” e dicono che questo è come un secondo terremoto. Ciò si ripeterà fatalmente in tutti gli altri campi di accoglienza (125 al primo di settembre, con 15.892 persone alloggiate). Ecco perché esiste un’urgenza di documentare quel che accade all’interno del campo di Piazza d’Armi.

Per due giorni entro nel campo come visitatore semplice e rimango all’interno per ore, parlando con le persone. Intervistarli con la telecamera accesa è difficile. Devo fare le riprese in angoli nascosti. Spesso mi si chiede di oscurare il viso e modificare la voce di chi rilascia le poche dichiarazioni che ottengo. Quasi tutti temono che parlare a un giornalista possa nuocere loro per l’assegnazione dei prossimi alloggi temporanei.

Filmo, con la telecamera nascosta, qualche minuto della surreale festa di chiusura del campo, con balli di gruppo e karaoke, proprio come se si trattasse di un campeggio: ma non festeggiano in molti.

Filmo, insieme a cameraman e fotografi accreditati, lo smontaggio della prima tenda, la numero 92. E’ vuota da tempo. Viene smontata da una squadra dell’esercito ad uso e consumo di telecamere e macchine fotografiche. Perché qui, di solito, funziona così: si formano i pool di giornalisti, per documentare. Ci si iscrive, si viene condotti in loco, scortati dalle forze dell’ordine o dalla Protezione Civile o da entrambi e poi riportati via. Finito lo smontaggio della tenda, l’evento per il pool, la squadra dell’esercito si fa una foto di gruppo davanti ai tre sacchi che contengono la tenda e se ne va, seguita dalla stampa. Io rimango all’interno.

Il terzo giorno, 5 settembre 2009, decido di provare a entrare palesandomi come giornalista, insieme a un collega fotografo, Jànos, e a Sara Maddalena Cocuzzi, una ragazza aquilana che vuole documentare lo smantellamento del campo e portare all’interno del campo stesso i volantini che invitano la cittadinanza a partecipare all’Assemblea Cittadina che si terrà alle 17 del giorno stesso in Piazza Duomo e, a seguire, alla fiaccolata di commemorazione delle vittime del terremoto.

La stessa persona che mi ha fatto entrare come visitatore per due giorni, mi dice che essendo io un giornalista le cose cambiano: l’ingresso mi viene negato e mi si dice che dovrei prendere contatti con l’Ufficio Stampa della Protezione Civile. Sara viene invitata a recarsi dal capocampo; interviene anche la Digos che interroga lei e Jànos, ed esamina il contenuto del volantino.

Sara dichiara, in merito: “L’atteggiamento era molto conciliante, come se loro fossero intimamente d’accordo con me, come se non per loro scelta ma per disposizioni superiori dovessero per forza bloccarmi all’ingresso. Per più volte mi è stato ripetuto che non potevo entrare a dare volantini perché le persone sono shockate e non sono in grado di recepire in maniera corretta le informazioni che cercavo di veicolare. E per più volte mi è stato ripetuto che, però, siamo in democrazia”.

Veniamo pacificamente ma fermamente invitati a andarcene. Mi trovo a citare l’articolo 21 della Costituzione Italiana, cosa che mi capiterà parecchie volte in questi giorni, quasi sempre senza alcun successo.

Poche ore dopo telefono all’ufficio stampa della Protezione Civile (la telefonata viene ovviamente registrata) e faccio una breve relazione dell’accaduto. Mi sento rispondere, fra l’altro, che di fatto cercare di entrare in una tendopoli è come cercare di entrare in casa d’altri e che il capocampo sa se è bene o no che io entri, sa se la popolazione del campo (circa 1000 persone, nello specifico) vuole o meno che io faccia domande in giro. Mi dichiaro perplesso in merito. Vengo invitato a mandare una mail con la mia richiesta e a quel punto mi diranno cosa si può fare; io so bene cosa accadrà, in quel caso, perché mi è già successo ed è quello che succede ogni giorno a quasi tutti i colleghi giornalisti: mi verrà concesso l’ingresso e verrò accompagnato da un addetto della Protezione Civile che mi seguirà in ogni passo all’interno del campo. E la gente non parlerà.

Nel corso del primo pomeriggio, un gruppo di aquilani tenta di volantinare per comunicare alla popolazione dei due campi di Acquasanta – nei pressi del cimitero dell’Aquila - che Piazza Duomo sarà aperta fino a mezzanotte, per l’Assemblea Cittadina e la commemorazione dei morti del 6 aprile.

Vengono respinti all’ingresso. Così, ritorniamo insieme, con la telecamera accesa e in presenza di un avvocato e, dopo una serie di discussioni, si entra in entrambi i campi. Nel primo non ci prendono nemmeno i documenti - sebbene gli astanti abbiano palesato la volontà di identificarsi - nel secondo ci registrano all’ingresso, dopo aver intimato al sottoscritto di spegnere la telecamera. Che ovviamente non viene spenta.

Ecco. La varietà di risultati ottenuti nel corso dei diversi tentativi dimostra la totale assenza - o perlomeno l’arbitrarietà – delle disposizioni, che vengono continuamente citate dagli addetti della Protezione Civile ma non ci vengono mai fatte leggere, nonostante ripetute richieste.

Così, decidiamo di fare un tentativo diverso il giorno seguente, 6 settembre: un residente della tendopoli di Piazza d’Armi ci invita (il sottoscritto, altri cameraman, fotografi, cittadini aquilani), a entrare dentro al campo come suoi ospiti: la sua intenzione è quella di raccontarci la sua storia dall’interno della sua tenda.

Nonostante l’invito, veniamo immediatamente bloccati all’ingresso. Paradossale, considerato il fatto che la tenda è domicilio di chi vi risiede per ammissione stessa di uno psicologo della Protezione Civile. E’ casa sua.

Mentre si discute, diamo una telecamera a un altro residente del campo: viene impedito l’ingresso anche a lui; sia chiaro: nel corso della surreale festa per la chiusura del campo, quella con i balli di gruppo e karaoke, i residenti avevano telecamere e macchine fotografiche che utilizzavano senza problemi.

Il capocampo cerca di mostrarsi in qualche modo conciliante. Si allontana. Ritorna dopo venti minuti e comunica che il sottoscritto, in quanto iscritto all’Ordine dei Giornalisti, può entrare nel campo, così come l’avvocato che ci ha accompagnati.

Quanto agli aquilani che fanno parte dei comitati e che hanno intenzione, fra l’altro, di creare un osservatorio sullo smantellamento dei campi, dovranno produrre un documento scritto e una lista di persone scelte per l’ingresso nelle tendopoli. Documento che dovrà essere vagliato dal Dicomac (Direzione di Comando e Controllo della Protezione Civile)

Il fatto che io possa entrare, finalmente, mi fa pensare di poter documentare, alla luce del sole, sia le operazioni di smantellamento – non quelle allestite come in una piccola Cinecittà per la stampa ufficiale: quelle vere – sia le storie delle persone.

Purtroppo però il mio ingresso ufficiale nella tendopoli è accompagnato non solo da due funzionari della Protezione Civile ma anche da due carabinieri (come testimoniato dall’immagine scattata da Jànos): restano dietro di me per tutto il tempo, mi seguono e mi scortano. Il risultato è che non riesco a parlare praticamente con nessuno dei residenti: mi si dice anche, come battuta, “adesso non è che andrete a dire che la gente è stata intimidita e per questo non ha parlato”.

No, non andrò a dire solo questo. Andrò a dire, e a scrivere, che mi sono sentito e mi sento intimidito io stesso nell’esercizio del mio lavoro; che l’informazione all’Aquila non è libera; che di fatto la stampa è sottoposta sia ad autorizzazioni sia a censure, in barba a quell’articolo 21 della Costituzione Italiana che mai come in questi giorni ho dovuto citare.

Andrò a dire, e scrivere, che la stragrande maggioranza del giornalismo che viene prodotto qui è totalmente embedded, è un giornalismo che troppo spesso va a letto con le istituzioni, sia quelle tradizionali sia quelle dell’emergenza. Lo chiamerei shock journalism.

Ci sono poi altre considerazioni. E’ Jànos a farle, ma il sottoscritto le condivide parola per parola: “Noi cerchiamo e cercheremo di continuare a fare il nostro lavoro senza farci distrarre o intimidire, cercando di raccontare i fatti e dando voce agli Aquilani. Ma un dubbio ci sorge: perchè tutto questo? Perchè se io voglio documentare lo smantellamento della tendopoli mi trovo a parlare con la Digos? Perchè i giornalisti accreditati vengono scortati dai carabinieri? Perchè deve essere il capocampo a decidere se gli abitanti della tendopoli vogliono o non vogliono parlare con i giornalisti? Perchè tutti questi divieti di riprendere, di fotografare, di fare volantinaggio?

Il nostro lavoro non è quello di fare supposizioni, ma quello di guardare alla realtà, documentarla e cercare di capirla. Tuttavia, muovendosi tra protezione civile, polizia, carabinieri e persone troppo spaventate per rilasciare un’intervista, è difficile ignorare la strisciante sensazione che ci possa essere qualcosa da nascondere e che quelli che prendono le decisioni in questo Paese pensino che la libera informazione sia, all’occorrenza, qualcosa da limitare o da vietare e basta. Personalmente cercheremo di dare una risposta ai nostri dubbi, ma una cosa la vogliamo dire comunqe: noi in Italia queste cose le abbiamo già viste, e sappiamo anche come vanno a finire.”


Related Link: http://www.ikproduzioni.it/blog/index.php/2009/09/07/sh...e-all

da abruzzo.indymedia

La crisi nel Salento: 106 su 119 sono i lavoratori della Nardò Techinical Center Srl in Cassa integrazione fino al 17 ottobre...

La CGIL presenta i dati ed avverte: la situazione nella provincia di Lecce può precipitare nel giro di poche settimane.

Il segretario Arnesano: “Alto il rischio occupazionale per centinaia di lavoratori: occorre intervenire perché le crisi non esplodano”. I Sindacati richiedono unitariamente anche un incontro con il presidente della Provincia per affrontare i temi caldi del territorio: lavoro, politiche sociali, trasporti La crisi continua a colpire la provincia di Lecce. A dirlo sono i dati sull’occupazione nei settori produttivi più importanti dell’economia del territorio: dal commercio al metalmeccanico, dall’edilizia al tessile, non si intravedono segni di inversione di tendenza: “Semmai si fa sempre più vicina la prospettiva che, dopo l’estate, la situazione precipiti. – afferma Salvatore Arnesano, Segretario generale provinciale della CGIL Lecce – Basti guardare alla condizione di aziende importanti che hanno centinaia di lavoratori a rischio occupazione, dal momento che stanno per esaurirsi le settimane di Cassa Integrazione Ordinaria (CIGO, ndr)”.

Per questo il Segretario della Confederazione provinciale annuncia una serie di azioni, su più fronti, che il Sindacato è pronto a far partire per la difesa dei posti di lavoro e per arginare quanto più possibile il crollo delle imprese locali. “Vivendo fianco a fianco con i drammi occupazionali dei lavoratori e rappresentando il mondo del lavoro, - continua Arnesano - abbiamo il dovere di dire forte e chiaro che la crisi c’è e sta mettendo a dura prova i nostri settori produttivi; che sono tante e troppe le situazioni di criticità nelle aziende”. Ecco alcuni dati, tra i più rilevanti, settore per settore. Finora i lavoratori del metalmeccanico interessati dalla Cassa integrazione nel Salento sono 1.080 su 1.776. L’intero indotto Fiat-CNH ad oggi non ha ripreso le attività: CNH Italia spa ha 450 lavoratori, su 545, in CIGO fino al 3 ottobre 2009. Sempre nell’indotto, l’azienda Alcar Srl ha 318 dipendenti in CIGO su 340 unità fino al 22 novembre 2009. 106 su 119 sono i lavoratori della Nardò Techinical Center Srl in Cassa integrazione fino al 17 ottobre; mentre per i 42 lavoratori di Casta Srl si è ancora in attesa di un provvedimento. Nel settore tessile-calzaturiero una boccata d’ossigeno per i lavoratori della Romano Spa di Matino con 200 unità in cassa integrazione su 348 dipendenti: “Abbiamo concluso positivamente l’incontro tenuto presso il Ministero questo giovedì 3 settembre - annuncia il Segretario generale della CGIL: - Siamo riusciti a ottenere un altro anno di Cassa integrazione straordinaria, prorogata fino al 31 agosto 2010”.

Ancora in attesa della pubblicazione di un decreto invece per gli oltre 640 lavoratori delle aziende del gruppo Filanto: l’azienda Zodiaco Srl ha 210 lavoratori su 230 in CIGS fino al 31 ottobre 2009; 110 su 160 in CIGS fino ad aprile 2010 per Tecnosuole Srl. Per quanto riguarda Adelchi, invece, il Sindacato è in attesa di una convocazione per approfondire i dettagli di un nuovo progetto dell’azienda; al momento però sono ben 490 i lavoratori in cassa integrazione straordinaria. Per due aziende satellite del Gruppo Adelchi sono stati raggiunti recentemente gli accordi per la cassa integrazione straordinaria: 338 i lavoratori di CRC Srl di Tricase in CIGS dal 6 luglio 2009 al 5 luglio 2005; stessa durata la cassa integrazione per 142 dipendenti della Nuova Adelchi. Tutt’altro che rosea la situazione nel settore dell’edilizia: il Gruppo Palumbo (Leadri, Pal Strade, Cocemer) non dà nessuna garanzia ai suoi dipendenti per le prossime settimane: ben 95 su circa 200 sono in cassa integrazione. Sempre nel settore delle costruzioni sono in CIGO anche 36 lavoratori della Petito Srl; 20 quelli della Socim e 15 della Imcev Srl. Contratti di Solidarietà sono stati sottoscritti invece in diverse aziende del settore commercio come la GIEFFE srl che ha interessato i 29 dipendenti, come la BILLA Iperstanda con 76 dipendenti, la CAM Ventura con 63 dipendenti e l’AUTOSAT con 51 dipendenti. Anche il settore commercio è stato investito dalla CIG l’esempio eloquente è la CARREFOUR di Cavallino con 220 dipendenti in CIG a rotazione.

Per loro si è in attesa di un riscontro dopo l’incontro delle Organizzazioni sindacali con la Conad Lecrerk che si terrà a Roma domani, martedì 8 settembre. Ben nota, a causa delle proteste in tutto il paese, è la condizione dei precari della Scuola, che, anche a Lecce, hanno manifestato nei giorni scorsi davanti alla Prefettura: “Gli effetti della Riforma Gelmini - sottolinea Arnesano - si traducono nella nostra provincia in tagli per centinaia di docenti, con conseguenze pesantissime sull’occupazione nel nostro territorio. Nella provincia di Lecce almeno 500 precari, tra docenti e personale tecnico amministrativo, non lavoreranno più, tra i docenti di ruolo numerosissimi sono stati i soprannumerari e elevati gli esuberi. I recenti incontri con il Governo sulla situazione della scuola, e in particolare su quella del personale precario, non hanno sortito alcun effetto positivo: nessuna risorsa in più per i precari, conferma dei tagli previsti anche per i prossimi anni, nessuna certezza sulle stabilizzazioni del personale docente e ATA”. Anche nel settore agro-alimentare aumenta il dato della CIG: è il caso della Copersalento, in cui tutti i dipendenti (35 più 7 in mobilità) sono a casa con la Cassa integrazione ordinaria.

“Ci auguriamo di arrivare a un punto sulla delicata vicenda di Copersalento – sottolinea a questo proposito il Segretario Arnesano – Per questo rilanciamo la richiesta di riunire un tavolo tecnico presso la Provincia di Lecce per fare chiarezza sulla questione ambientale e individuare le possibili soluzioni per la tutela dei livelli occupazionali”. La Presidenza della Provincia di Lecce, inoltre, è stata in questi giorni interpellata unitariamente dai sindacati Cgil, Cisl e Uil per un incontro urgente in cui affrontare i temi più caldi del territorio: Sviluppo del territorio e programmazione negoziata; Misure del mercato del lavoro e strumenti anti crisi; Politiche sociali; Problematiche ambientali e rifiuti; Formazione professionale; Trasporti. “La richiesta – spiega Arnesano - è motivata in particolare dal fatto che, in un momento in cui gli effetti della crisi esasperano gli elementi di debolezza e arretratezza territoriale, diventa opportuno e necessario il coinvolgimento di tutti i soggetti sociali di rappresentanza intermedia, come il Sindacato, per la costruzione di un modello di sviluppo del territorio condiviso e partecipato”. “Siamo infatti di fronte ad una condizione sociale peggiorata per quella parte di mondo del lavoro maggiormente colpito dalla crisi - continua Arnesano - e dobbiamo riflettere seriamente sul fatto che finora questo disagio sociale non si è ancora manifestato in tutta la sua drammaticità, per l’impegno che abbiamo messo in campo per affrontare con accordi collettivi una gestione estensiva degli ammortizzatori sociali ma anche, è giusto riconoscerlo, per le diverse azioni di solidarietà delle istituzioni del nostro territorio. Ma questo equilibrio rischia di non durare a lungo se non affrontiamo il problema per tempo con azioni e scelte adeguate”.

08/09/2009

Chi vuole disarcionare Nichi Vendola?

di Andrea Scarchilli

Sul caso delle inchieste pugliesi che hanno coinvolto, in particolare, l'ex assessore alla Sanità della giunta Vendola, intervista al dirigente di Sinistra e libertà Alfonso Gianni. L'inconsistenza delle inchieste giudiziarie, il complotto politico contro il governatore pugliese, orchestrato da una parte del Pd che vuole, in vista delle elezioni dell'anno prossimo, "rimescolare" la coalizione. Coinvolgendo l'Udc e, forse, la formazione della Poli Bortone

Ritieni anche tu, come Vendola, che le inchieste condotte dal pm Digeronimo, che hanno colpito in particolare un assessore della giunta Vendola, siano condotte con modalità sbagliate e clamore eccessivo?
Direi di sì, soprattutto perché non si vedono gli addebiti concreti. Tuttavia io penso che il fatto principale non sia l'inchiesta ma il dato politico: non siamo di fronte a un complotto giudiziario ma un complotto politico, questo sì. E mi sembra molto evidente.

Chi sono i protagonisti del complotto?
Ha diversi attori. Naturalmente c'è la destra berlusconiana, ci mancherebbe altro. La Puglia è la Regione emblema di una parziale rinascita economica del Mezzogiorno, simbolo di una modernizzazione del Sud: perciò un terreno di conquista ambito per il disegno berlusconiano. C'è pure anche la posizione specificata da una dichiarazione "ante litteram" da parte di Francesco Boccia, l'esponente del Partito democratico sconfitto nelle primarie proprio da Vendola.

Cosa diceva Boccia in quella dichiarazione?
Dava un giudizio, immotivato, di governo pessimo da parte della giunta Vendola. Stava, evidentemente, cercando di preparare le cose per la sostituzione di Nichi Vendola alla leadership di una prossima eventuale coalizione alla guida della Regione a partire dal prossimo anno.

Una coalizione che dovrebbe, quindi, avere una fisionomia diversa da quella messa assieme da Vendola. Con quali "new entry"?
L'Udc e forse anche la formazione di Adriana Poli Bortone. Si pensa così di contrastare la rivincita di Fitto attraverso un'operazione gattopardesca di occupazione del centro. E' chiaro che il nemico principale di un'operazione come questa è Vendola, sia per la speranza di cambiamento che ha suscitato che per quello che dal punto di vista politico rappresenta. Dopo di che, se la giunta Vendola va valutata per i risultati che ha conseguito, c'è una certa ingenerosità anche a sinistra. C'è chi non si rende conto della complessità di un governo in una situazione come quella pugliese nell'Italia di oggi. Non tutte le cose si possono subito fare con gli altri che ti stanno a guardare. E' una lotta continua, direi per utilizzare un termine antico che fai da una posizione di forza (quella del governo) che non è, nello stesso tempo, una posizione di forza assoluta: ci sono poteri consolidati e annidati nell'economia territoriale che ti si oppongono. Da alcune parti puoi ottenere risultati subito, da altre meno.

Per esempio?
Mi pare che il caso della sanità sia l'esempio in cui la vischiosità degli interessi economici e anche una certa modalità da parte da alcuni a prestarsi a fatti corruttivi richiede ben altro sforzo per essere combattuta. D'altra parte, si sa, nel mondo moderno la sanità è un grande terreno di scontro di classe. Basta prendere il caso degli Stati Uniti per rendersene conto.

Ma Vendola ha delle responsabilità?
Dal punto di vista giudiziario, sicuramente no, e la considerazione è rafforzata dal fatto che lo conosco personalmente. Dal punto di vista politico, vale quanto ho detto prima: su alcuni punti la giunta si è qualificata molto bene, su altri c'è ancora molto lavoro da fare. La questione della sanità rientra tra questi, e che Vendola se ne sia accorto è evidente anche nel processo di rinnovamento della giunta che a un certo punto ha intrapreso. E' stato criticato per la bruschezza con cui lo ha fatto, e a farlo sono gli stessi che gli rimproverano, oggi, di essere la bella addormentata nel bosco. Come si vede, gli argomenti vengono girati oggi a seconda delle convenienze. Io penso, però, che per quanto si possa guardare in termini sereni e persino smaliziati all'operato della giunta, il segno positivo è netto nel complesso di quanto si è fatto, soprattutto in relazione alle passate legislature. Se la sinistra non è in grado di sostenere questa giunta e il suo principale protagonista, si suicida.

Vendola sta rischiando o è ancora in sella, in vista delle elezioni del prossimo anno?
Per quello che capisco io è in sella con parecchi disarcionatori attorno.

Qualche nome?
Non faccio parte del'entourage di Vendola in senso stretto e non voglio intromettermi nei problemi politici pugliesi, ma mi pare di capire dalle dichiarazioni pubbliche che questo Boccia è, con tutta evidenza, una punta di lancia contro Vendola. Quanto Pd ci sia dietro lui, questo si vedrà nella sede congressuale, quando le carte verranno tutte scoperte. E' evidente da ora, tuttavia, che quella componente che si identifica in lui, o che lui usa o che pensa di usare, è uscita alla luce del sole.