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mercoledì 9 settembre 2009

Roma capitale dell'intolleranza. Aggrediti 8 giovani

Vi inoltro questo comunicato di alcuni ragazzi aggrediti a roma da un gruppo di fascisti.

La mattina di sabato 5 settembre a Roma, intorno alle ore 4.00, presso il bar situato all’angolo tra Via Giano della Bella e via della Lega Lombarda (a pochi metri da Piazza delle Province), un gruppo di 4 ragazzi e 4 ragazze sono stati aggrediti e picchiati da 8 individui al grido fascista di “dovete da ricordà che state a Roma, napoletani e froci di merda”.Il tutto è avvenuto senza che i presenti intervenissero, permettendo così agli autori dell’agguato di fuggire. Gli aggressori hanno picchiato indifferentemente uomini e donne, lanciando tavolini e sedie in testa alle vittime. Uno dei ragazzi aggrediti, più volte colpito alla testa, è svenuto in terra privo di sensi. A quel punto il suo cranio è stato ripetutamente preso a calci da 3 degli assalitori, che lo hanno poi lasciato riverso in una pozza di sangue. Gli 8 aggressori, probabilmente di età compresa tra i 20 e i 45 anni, sono riusciti a fuggire prima dell’intervento delle
forze dell’ordine. Tutti i giovani aggrediti sono stati immediatamente trasportati al pronto soccorso e hanno riportato lesioni di grave entità. In particolare il ragazzo barbaramente picchiato mentre era svenuto in terra, presenta adesso il volto interamente tumefatto e non riesce ad aprire un occhio.
Violenze e agguati sono ormai all’ordine del giorno in questa città, tra l’omertà e il silenzio di una buona fetta della popolazione.
Quando terminerà l’escalation di violenza che sta martoriando questa città?
Gli aggrediti



Roma capitale dell'intolleranza. Aggrediti 8 giovani
Lunedì 07 Settembre 2009 18:16


di Alessandro Ambrosin

ROMA - La notte tra venerdì e sabato scorso un gruppetto di amici hanno subito un'aggressione inaudita da un gruppo di 8 giovani. E' successo a Roma attorno alle 4 in un bar situato all’angolo tra Via Giano della Bella e via della Lega Lombarda, a pochi metri da Piazza delle Province. A raccontarci questa drammatica storia è uno degli aggrediti, G.B., che quella notte, dopo essere stato preso a calci e pugni si è ritrovato privo di sensi in una pozza di sangue.


Il gruppo di amici 4 ragazzi e 4 ragazze aveva deciso di fermarsi a un bar che solitamente tiene aperto tutta la notte prima di terminare la serata, magari con il tipico cappuccino e cornetto caldo come si usa nella capitale. Ma a fianco del loro tavolo 8 persone presumibilmente di età compresa tra i 20 e i 35 anni non è andato giù il fatto che i giovani parlassero della loro squadra di calcio: il Napoli.

"State attenti - gli hanno intimato - perchè a Roma comandiamo noi." E poi ancora minacce. “Dovete da ricordà che state a Roma, napoletani e froci di merda” gli hanno urlato gli aggressori prima di passare alle maniere forti. G.B. è stato raggiunto subito da un pugno all'orecchio e non ha potuto opporre alcuna resistenza. Tre degli aggressori lo hanno bloccato, scaraventato a terra e preso a calci in faccia. Gli altri intanto hanno iniziato ad aggredire il resto del gruppetto, comprese le ragazze, lanciandoli addosso addirittura i tavolini del bar. Una violenza davvero inaudita.

Subito dopo il gruppo degli aggressori si sono dati alla fuga a bordo delle loro auto e dei motorini nascondendo il numero delle targhe. Tutto il gruppo di amici ha dovuto ricorrere alle cure mediche al Pronto Soccorso dove gli sono state diagnosticate escoriazioni e contusioni su varie parti del corpo, mentre il referto di G.B., che ha avuto la peggio, riporta un trauma facciale, una contusione bilaterale con varie ferite, lesioni scapolari nonchè perdita di coscenza a causa delle botte ricevute in testa.

Successivamente è intervenuta la Polizia e i Carabinieri che hanno rinvenuto all'esterno del bar il portafoglio di uno degli aggressori, sicuramente perso durante la feroce aggressione. "Sempre il solito" hanno commentato i carabinieri appena notate le generalità nel documento d'identità. Evidentemente si tratta di un giovane già conosciuto alle forze dell'ordine. Intanto G.B. ha ancora il volto gonfio e tumefatto e non riesce nemmeno ad aprire un occhio. E' ancora scosso come tutti gli altri da questa vicenda terribile che avrebbe potuto finire tragicamente. Ennesimo episodio a sfondo razzista nella città di Roma, diventata tristemente negli ultimi mesi la capitale dell'intolleranza.

http://www.dazebao.org/news/index.php?option=com_content&view=article&id=6425:roma-capitale-dellintolleranza-aggrediti-8-giovani&catid=90:cronaca&Itemid=288

da Antifa

Roma: Un manifesto contro i gay sui muri di via Cavour

Un manifesto contro i gay sui muri di via Cavour
Lo striscione volgare è apparso nella notte. Intanto Regione, Provincia e Comune sottoscrivono un appello contro ogni discriminazione e di sostegno all'iter delle norme parlamentari contro omofobia, e presentano la fiaccolata del 24 settembre verso il Colosseo
Uno striscione contro gli omosessuali è stato attaccato nella notte su un muro nei pressi di via Cavour. SUl manifestto a sfondo bianco compaiono tre righe a caratteri cubitali e maiuscoli, con una grafica solitamente usata dai gruppi di estrema destra. La prima recita: Have a dream, lo slogan scandito e diventato in questi giorni simbolo delle fiaccolate di protesta del movimento gay, seguita da due righe, volgari, vergate con una bomboletta spray di color nero con cui si invitato gli omosessuali ad andare a manifestare al Colosseo. La scritta è firmata Cmt, acronimo che indica la “comunità militante Tiburtina”.

Proprio stamani il Comune di Roma, la Provincia e la Regione Lazio hanno sottoscritto un appello per "rigettare ogni discriminazione" e per "sostenere insieme l'iter parlamentare delle norme che prevedono un aggravamento delle pene per tutti i reati che hanno come movente l'omofobia". Contestualmente Regione, Provincia e Comune hanno, anche, presentato la "fiaccolata contro l'intolleranza e tutti i razzismì" che si svolgerà giovedì 24 settembre con partenza da piazza Santi Apostoli e conclusione al Colosseo.

Il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, che ha caldeggiato la realizzazione di questa fiaccolata, ha spiegato: "Credo che questa fiaccolata rappresenti una sfida culturale e politica in un momento di confronto e di lacerazioni, in cui sembrano riaffiorare odi razziali e omofobi", Ci sembra che stare insieme, pur nelle nostre diversità, sia un valore aggiunto". "Ci rivolgiamo a tutti i cittadini e a tutte le cittadine, al mondo dell'associazionismo, al mondo religioso e laico tanto presenti nella nostra città. Dobbiamo dire con forza che a Roma non trova posto chi pretende di decidere quali persone hanno diritto di cittadinanza e quali no". "Una fiaccolata non risolve i problemi ma chiama a raccolta i cittadini e il mondo associativo e può essere l'inizio per voltare pagina"
(08 settembre 2009)

http://roma.repubblica.it/dettaglio/un-manifesto-contro-i-gay-sui-muri-di-via-cavour/1714751
da Antifa

Patrick Chappette un giornalista fumettista in giro per il mondo


Sapete cos'é il graphic journalism?
Per saperlo date un'occhiata al sito di Patrick Chappatte, un disegnatore-fumettista che pubblica le sue vignette su Le Temps, l’International Herald Tribune e la Neue Zürcher Zeitung.
Chappatte ha anche pubblicato, su Le Temps e sul suo sito, alcune tavole di graphic journalism dal Giappone, dall’Iran, dalla Costa d’Avorio, dall’Eliseo, da Gaza, dal Libano e ora dall’Ossezia del Sud.
A ottobre, sarà al festival di Internazionale a Ferrara.
Ah...il mio Internazionale delle meraviglie!
by Cat


P.S.Per sapere come si vive in Ossezia del Sud leggete il suo ultimo reportage!

N.B. Ho "preso" le Immagini di questo post direttamente dal sito di Chappatte: globecartoon.com

da http://sviaggi.blogspot.com/2009/08/patrick-chappatte-un-fumettista-in-giro.html

il sito è www.bdreportage.com

I nuovi pentiti: Mafia, contatti fino al '94, anno di nascita di Forza Italia

I fratelli Graviano accostati in più inchieste a Dell'Utri
Dalle carte delle stragi di mafia
quella trattativa tra boss e politica

PALERMO - Le indagini sui morti eccellenti di Palermo cambiano rotta e destinazione. Tornano in scena i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss più "stragisti" della città. I mafiosi che in tante inchieste e agli atti di un processo vengono raccontati come molto vicini al senatore Marcello Dell'Utri.

Torna in scena una "trattativa" fra mafia e Stato che non si è interrotta con Capaci o con via D'Amelio, ma è proseguita fino al 1993 e anche nei primi mesi del 1994. Torna in scena la coincidenza temporale fra le stragi siciliane e la nascita di un nuovo partito: Forza Italia.

S'indaga su altri mafiosi. E s'indaga anche su quelli che chiamano i "mandanti altri", i mandanti che non sono di Cosa Nostra. Le ultime scoperte spostano l'epicentro investigativo: da una borgata palermitana all'altra, dalla Guadagna a Brancaccio. Sono appena un paio di chilometri sulle mappe di Palermo, sono un paio di chilometri che portano in un altro mondo di intrecci fra boss e uomini politici a ridosso delle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ci sono i fatti e poi ci sono le congetture, le ipotesi, le voci. Ci sono personaggi che sono già scivolati nelle nuove indagini e poi ci sono ombre che si allungano oltre i boss. C'è chi dice che un pentito abbia già fatto nomi, c'è chi dice di no, certo è che la "pista di Brancaccio" fa scorrere una nuova trama nella storia delle stragi siciliane del 1992.

Si scava - alla procura di Palermo e a quella di Caltanissetta - sul patto fra i Corleonesi di Totò Riina e apparati dello Stato (alcuni già identificati, altri in corso di identificazione), si scava sul coinvolgimento nelle stragi di uomini dei servizi segreti, si scava sulla "accelerazione" della decisione di uccidere Borsellino voluta a tutti i costi da qualcuno. Chi?
Sono due i testimoni che hanno svelato elementi inediti ai magistrati delle procure siciliane, a quella di Firenze e a quella di Milano. Uno è il pentito Gaspare Spatuzza, ex sicario e poi a capo della "famiglia" di Brancaccio. L'altro è Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito.

Il pentito Spatuzza si è autoaccusato della strage di via D'Amelio e ha praticamente sbugiardato Vincenzo Scarantino, l'uomo che 17 anni fa aveva confessato di aver portato in via D'Amelio l'autobomba. Ma Spatuzza non ha parlato solo della strage.
Spatuzza ha parlato tanto anche dei Graviano e dei loro "interessi" su a Milano, delle amicizie importanti che avevano in ambienti imprenditoriali. Dei Graviano e dei rapporti che avrebbero avuto con Dell'Utri riferiscono tanti altri pentiti, tutti passati al vaglio dei giudici di primo grado che nel dicembre del 2004 hanno condannato il fondatore di Forza Italia a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Il racconto di Spatuzza è stato "secretato". Poi, i procuratori siciliani si sono concentrati sulla "pista di Brancaccio" con annessi e connessi.

Il secondo testimone chiave è il figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. La procura di Palermo ha già depositato agli atti del processo d'appello a Marcello Dell'Utri uno stralcio di un suo interrogatorio e tre lettere che negli anni a cavallo delle stragi - fra il 1991 e il 1994 - l'allora capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano avrebbe indirizzato a Silvio Berlusconi. Lettere che sarebbero state inviate alla vigilia e subito dopo la famosa "discesa in campo". Lettere dove si fanno velate minacce e si parla del "contributo politico" che avrebbe voluto portare lo stesso Provenzano.

Grandi mediatori di questa che sembrerebbe all'apparenza un'altra trattativa, secondo Massimo Ciancimino, sono stati suo padre Vito e Marcello Dell'Utri. Il 17 settembre la Corte di appello deciderà se acquisire agli atti del processo di secondo grado l'interrogatorio del figlio di don Vito e le tre lettere. Se la richiesta verrà accolta la sentenza subirà uno slittamento, altrimenti a metà o a fine ottobre sapremo se al senatore Marcello Dell'Utri sarà confermata o sarà annullata la condanna per mafia.
I sussurri si sono rincorsi per tutta l'estate su quei "mandanti altri". E anche sulla trattativa. Fino a qualche tempo fa si diceva che era cominciata prima di Capaci ed era finita prima di via D'Amelio. Poi si è scoperto che è andata avanti ancora per due anni. "Fino al 1994", riferisce il colonnello dei carabinieri Michele Riccio riportando le confidenze del suo informatore Luigi Ilardo, un boss vicino a Provenzano. Fino al 1994, fino a quando Berlusconi è diventato il leader di Forza Italia.

E' un'indagine che si ripete. Con tanti nuovi protagonisti. Ma non tutti. I nomi del premier e del suo braccio destro siciliano erano già entrati nelle indagini sulle stragi siciliane e poi anche in quelle in Continente, le bombe di Firenze e Roma e Milano del 1993. A Caltanissetta furono iscritti nel registro degli indagati come "Alfa" e "Beta" "per concorso nelle stragi", a Firenze come "Autore 1" e "Autore 2". Dalla prima inchiesta - ("Prove insufficienti, dichiarazioni di pentiti senza riscontro, elementi contrastanti") - uscirono nell'inverno del 2002, dalla seconda tre anni prima.

da Indymedia

Rai 3, Ruffini si schiera con Report

Il direttore della terza rete: "Quel programma è un patrimonio utile per l'azienda"
Intanto Michele Santoro scrive al direttore generale Masi: "Annozero viene ostacolato"


ROMA - Aria sempre più tesa su due dei programmi di punta di Rai 2 e Rai 3. Da una parte Michele Santoro denuncia i ritardi che stanno mettendo a rischio Annozero, dall'altra il direttore di Rai 3 Paolo Ruffini, si schiera per sollecitare l'assistenza legale ai giornalisti di Report."E' un programma che si base su una squadra di freelance. A questi giornalisti la Rai ha garantito copertura legale negli anni passati. Ora l'azienda vuole rivedere la clausola, nonostante il parere contrario della rete. Report è un patrimonio e quindi è utile alla Rai", dice Ruffini.

Il caso Annozero. A due settimane dalla partenza di AnnoZero, nessuno dei contratti dei collaboratori del programma è stato ancora firmato. Compreso quello di Marco Travaglio, uno dei nomi di punta del programma di Rai 2. Per questo Michele Santoro, che conduce la trasmissione, ha scritto una lettera al direttore generale della Rai, Mauro Masi e al direttore di Raidue, Massimo Liofredi. Santoro ricorda come gli spot non siano ancora partiti e sottolinea che "non intende rinunciare a quanto le sentenze stabiliscono". Un chiaro riferimento alla sentenza con cui Santoro è stato reintegrato alla Rai.

Per Santoro, "una simile situazione non si è mai verificata da quando lavoro in televisione, né era mai accaduto che obiezioni e perplessità in materia editoriale si presentassero sotto forma di impedimenti burocratici. Perché questo modo di fare non può che minare l'autonomia dell'azienda e le sue finalità produttive".

Il giornalista parla poi di "ripetute assicurazioni" avute dai vertici Rai, ma nonostante questo "la situazione non è sostanzialmente cambiata". Anche perché, a quanto scrive Santoro, quello di Annozero non è un caso isolato. "Mi risulta che anche altri programmi di punta del servizio pubblico, in particolare di Rai 3, abbiano gli stessi problemi e si trovino a dover superare ostacoli pretestuosi per la messa in onda".
Santoro ricorda gli elevati introiti pubblicitari e l'elevato share della trasmissione ("che con le entrate degli spot supera abbondantemente i costi del programma"). E conclude: "Un'eventuale soppressione del programma aprirebbe un buco difficilmente colmabile nella programmazione, arrecando un danno ai bilanci della Rai valutabile in decine di milioni di euro".

L'ex europarlamentare ricorda, infine, le voci che parlano di una sorta di diktat del presidente del Consiglio verso alcune trasmissioni di Rai 3, e nel farlo rammenta ancora la sentenza della magistratura che ha imposto alla Rai di farlo tornare in onda. "Vi comunico quindi - conclude Santoro - che io non intendo rinunciare a quanto le sentenze stabiliscono; e, nell'interesse dell'azienda, mi aspetto che si recuperi il tempo perduto siglando tutti i contratti".

da La Repubblica

Carcere, il nuovo 41 bis: l'inferno dei vivi


Da Spoleto Carmelo Musumeci, ergastolano, invia alcune riflessioni sul nuovo regime del 41 bis, moderna e raffinata forma di tortura

Con la legge 94/2009 è stato modificato l’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, quello che disciplina il regime del cosiddetto ‘carcere duro’. Leggo sulla Guida al Diritto di agosto: “Carcere duro: la platea di detenuti sottoponibile al ‘41 bis’ è notevolmente ampliata. Il governo ha limitato la possibilità di controllo giurisdizionale. Vietato cuocere cibi e cambiare oggetti. Un colloquio al mese con i vetri con l’obbligo di controllo auditivo e videoregistrazione. Limitati i colloqui anche con i difensori. L’aria non potrà essere fruita in gruppi superiori a 4 persone e non potrà protrarsi più di due ore al giorno”.
Il male arrecato e attuato con la legge si distingue non tanto per la sua banalità, come sostiene Hannah Arendt, quanto per la sua legalità. In una condizione di paralisi di coscienza si approvano leggi inumane per scopi elettorali, politici e di potere. L’etica penale non dovrebbe arrestarsi davanti a consensi populisti, mediatici e politici. Ci sono persone sottoposte al regime di tortura del 41 bis dal 1992, ormai ridotte psicologicamente e mentalmente a degli zombi.

La Corte Costituzionale e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno legittimato il regime del 41 bis, ma con delle riserve che la nuova legge 94/2009 rimette in discussione. Ora si dovranno aspettare altri lunghi anni affinché queste istituzioni si pronuncino di nuovo. Ma intanto il risultato politico è stato ottenuto sulla sofferenza di qualche centinaio di detenuti.

È vero, nelle carceri italiane, nella maggioranza dei casi, ormai non si attuano più pestaggi e torture fisiche istituzionali. Non ce n’è più bisogno: l’Italia ha superato qualsiasi Paese al mondo introducendo nel suo ordinamento penitenziario la tortura dell’anima, dell’amore, degli affetti. I detenuti sottoposti al nuovo regime di tortura del 41 bis vivranno come animali: saranno curati, alimentati, ma non saranno più considerate persone.

Vivranno ventidue ore su ventiquattro nell’inattività più totale, in pochi metri e in sostanziale isolamento. Usufruiranno di un colloquio di un’ora al mese, davanti ad un vetro e videoregistrato. Non potranno abbracciare figli, padri, madri, nipoti, alcuni per il resto dei loro giorni, perchè condannati all’ergastolo. Usufruiranno solamente di due ore di passeggio, in massimo quattro persone, con l’ordine del silenzio con gli altri detenuti. Avranno le finestre delle celle coperte da un divisore, per non vedere il cielo, la luna, il sole, per proibire loro persino di vedere il Dio.

E tutti tacciono, anche le persone “perbene”. Non parlano, non vedono e non sentono, hanno paura di essere collusi con la mafia. Preferiscono essere collusi con la mafia istituzionale. Non fa niente, scrivo io per loro.

da Indymedia

E' morto Mike Bongiorno, interprete da 60 anni dell'italica mediocrità


La morte di Mike Bongiorno, avvenuta ieri a Montecarlo, impone la pubblicazione della sua fenomenologia scritta da Umberto Eco nel 1961. Alle radici del berlusconismo, potremmo dire.

Fenomenologia Di Mike Bongiorno

L'uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze.Tuttavia, poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l'evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e i quali si possa stabilire una tensione. Per togliergli ogni responsabilità si provvede però a far sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigo­rifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore; in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L'ideale del consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasti­camente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di posseder-lo un giorno.

La situazione nuova in cui si pone al riguardo la TV è questa: la TV non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l'everyman. La TV presenta come ideale l'uomo assolutamente medio. A teatro Juliette Greco appare sul palcoscenico e subito crea un mito e fonda unculto; Josephine Baker scatena rituali idolatrici e dà il nome a un'epoca. In TV appare a più riprese il volto magico di Juliette Greco, ma il mito non nasce neppure; l'idolo non è costei, ma l'annunciatrice, e tra le annunciatrici la più amata e famosa sarà proprio quella che rappresenta meglio i caratteri medi: bellezza modesta, sex-appeal limi­tato, gusto discutibile, una certa casalinga inespressività.

Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rap­presenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato, essa rappresenta un traguardo. Se, secondo la nota boutade, la statistica è quella scienza per cui se giornalmente un uomo mangia due polli e un altro nessuno, quei due uomini hanno mangiato un pollo ciascu­no — per l'uomo che non ha mangiato, la meta di un pollo al giorno è qualcosa di positivo cui aspirare. Invece, nel campo dei fenomeni qualitativi, il livellamento alla media corrisponde al livellamento a zero. Un uomo che possieda tutte le virtù morali e intellettuali in grado medio, si tro­va immediatamente a un livello minimale di evoluzione. La "medietà" aristotelica è equilibrio nell'esercizio delle pro­prie passioni, retto dalla virtù discernitrice della "pruden­za". Mentre nutrire passioni in grado medio e aver una media prudenza significa essere un povero campione di umanità.
Il caso più vistoso di riduzione del superman all'every­man lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta uni­ta (questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o fin­zione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti.

Per capire questo straordinario potere di Mike Bongior­no occorrerà procedere a una analisi dei suoi comporta-menti, ad una vera e propria "Fenomenologia di Mike Bongiorno", dove, si intende, con questo nome è indicato non l'uomo, ma il personaggio.
Mike Bongiorno non è particolarmente bello, atletico, coraggioso, intelligente. Rappresenta, biologicamente parlan­do, un grado modesto di adattamento all'ambiente. L'amore isterico tributatogli dalle teen-agers va attribuito in parte al complesso materno che egli è capace di risvegliare in una giovinetta, in parte alla prospettiva che egli lascia intrav­vedere di un amante ideale, sottomesso e fragile, dolce e cortese.

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressio­nare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fat­ti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla.
In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primiti­va ammirazione per colui che sa. Di costui pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la me­todologia ovvia ed elementare: si diventa colti leggendo molti libri e ritenendo quello che dicono. Non lo sfiora minimamente il sospetto di una funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio meramente quantitativo. In tal senso (occorrendo, per essere colto, aver letto per molti anni molti libri) è naturale che l'uomo non predesti­nato rinunci a ogni tentativo.

Mike Bongiorno professa una stima e una fiducia illi­mitata verso l'esperto; un professore è un dotto; rappre­senta la cultura autorizzata. È il tecnico del ramo. Gli si demanda la questione, per competenza.
L'ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quan­do, in base alla cultura, si viene a guadagnar denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L'uomo mediocre rifiuta di imparare ma si propone di far studiare il figlio.
Mike Bongiorno ha una nozione piccolo borghese del denaro e del suo valore ("Pensi, ha guadagnato già centomila lire: è una bella sommetta!").

Mike Bongiorno anticipa quindi, sul concorrente, le im­pietose riflessioni che lo spettatore sarà portato a fare: "Chissà come sarà contento di tutti quei soldi, lei che è sempre vissuto con uno stipendio modesto! Ha mai avuto tanti soldi così tra le mani?".
Mike Bongiorno, come i bambini, conosce le persone per categorie e le appella con comica deferenza (il bambino dice: "Scusi, signora guardia...") usando tuttavia sempre la qualifica più volgare e corrente, spesso dispregiativa: "si­gnor spazzino, signor contadino".
Mike Bongiorno accetta tutti i miti della società in cui vive: alla signora Balbiano d'Aramengo bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic).
Oltre ai miti accetta della società le convenzioni. È pa­terno e condiscendente con gli umili, deferente con le per­sone socialmente qualificate.
Elargendo denaro, è istintivamente portato a pensare, senza esprimerlo chiaramente, più in termini di elemosi­na che di guadagno. Mostra di credere che, nella dialettica delle classi, l'unico mezzo di ascesa sia rappresentato dalla provvidenza (che può occasionalmente assumere il volto della Televisione).

Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a tendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sem­pre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è ri­gorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neo-posi­tivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all'occasione, egli potreb­be essere più facondo di lui.
Non accetta l'idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti. Nabuc­co e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa; egli reagisce di fronte ai dati come un cervello elettronico, perché è fer­mamente convinto che A è uguale ad A e che tertium non datur. Aristotelico per difetto, la sua pedagogia è di con­seguenza conservatrice, paternalistica, immobilistica.

Mike Bongiorno è privo di senso dell'umorismo. Ride perché è contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l'interlocutore sia simpaticamente anormale; rifiuta di sospettare che dietro il paradosso si na­sconda una verità, comunque non lo considera come vei­colo autorizzato di opinione.
Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Non man­ca di informarsi sulle stranezze dello scibile (una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa... "Mi dica un po', si fa tanto parlare oggi di questo futurismo. Ma cos'è di preciso questo futurismo?"). Ricevuta la spiegazione non tenta di approfondire la questione, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta comunque l'opinione dell'altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse.
Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella che verrebbe per prima in mente a chiunque e che una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale: "Cosa vuol rappresentare quel quadro?" "Come mai si è scelto un hobby così diverso dal suo lavoro?" "Com'è che viene in mente di occuparsi di filosofia?".

Porta i clichés alle estreme conseguenze. Una ragazza educata dalle suore è virtuosa, una ragazza con le calze co­lorate e la coda di cavallo è "bruciata". Chiede alla prima se lei, che è una ragazza così per bene, desidererebbe di­ventare come l'altra; fattogli notare che la contrapposizione è offensiva, consola la seconda ragazza mettendo in risalto la sua superiorità fisica e umiliando l'educanda. In questo vertiginoso gioco di gaffes non tenta neppure di usare pe­rifrasi: la perifrasi è già una agudeza, e le agudezas ap­partengono a un ciclo vichiano cui Bongiorno è estraneo. Per lui, lo si è detto, ogni cosa ha un nome e uno solo, l'artificio retorico è una sofisticazione. In fondo la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quan­do la sincerità è voluta non si ha gaffe ma sfida e provo­cazione; la gaffe (in cui Bongiorno eccelle, a detta dei cri­tici e del pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è mediocre, l'uo­mo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta por­tando la gaffe a dignità di figura retorica, nell'ambito di una etichetta omologata dall'ente trasmittente e dalla nazione in ascolto.
Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una gara di beneficenza, finita la quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad altre cure confortafo sull'esistenza del migliore dei mondi possibili. Egli ignora la dimensione tragica della vita.

Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rap­presenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiun­gere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti.

Umberto Eco, Diario Minimo, 1961
da toscana.indymedia

Ramadan ad Auschwitz

Una marcia silenziosa lungo i binari di Birkenau. Migliaia di persone hanno camminato dai cancelli del campo di sterminio fino al Monumento internazionale alle vittime del nazifascismo. Non si trattava però di normali turisti. L’aspetto straordinario era la presenza di non pochi musulmani.Nonostante si sia nel cuore del Ramadan, alcune delegazioni dal Marocco, dall’Arabia Saudita, dall’Indonesia e dall’India hanno partecipato all’incontro Fedi e culture in dialogo - Settant’anni dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Cracovia.

Cristiani, ebrei, musulmani, induisti e buddisti hanno reso omaggio a tutte le vittime dello sterminio. Avvicinandosi alle lapidi qualcuno si è inginocchiato, più o meno imbarazzato. Gli ebrei, tra cui l’ex rabbino capo Israel Meir Lau, scampato ad Auschwitz, si sono stretti spalla a spalla, come al muro del pianto. Qualcuno ha semplicemente sostato.

Ma Ceija Stojka si è avvicinata togliendosi le scarpe, come si fa in un luogo sacro. Rom austriaca, sopravvissuta ai lager nazisti (è stata deportata ad Auschwitz, a Ravensbruck e a Bergen Belsen) è una dei pochi rom che ce l’ha fatta a uscire viva dai campi di concentramento. Dopo il ritorno a Vienna ha lavorato come venditrice ambulante e ora gira il mondo raccontando la sua storia. Che oggi l’ha riportata qui.

da Internazionale

Cervelli in circolazione

Laila Wadia è nata a Mumbai e vive a Trieste, dove lavora all’università.

Creativi si può diventare per passione, ma usare l’arte perché nessuna donna rimanga esclusa è una scelta di vita. Arrivata in Italia nel 1984, l’artista etiope Konjit Seyoum si è scontrata per la prima volta con il razzismo quando frequentava l’università a Trieste.

Una professoressa le aveva dato della stupida perché non parlava bene l’italiano. Allora lei, poliglotta, cervello in circolazione, ha abbandonato l’aula. Quel gesto, poi, l’ha pagato caro, ma Konjit nella vita come nell’arte si è imposta di rimanere fedele a se stessa. Per questo lavora anche come interprete per i grandi organismi internazionali, in modo che la sua arte non sia mai influenzata dalle necessità economiche.

Konjit ha vissuto in Italia negli anni ottanta, quando gli stranieri erano esotici e non facevano tanta paura. Alla caduta del dittatore Menghistu, ha deciso di tornare ad Addis Abeba, dove ora dirige l’Asni gallery.

Quando le chiedo cosa si è portata dietro dall’Italia (dal punto di vista filosofico) mi risponde con la sua solita verve: “Una caffettiera, un passaverdura e uno scolapasta: sono le tre cose che mi definiscono come italiana”.

Con la stessa ironia e onestà, quando qualcuno le chiede di mostrargli un suo autoritratto, Konjit gli presenta See through: le lastre dei suoi polmoni. Dentro di lei, tracciato sulle radiografie, c’è un fiume di parole, molte delle quali in italiano. Qui Konjit parla dei temi che le stanno a cuore: la mercificazione della donna, l’aids e il consumismo.

Una volta, in segno di protesta, ha trasformato un centro commerciale ancora in costruzione in una galleria d’arte temporanea. Una delle opere esposte si chiamava Modern landscape, una composizione di bastoni e sassi per rappresentare il male che ci facciamo da soli. Disposti in verticale, però, i bastoni formavano una tastiera, per sottolineare che si può cambiare musica.

Lo scorso 8 marzo ha dipinto Leave no woman behind, una tela che raffigura tanti seni. “Noi donne dobbiamo ricordare che siamo un unico grande seno che nutre la pace”. Parole e pennellate di una donna allattata dalla saggezza di tante madrepatrie. Laila Wadia

da Internazionale

SOCCORSI O RESPINTI? 43 ERITREI SALVATI DAI LIBICI, PRESTO IN CARCERE

TRIPOLI - È stato localizzato a circa 40 miglia dalla Libia e soccorso da una motovedetta libica il barcone in difficoltà, di cui da ieri si cercavano le tracce. Ne aveva dato notizia il sito in tigrino Assenna riportando l'sos ricevuto da un eritreo residente in Norvegia. Ne aveva dato notizia l'Arci, che aveva informato la Guardia costiera di una telefonata giunta al numero verde dell'associazione da parte di un eritreo che aveva il fratello a bordo del gommone. A bordo dell'unità soccorsa vi sarebbero 43 migranti, tra cui 10 donne, una delle quali incinta e un bambino, e non 150 come riferito in un primo momento dall'Arci, né 90 come riferito dal sito Assenna.Fonti locali riferiscono all'Ansa che la barca si trovava in gravi difficoltà ed era in balia della mareggiata. L'arrivo nel porto di Tripoli è previsto in serata. Ad attendere i passeggeri, sul molo, ci saranno i camion container della polizia libica. Presumibilmente già da stanotte saranno rinchiusi in cella. E in un secondo momento trasferiti a Misratah. Proprio come è successo agli eritrei respinti dall'Italia il primo luglio e ancora oggi detenuti nel campo dedicato agli eritrei.

Insomma se è vero che il salvataggio messo in atto dalle autorità libiche, a 40 miglia dalla costa, costituisce un importante precedente per la salvaguardia della vita in mare, allo stesso tempo l'ennesimo respingimento indiscriminato di rifugiati politici, donne e bambini, che una volta a terra sono condannati a mesi o anni di detenzione amministrativa, non può che farci nuovamente allarmare.

da Fortress Europe

Sudan: Lubna libera (pagata la multa) ma contro la sua volontà


«Continueremo a combattere»: Lubna Ahmed Hussein, la giornalista sudanese condannata ieri per aver indossato i pantaloni e incarcerata per essersi rifiutata di pagare la multa che il tribunale le aveva imposto in alternativa ad un mese di reclusione, è stata liberata, ma non rinuncia alla lotta. Il suo ultimo gesto di sfida al regime, che aveva provato a disinnescare un caso divenuto imbarazzante per il clamore suscitato in tutto il mondo, ha avuto vita breve. Il presidente dell'Unione dei giornalisti sudanesi ha annunciato di aver pagato la multa per scarcerare Lubna. Ma la donna, 40 anni, non ha apprezzato il gesto dei colleghi: «Avevo detto a tutti i miei amici e alla mia famiglia di non pagare la multa, ma sono stata liberata. Non sono felice anche perchè ci sono più di 700 donne ancora in prigione che non hanno nessuno che paghi per loro». Molti giornalisti sudanesi sostengono che l'organizzazione che ha pagato la multa abbia rapporti con il governo.


Ai suoi sostenitori che le si sono stretti intorno nel cortile del giornale Ajrass al Hurriya ('Le campane della liberta«), Lubna ha promesso che la lotta continuerà »per cambiare questa legge, la polizia per l'ordine pubblico e i tribunali per l'ordine pubblico«.
Per il reato di »condotta indecente« rischiava 40 frustate.
Ieri la condanna ad un mese di carcere o ad una multa di 200 dollari e il suo rifiuto a piegarsi :»Non pagherò, vado in prigione« aveva detto Lubna continuando a indossare i pantaloni e il velo tradizionale a coprirle testa e spalle, mentre fuori dall'aula migliaia di donne vestite come lei le manifestavano solidarietà sfidando la legge e la polizia.
La giornalista era stata denunciata il 3 luglio quando, mentre si trovava in un ristorante di Khartoum, era stata circondata dalla 'Polizia dell'ordine pubblicò (una milizia di giovani estremisti usata dal governo contro chi beve e contro le donne giudicate non abbastanza sottomesse) che l'aveva umiliata, percossa e sbattuta in una cella perchè indossava i pantaloni.
»Mi hanno portata via insieme ad altre 12 ragazze - raccontò allora la giornalista - Due giorni più tardi, dieci di loro ricevettero dieci colpi di frusta ciascuna«. Lubna non era stata processata subito perchè, essendo anche dipendente dell'Onu, godeva dell'immunità. Ma la donna si è licenziata dal suo incarico per sfidare le autorità: »Non ho paura di essere frustata. Sono pronta a subire anche più di 40 frustate purchè tutti sappiano cosa succede a Khartoum« aveva detto.
La sua vicenda ha subito fatto il giro del mondo e molti sono intervenuti in suo favore. Oggi un comunicato dell'Onu ha denunciato la sua condanna come una violazione dei diritti umani: »Il caso di Lubna Ahmed Hussein - ha detto Rupert Colville, portavoce dell'Alto commissariato per i diritti umani - è a nostro avviso emblematico di una tendenza (..) di leggi che discriminano le donne in Sudan«. (ANSA-AFP-REUTERS).
I83-MAO 08-SET-09 18:03 NNN

da http://africa.blog.ilsole24ore.com/

L’oro blu della Puglia. Un cerchio che si chiude

AUTORE DELL'ARTICOLO
Alessandro Tauro

Se vi dicessi che esiste un unico filo conduttore che unisce nello stesso interesse Massimo D’Alema, Gianni Alemanno, Francesco Gaetano Caltagirone, Antonio Di Pietro, Pierferdinando Casini, Cesare Geronzi, Raffaele Fitto, Francesco Boccia mi credereste?

La storia che segue è la risposta a questa domanda.

E' una storia che lega tra loro sanità, risorse naturali, amministrazioni pubbliche, il mondo della politica, ipotesi giudiziarie, vittime inconsapevoli e navigati carnefici.
E’ una storia che parla di interessi economici, di giochi al limite del political-thriller, di alleanze trasversali, di mondo imprenditoriale e di celebri uomini politici costretti a ricoprire il ruolo della pedina inconsapevole in una scacchiera sconosciuta.

Tutto ha inizio 13 anni fa, nel settembre del 1996, quando Antonio Di Pietro, allora ministro dei Lavori Pubblici, redige la prima bozza di decreto che ordina la privatizzazione dell’acquedotto pugliese. Una privatizzazione che, nel corso degli anni, non è mai praticamente avvenuta.

Così nasce questa storia, con l’attuale ferreo sostenitore del principio "acqua bene pubblico" primo ideatore della sua privatizzazione. Un ruolo, questo del privatizzatore dell’oro blu, che è utile tenere bene a mente.

Per un intero anno, dal 2000 al 2001, i governi D’alema e Amato tentano un accordo di vendita della Acquedotto Pugliese SpA (allora nelle mani del Tesoro) all’Enel, un accordo che fallirà miseramente per l’ostruzione continua operata dal Presidente pugliese Raffaele Fitto, che, nel tentativo di incrementare la posizione della Regione Puglia nel futuro asset societario della SpA, finirà per distruggere l’unica possibilità di privatizzazione dell’acquedotto regionale.
Un involontario eroe socialista in salsa pugliese.

Nel dicembre 2001 il nuovo governo Berlusconi consegna l’acquedotto pugliese nelle mani di Fitto, alla sola condizione di procedere regionalmente alla privatizzazione entro 6 mesi.

Numerosi gli interessati. Tra tutti una cordata dall’enorme potenziale: ACEA (società municipalizzata di Roma controllata dall’allora sindaco Walter Veltroni), Roberto Colaninno (futuro anello di congiunzione tra PD e PDL) e Francesco Caltagirone (capo di un impero che va dall’editoria all’edilizia, dalle banche ai trasporti), una cordata ben vista e sostenuta da D’Alema e Letta da una parte (un binomio che ritroviamo ancora oggi nell’endorsement a Pierluigi Bersani) e da Alemanno dall’altra.

La privatizzazione si fa attendere e la duratura attesa esporrà Fitto e la sua regione a numerose critiche del centrosinistra, in un gioco della parti completamente rovesciato: con l’Ulivo e Di Pietro "convinti privatizzatori" da una parte e la destra "anomala statalista" dall’altra.

Tra i più convinti privatizzatori il lettiano Francesco Boccia e il dalemiano Sandro Frisullo.

Ogni ipotesi di privatizzazione fallisce miseramente nel gennaio 2005 quando le primarie del centrosinistra vengono vinte inaspettatamente dal "rivoluzionario gentile" Nichi Vendola, proprio a danno di Boccia, fervido sostenitore della "bozza di privatizzazione D’Alema" del 2000.

La vittoria nelle regionali contro il governatore uscente Fitto metterà per sempre la parola fine ad ogni velleità liberista, vista la profonda convinzione del neo-eletto Vendola a mantenere la gestione dell’acqua pugliese nelle mani della collettività.

L’evidente acredine preesistente tra Ulivo e Vendola cresce sempre più durante il governo di quest’ultimo, impegnato a nominare ai vertici dell’AQP amministratori contrari ad ogni privatizzazione (Petrella prima e Monteforte poi) e ad ostruire ogni interesse gestionale del duo DS-Margherita.

Nel luglio 2008 le prime dichiarazioni di reciproco interesse in Puglia tra PD e UDC. La condizione una sola: l’allontamento definitivo di Nichi Vendola e dei partiti della "sinistra" (Italia dei Valori, Rifondazione e Sinistra e Libertà).

La china presa da Vendola diventa preoccupante. A febbraio, lo scandalo che colpisce l’assessore Tedesco, socialista dalemiano, allontanato dalla giunta Vendola prima dell’avviso di garanzia, immediatamente riciclato in Senato al posto del prodiano De Castro, dirottato in Europa, su "richiesta" di D’Alema ed avallo di Franceschini.

Lo scontro tra Vendola e D’Alema diventa pubblico e sfocia nelle critiche dell’ex segretario PDS al leader di Sinistra e Libertà per la candidatura di bandiera alle europee, che D’Alema e Latorre contesteranno profondamente ("Mi auguro che abbia considerato e soppesato le conseguenze politiche che la sua scelta di candidarsi alle europee potrebbe avere" fu la dichiarazione molto esplicita del secondo).

E poi, nel luglio scorso, l’indagine della DDA barese capitanata dal PM Digeronimo sulla giunta regionale e la cacciata di 5 esponenti, tra cui ben 3 dalemiani.

Uno schiaffo al leader-massimo che se compiuto dall’esponente di un partitino come Sinistra e Libertà può significare una cosa sola: abiura o morte.
Inizia così l’attacco da più fronti a Vendola, alla sua giunta e al suo sponsor, l’ex dalemiano ed ora scheggia impazzita Michele Emiliano, sindaco di Bari. Gli attacchi vedono i dalemiani colpiti nel cuore da un lato e dalla parte opposta l’Italia dei Valori alla ricerca di un’altra leadership "più opportuna". Un gioco di potere, quello del leader morale dei DS, che salta agli occhi anche dell’attento Giannini, su Repubblica, che parla di "Patto della crostata in casa ACEA". Un patto che sembra riaprire l’ipotesi della privatizzazione, con un solo prezzo da pagare: l’allontanamento dei sostenitori della gestione pubblica.

Un gioco di potere ancora meglio calibrato se a lanciare l’attacco contribuisce anche "Il riformista", vicino alla corrente di D’Alema e di proprietà della famiglia Angelucci, indagata (nelle persone di Antonio, deputato PDL, e Giampaolo) assieme a Raffaele Fitto per lo scandalo della sanità pugliese.

Una storia che sembra consegnare il corpo morente del governatore Vendola sull’altare del patto PD-UDC. Il "patto della crostata". Sancito con l’entrata in ACEA del consigliere dalemiano Andrea Peruzy al posto del prescelto dal PD romano Angelo Rughetti, un ingresso che conferma l’ottimo rapporto tra D’Alema e Caltagirone (suocero di Pierferdinando Casini), che affonda le radici negli interessi comuni su Monte dei Paschi di Siena, scalata BNL e, adesso, ACEA, come conferma lo stesso Marco Palombo (PD) dalle pagine del Foglio.

Un patto però, questo tra D’Alema e Casini, insufficiente, elettoralmente e numericamente parlando. Serve almeno un altro alleato, anche non fidato, ma in grado di apportare un certo contributo per la vittoria.

E chi meglio di un Di Pietro e un IDV così critici verso Vendola? Ma come fare?

Semplicemente lasciando che gli eventi corrano da sé. E lasciare che a mezzo stampa trapeli il recondito interesse dell’IDV nella candidatura di un certo Francesco Boccia, lo stesso che negli anni (forse all’insaputa di un distratto Di Pietro) si è fatto portavoce dell’istanza privatizzatrice per nome del duo Letta-D’Alema.

Lo stesso che negli ultimi anni ha ribadito la fedeltà al progetto di privatizzazione targato D’Alema e che ora vede Caltagirone, Colaninno, l’ACEA di Alemanno e la Mediobanca di Geronzi al posto dell’ENEL.

Quel progetto nato dall’ex ministro Antonio Di Pietro.

Un cerchio che si chiude.

Da Giustizia e Libertà al Partito Radicale


Ernesto Rossi nasce a Caserta nel 1897. Ancora ventenne conosce Gaetano Salvemini. Tra i due inizia subito una sincera amicizia che sfocia poi nella collaborazione e nella stima reciproca. Rossi negli anni del fascismo, dopo un iniziale momento di incertezza, diventa uno dei protagonisti del movimento “Giustizia e Libertà”. È tra gli organizzatori del gruppo che dà vita al foglio clandestino “Non Mollare!”. In questa iniziativa è con Carlo e Nello Rosselli e Gaetano Salvamini. La sua attività solleva ben presto le attenzioni del tribunale speciale fascista che lo condanna a venti anni di carcere, di cui nove li sconta in carcere e quattro al confino sull’isola di Ventotene, al largo delle coste del Lazio. Qui, sull’isola, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni matura compiutamente quelle idee che nel 1941 dovevano ricevere il loro suggello nel Manifesto di Ventotene.Nel 1943 fonda con Altiero Spinelli il Movimento Federalista Europeo e aderisce in seguito al Partito d’Azione. Con la Liberazione nel 1945, in rappresentanza del Partito d’Azione, diviene sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell’Arar (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958. Nel dicembre del 1955 è tra i fondatori del Partito radicale, insieme a Leo Valiani, Guido Calogero, Francesco Compagna, Giovanni Ferrara, Felice Ippolito, Franco Libonati, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Rosario Romeo, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari. Si dedica contemporaneamente alla ricerca e al giornalismo d’inchiesta sul “Mondo”. Dal 1962 in avanti svolge la sua attività di pubblicista anche su “L’Astrolabio” di Ferruccio Parri. Muore il 9 febbraio del 1967, a Roma. Di lì a pochi giorni avrebbe dovuto presiedere l’iniziativa del Partito Radicale per l’Anno Anticlericale, al Teatro Adriano.

di Michele Lembo

Il confino di Ventotene
di Roberta Jannuzzi

Tra i capi di Giustizia e Libertà, Ernesto Rossi fu processato nel 1931 e condannato a 24 anni di reclusione. In Ventotene (Fratelli Frilli Editori, 2004), il socialista Alberto Jacometti, confinato nell’isola dal 1941 al 1943, racconta che, già mentre lo traducevano a Roma, Rossi tentò di fuggire gettandosi dal finestrino del treno in corsa. Sfilate le manette, approfittò di un momento di disattenzione della scorta, con un balzo si aggrappò al finestrino e si lasciò cadere. Il destino, tuttavia, gli fu avverso. Inseguito da un milite, perse il soprabito con la giacca e il portafoglio. Vagò tutta la notte sotto la pioggia. Bussò a una casa, fu respinto. Domandò aiuto a due o tre persone che incontrò, ma nessuno rispose. Infine si perse in un bosco. La descrizione che Jacometti fa di Rossi, concide con quella di un altro confinato, Giorgio Braccialarghe (Nelle spire di Urlavento, Fratelli Frilli Editori, 2005), testimone della nascita del Manifesto di Ventotene. «Snello, con occhi vivaci, nerissimi e un pizzetto caprigno, aveva un non so che d’infantile, quasi una gracilità femminea che non traeva ad inganno, poiché bastava una men che superficiale facoltà d’osservazione per scoprire tutta l’energia di cui era capace e una forza di volontà eccezionale. Possedeva la forte religiosità dei pochi privilegiati che, essendo corazzati moralmente, rifiutano ogni religione rivelata. D’un’onestà superiore, era incapace del più piccolo compromesso con la propria coscienza. Per lui la vita valeva la pena d’esser vissuta, solo se spesa in una costante dedizione al proprio e all’altrui miglioramento, e la sua intima aspirazione era di poter sopravvivere attraverso le opere seminate e portate a compimento durante l’esistenza».


L’anticlericalismo
di Michele Lembo

«Io appartengo alla sparutissima schiera di coloro che credono ancora sia dovere di ogni uomo civile prendere la difesa dello Stato laico contro le ingerenze della Chiesa in Parlamento, nella scuola, nella pubblica amministrazione, e ritengono che quest’obiettivo sia, nel nostro paese, più importante di qualsiasi altro - politico, giuridico o economico - in quanto il suo conseguimento costituirebbe la premessa indispensabile per qualsiasi seria riforma di struttura: io sono, cioè, sulle posizioni di quello che la maggior parte degli esponenti della nostra sinistra democratica oggi definisce “vieto anticlericalismo” e “pregiudizio piccolo-borghese”».
Queste parole Ernesto Rossi scriveva l’8 dicembre del 1964, in premessa del suo libro “Il sillabo e dopo”. Lo studioso, che fu tra gli estensori del Manifesto di Ventotene, si proponeva di mettere a nudo le contraddizioni della condotta della Chiesa di Roma nell’arco di tutta la sua storia. Contraddizioni poste in evidenza attingendo direttamente da scritti e discorsi dei protagonisti di quella storia stessa.
«Questo è un libro anticlericale. Lo hanno scritto otto pontefici: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI». Con queste parole, che usa come sottotitolo nel “Sillabo e dopo”, Ernesto Rossi spiega in modo chiaro e sintetico il suo metodo di lavoro. Un metodo che diviene strumento e fondamento anche della sua battaglia politica. Partendo dall’esame puntuale dei testi degli stessi protagonisti che hanno fatto la storia del Vaticano, Rossi riesce a ricavare i punti cardine della sua critica a quella particolare forma di cultura etica che caratterizza la tradizione vaticana. Un esempio di questo modo di procedere è appunto nell’introduzione al “Sillabo e dopo”. «Unico vero signore di tutte le cose create è Domineddio - spiega Ernesto Rossi, citando uno dei testi di Pio IX - quindi “omnis potestas a Deo”; veramente legittimi possono qualificarsi soltanto quei governi che riconoscono di avere la autorità del comando non per diritto proprio, né per volontà della nazione, ma per mandato di Dio: ed i governi devono essere ubbiditi dai sudditi solo se fanno leggi, amministrano la giustizia, educano la gioventù in conformità della legge di Dio». Se il fondamento dello stato per il clero vaticano sta nella necessità di costruire leggi in conformità della “legge di Dio”, è evidente che non c’è niente di più lontano di questo da una concezione laica di Stato moderno. «La Chiesa cattolica non è un’associazione di fedeli come le altre chiese, costituite per provvedere, in forma collettiva, al culto, all’educazione, alla propaganda: è il corpo mistico di Gesù. Dio si incarna nella Chiesa, unica detentrice della verità». In questo senso «la Chiesa cattolica è dunque “società perfetta”, in quanto tale, completamente indipendente da qualsiasi potere civile: può far leggi, giudicare, punire, anche con la pena di morte». In conseguenza di questo, «in caso di contrasto fra autorità civili e autorità ecclesiastiche, le prime devono sempre cedere davanti alle seconde: se non cedono, i sudditi hanno il dovere di “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, cioè di ribellarsi alle autorità civili per obbedire alle autorità ecclesiastiche».

Nell’ambito di questa visione delle cose umane, il Vaticano si pone evidentemente in antitesi rispetto a tutte le libertà che la cultura illuminista concepisce per l’individuo. Vediamo come citando un discorso di Pio XI del 18 settembre 1938, Ernesto Rossi mette in luce questo aspetto. «Se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della Chiesa - scrive Rossi, citando Pio XI - dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, perché l’uomo è creatura del Buon Dio, è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere per Dio qui in terra e con Dio in cielo». Rossi spiega tra l’altro: «Purchè dimostrino di essere disposti a riconoscere la supremazia della Chiesa […] la Santa Sede dà tutto il suo appoggio anche ai più spietati tiranni, come lo ha dato a Mussolini, a Hitler, a mons. Tiso, a Pavelic, a Dollfuss, a Pétain, a Salazar, a Franco, a Peròn, ai fratelli Diem, e a tutti gli altri dittatori clericali del vecchio e del nuovo mondo». La Chiesa ritenendosi unica depositaria della verità «non potrà mai - chiarisce Ernesto Rossi - di sua volontà, consentire che la scuola, la stampa, il teatro, il cinema, la radio, la televisione, vengano sottratte al suo controllo e alla sua censura, e si adopererà sempre in tutti i modi per non far riuscire o per allontanare dalle cariche politiche e amministrative di rilievo i laici, qualunque siano i loro meriti che […] costituirebbero un ostacolo ai suoi interventi negli affari interni».

Il 9 febbraio 1967 moriva Ernesto Rossi. «Ernesto - racconta Marco Pannella - era stato operato nei giorni precedenti. L'avevo visto il 7, e lui, che era sarcastico verso chi non credeva all'Anno anticlericale che avevamo lanciato, era allegro perché un'infermiera gli aveva detto: "Bé, se lei presiede questa cosa, verrò anch'io all'Adriano". Ernesto, abituato come eravamo spesso noi radicali al Ridotto dell'Eliseo, aveva soggiunto: "L'ho detto anche a Ada: ma vuoi vedere che questa volta quel matto di Pannella ha avuto ragione!". L'operazione era andata benissimo, il medico era Valdoni, tuttavia le conseguenze non furono controllate e all'improvviso Ernesto se ne andò. Di lì a trentasei ore avrebbe dovuto presiedere una prima grande manifestazione della religiosità anticlericale, della religione della libertà di tutti i credenti».

da RadioRadicale

In vino veritas, in acqua putridas, in coca cola adidas (la lista della spesa ).

Eccolo qui, il vino cabernet consigliato per portate a base di carni rosse, cacciagione e brasati. Oddio, a me il vino non è mai piaciuto molto, ma ultimamente qualche buon bicchiere non lo disprezzo, ma senza esagerare, perché, si sa, in vino veritas, in acqua putridas, in coca cola adidas… ahahahahahah… ma quanto stupidi eravamo? Da bambini, io e i miei cugini, ci divertivamo con questi insulsi giochi di parole senza senso.Non significava niente, ma noi ci sforzavamo di convincere gli adulti che, in realtà, si trattava di uno straordinario caso di pubblicità occulta antelitteram, quasi un inno al consumismo modaiolo ed alla esaltazione del brand come status symbol paninaro,quando ancora i fanatici delle marche erano solo un’idea nella mente di qualche pazzo furioso non casualmente inserito nel consiglio d’amministrazione di una multinazionale qualsiasi. Certo, un giochetto non del tutto innocuo, tipico d’una certa cultura alto-borghese, vagamente annoiata e molto, molto snob, che ha castrato le nostre migliori energie auto deterministiche.

Fatto sta che la profezia si è avverata. Oggi vedo un sacco di giovani che sorseggiano vino fuori da locali alla moda e l’acqua sembra davvero qualcosa che imputridisce, visto l’abbondanza di alcol disinfettante con cui si cerca di diluirla. Quel che non comprendono è però l’effetto dissolvente che il gruppo ossidrile -OH ha sulle cellule cerebrali. In più, le marche, le grosse multinazionali ed i loro fatturati miliardari dettano, se possibile, ancor più leggi ad personam. Certo, non era difficile prevederlo, ma fa comunque impressione constatare come, davvero, non siano serviti a niente certi strali di sociologi, filosofi e scrittori di fantascienza nel descrivere un futuro in cui l’uomo sarebbe divenuto schiavo dei propri vizi.

D’altra parte, credo fosse inevitabile e gli ammonimenti, nonché le idealizzazioni di una società scevra da condizionamenti di massa, non hanno fatto altro che svegliare un futuro troppo remoto, creando un presente assonnato, come sosteneva Kafka.

Mettiamo allora anche questa bottiglia nel carrello. Se non altro, è di vetro, materiale ecologico per eccellenza, sul quale almeno mia figlia non avrà nulla da obiettare. Cosa manca? Ah, sì. I biscotti…

da Prepuzio’s Blog