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domenica 11 ottobre 2009

Puglia: i socialisti di Alberto Tedesco sembrano in procinto di andare con il centrodestra; la Puglia Prima di Tutto dovrebbe cambiare denominazzione

Scompiglio politico in Puglia, visto che secondo indiscrezioni politiche raccolte anche da altri quotidiani, i socialisti autonomisti dell'ex assessore Alberto Tedesco starebbero in procinto di allearsi con il centrodestra aderendo ad una lista che il Presidente della Provincia di Bari starebbe preparando in supporto al candidato Fittiano. Ulteriore novità sarebbe inoltre la metamorfosi della lista "La Puglia prima di Tutto" in "Alleanza per la Puglia" o qualcosa di simile che dovrebbe raccogliere Socialisti vari, Udeur e compagnia bella. Ancora brucia lo scandalo riguardante la D'Addario e la sua candidatura con la Puglia prima di tutto alle Comunali di Bari, motivo per il quale Berlusconi avrebbe suggerito al plenipotenziario Fitto...

il cambio della denominazione per far "dimenticare agli elettori" la cara e gentile escort Patrizia D'Addario. Inoltre pare che Tato Grego, rampollo della famiglia Matarrese, riconfermi la sua ricandidatura nonostante sia indagato per associazione a delinquere con Tarantini, che ricordiamo è stato portato agli onori della cronaca per lo scandalo sanità e per aver condotto escort più o meno a pagamento nelle residenze del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

da GrandeSalento

LECCE - La Provincia tuteli la salute di tutti i cittadini, anziché gli interessi speculativi e nocivi di pochi!


di Antonio Romano

Lecce (salento) - Lunedì si svolgerà l’ennesimo tavolo tecnico in Provincia con ARPA e ASL, sul caso Copersalento. Le Istituzioni tornino ad essere Istituzioni con la “I” maiuscola! Tornino a tutelare i diritti e la salute della gente, loro compito fondante, e non gli interessi speculativi di pochi “amici”, specie poi, come in questo spiacevole caso, addirittura a danno della vita di migliaia di persone, adulti, anziani e bambini!

(di Coordinamento civico per la tutela della salute e del territorio) - La Provincia di Lecce si preoccupi della bonifica del territorio contaminato dalla diossina, anziché filosofeggiare sofisticamente sui dati dei limiti di emissione di Copersalento, al fine di trovare “fatue” giustificazioni per riaprire quel nocivo impianto! L’ARPA e l’ASL sono state chiare oltre modo: “una riapertura di quell’inceneritore, anche solo sperimentale, comporterebbe livelli di emissione di diossine superiori ai limiti fissati per legge!” Acconsentirne la riapertura, da parte della Provincia, alla luce di tutti gli elementi emersi ad ogni livello, costituirebbe la più nefanda, illegittima e volgare decisione politica imposta, per interessi speculativi, agli abitanti di questa nostra Penisola Salentina!
Lunedì si svolgerà l’ennesimo tavolo tecnico in Provincia con ARPA e ASL, sul caso Copersalento. Migliaia sono ormai le firme raccolte nella petizione per chiedere alla Provincia di non consentire mai più, nell’inquinato dalla diossina, feudo di Maglie e nel suo circondario, alcuna attività di combustione industriale di rifiuti e biomasse, anche perché il territorio ha bisogno per una sua naturale bonifica dalla diossina di circa una decina di anni in cui non avere più alcun altra fonte industriale di diossina, quale è proprio l’attività di termovalorizzazione di rifiuti e biomasse; dieci anni è infatti il tempo di dimezzamento della diossina bioaccumulata nei tessuti, come sancito dagli autorevolissimi studi scientifici della IARC (International Agency For Research On Cancer), l’Agenzia Internazione per la Ricerca sul Cancro. Ciò nonostante, il vertice in Provincia non ha come scopo definire la messa in sicurezza dell’area, e porre le basi per la sua doverosa bonifica, che implica il diniego a qualsiasi attività di combustione industriale in loco, come ogni buon cittadino si aspetterebbe, ma ha invece lo scopo, come tutti gli elementi lasciano vergognosamente configurare, di consentire la riapertura dell’impianto! Riapertura “sperimentale” si dice, un termine escamotage, per far uscire l’azienda, tra le più privilegiate d’Italia, dal pantano di difficoltà giudiziarie e d’immagine in cui è rimasta intrappolata, una volta palesata scientificamente la contaminazione da diossine della catena alimentare e dei terreni e dell’aria, tutt’attorno ad essa, e la sua sovrapproduzione oltre i limiti di legge delle stesse sostanze riscontrate nei suoi fumi d’emissione dall’ARPA.

La Provincia deve impegnarsi per trovare un nuovo lavoro ai lavoratori di Copersalento, finalmente sicuro, dignitoso e socialmente utile, non fonte di nocivi cancerogeni fumi per tutta la popolazione di decine di migliaia di individui, vessata da un incremento di malattie tumorali, alcune persino sconosciute nei decenni passati, come ha ribadito più volte l’oncologo Giuseppe Serravezza, presidente della Lilt (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori) di Lecce, ass.one aderente al Coordinamento. I tecnici di ARPA e ASL, nell’ultimo consiglio comunale aperto del 16 sett. a Maglie, hanno ribadito davanti alle centinaia di persone convenute, che l’emergenza sanitaria non si può considerare rientrata, e le ulteriori decine di capi di bestiame fatti uccidere dalla stessa Asl negli ultimi giorni per le alte dosi di diossina nei loro tessuti riscontrate, lo ribadiscono al di là di ogni sofistico immorale tentativo di ribaltare la realtà. Convocare continuamente tavoli tecnici da parte delle istituzioni di ogni livello, quasi quotidiani, al di là di ogni giustificabile sollecitudine, nei quali continuamente si chiede agli organi tecnici preposti, in una sorta di velato terzo grado, se sussista ancora la palese emergenza, vuol dire esercitare una pressione sui tecnici, che ci pare voglia a tutti i costi portarli a negare l’evidenza dei fatti.

da IlPaeseNuovo


Il bene comune sotto la polvere

di Maria Luisa Mastrogiovanni

Fino ad oggi a Maglie la Copersalento ha bruciato la spazzatura della Campania, che arrivava da imprese imputate per traffico illecito di rifiuti pericolosi. Dal 1990 le analisi parlano di aria, acqua, terreno contaminati. Erano contaminati dal 2004 anche latte, formaggio e carne di mucche e pecore oggi abbattute

Esiste da 20 anni una centrale termoelettrica nel Salento, una piccola Cerano capace di buttare nell'aria, in un solo giorno, tanta diossina quanta ne butta l'Ilva di Taranto in quattro mesi.
Questa centrale termoelettrica nell'opinione pubblica è stata da sempre percepita come un sansificio. Un impianto al massimo un po' pernicioso per le puzze e i fumi, ma alla fin fine niente di che.
Ed in effetti la Copersalento lo è stato, un sansificio, per più di 30 anni.
Ma negli ultimi 20 il business vero è stato bruciare rifiuti: la sansa esausta prima, il cdr (combustibile da rifiuto) poi. Negli ultimi 10 anni infine, il business vero è stato percepire incentivi statali perché bruciava rifiuti: incentivi statali che lo Stato prende dalle nostre bollette dell'Enel e gira alla Copersalento (gli incentivi si chiamano Cip6).
Il Salento in questi anni, ha ricevuto, come unico beneficio, una trentina di posti di lavoro. In sintesi: un impatto ambientale devastante e ancora mai completamente quantificato in cambio di 30 sudati stipendi e tre morti sul lavoro.
In più un aggravio di tasse, soldi che tolgono dalle tasche dei cittadini per dare all'azienda.
Tutto avviene secondo legge dello Stato, come in altri impianti simili nel resto d'Italia che bruciano sansa esausta e cdr.
Quello che avviene contro la legge, cioè modifiche non autorizzate o anomale dell'impianto, emissioni di fumi e polveri inquinanti al di sopra del tetto consentito, dovrebbe comportare la revoca dell'autorizzazione a bruciare e produrre energia e, come conseguenza, la perdita dei finanziamenti.
La sansa esausta e il cdr, per l'Europa e anche per la Scienza sono proprio rifiuti, monnezza, non "fonti rinnovabili" come invece dice l'Italia. E per questa anomalia introdotta dalla legge, l'Italia è stata anche sanzionata dall'Europa.
Abbiamo scoperto inoltre che la Copersalento dal 2003 brucia rifiuti provenienti anche dalla Campania, oltre che dal resto d'Italia.
Due delle ditte campane che l'hanno rifornita di cdr per anni, sono state imputate nel processo che ha interessato l'inceneritore di Colleferro, insieme ad una trentina di altre ditte. Che cosa facevano? Succedeva che "taroccassero" il cdr che vendevano a inceneritori compiacenti: in mezzo alla comune monnezza c'erano rifiuti tossici. Falsificavano la "carta d'identità del rifiuto" (codice CER) e i materiali pericolosi venivano accettati dall'inceneritore come banale cdr.
Non solo: una decina di altre ditte che hanno rifornito di cdr la Copersalento dal 2003, sono state imputate a vario titolo per traffico di rifiuti pericolosi o smaltimento non autorizzato di rifiuti.
In quei casi tutto avveniva con il placet dei gestori degli inceneritori.
Non diciamo che questo è avvenuto anche con la Copersalento, diciamo che, siccome sono state imputate in vari procedimenti negli anni, in maniera reiterata, non sia mai che abbiano portato qui quel cdr.
A controllare che le ditte fornitrici avessero tutte le autorizzazioni a posto c'era un consulente, Antonio Fitto, il sindaco di Maglie.
Ricostruire la storia soprattutto attraverso le fonti documentali, di come un sansificio, cioè un impianto che estrae oli per usi industriali dalla sansa, sia diventato un inceneritore, cioè un impianto che la sansa dopo aver estratto l'olio può anche bruciarla, infine sia diventato una centrale termoelettrica, cioè un impianto che brucia la sansa esausta per produrre energia, e per concludere, diventa una centrale termoelettrica che brucia sansa e cdr vendendo l'energia prodotta all'Enel, è stata un'impresa difficile che ha compiuto la collega Martella.
La stessa Procura nel 1988 lamenta il fatto che molta documentazione sia mancante presso gli uffici che invece dovrebbero averla.
In tutto questo evolversi degl'impianti e del sommare autorizzazioni su autorizzazioni per diventare sempre più potente e redditizio, l'impianto ha prodotto inquinamento nell'aria, nell'acqua, nel terreno.
Ci sono centinaia di carteggi che abbiamo passato al setaccio tra tutti gli enti deputati al controllo: Asl, Provincia, Comune, Arpa che parlano di sforamenti di tutti i tipi già dal 1993.
Nel frattempo in Procura si aprivano fascicoli su fascicoli, perché gli sforamenti, almeno quelli degli ultimi 15 anni, sono stati segnalati all'autorità giudiziaria e in almeno un caso (non ce ne risultano altri) è stata emessa sentenza definitiva di condanna.
Ecco dunque la storia dell'unica grande centrale termoelettrica salentina, una storia che intreccia, come sempre accade, interessi economici e politici che si nutrono, in un "sistema" ben oleato, della vita delle persone, nascondendo il "bene comune" sotto uno strato spesso di polvere grassa e nera.

da IlTaccoD'Italia

Sfilano gli omosex e rivendicano normalità


di Cinzia Gubbini

Avranno pure ragione Andrea e Francesca: «Questa mica è una festa, siamo qui per denunciare cose gravissime come l'escalation della violenza contro gay e trans». Ma non c'è dubbio che la versione del movimento lgbt che è sceso in piazza ieri a Roma sia anche espressione del tentativo di esplorare nuove strade per rivendicare i diritti delle persone omosessuali. Il presidente dell'Arcigay Aurelio Mancuso, in corteo, lo dice esplicitamente: «Per la prima volta siamo in una grande manifestazione nazionale che non sia un Pride.Questo è il primo nucleo del popolo lgbt che intende cambiare anche il movimento. Da qui si lancia anche un messaggio ai leader e alle leader del movimento: le divisioni, i distinguo, gli atteggiamenti da primedonne devono cessare». Insomma, c'è movimento nel movimento omosex e trangender.
Lo si capiva benissimo arrivando ieri a piazza della Repubblica. Primo, per l'impatto visivo. Cartelli con su scritto «uguali» - simbolo della manifestazione - e totale assenza di qualsivoglia eccentricità. Uomini e donne, di tutte le età, vestiti in abiti «civili». Ed era proprio questo che si voleva dimostrare: siamo civilissimi, componenti di questa società, uguali agli altri nella nostra quotidianità fatta di famiglia, figli, lavoro, amici. Ma sempre discriminati, picchiati, minacciati. È stato scelto di evitare qualsiasi esplicito riferimento politico (anche al banchetto del manifesto è stato chiesto di non essere in piazza), per quanto alla fine le uniche adesioni politiche siano arrivate dai partiti di sinistra. Sul piatto la normalità del quotidiano e l'anormalità di una società omofoba. La madrina della manifestazione Maria Grazia Cucinotta molto star nel suo abito viola acceso, e accanto le trans in camicia e jeans. Per questo è stato ribaltato completamente il rito del corteo con interventi finali. Prima le parole dal palco. Ettore Ciano, un genitore dell'Agedo, ha gridato la sua rabbia per «aver lavorato quarant'anni per costruire un paese che non rispetta i miei figli omosessuali». Fabrizio, padre di Lavinia insieme a Luca, ha letto una lettera commovente a sua figlia per spiegare il perché della loro partecipazione alla manifestazione. Dino, il ragazzo aggredito davanti al Gay Village di Roma, ha ricordato quanto la sua vita sia stata segnata da quell'episodio. Ed è proprio in questa fase iniziale della manifestazione che è emerso il secondo sintomo di una frizione dentro al movimento. Quando la giornalista Delia Vaccarello ha letto il messaggio inviato dalla ministra per le Pari Opportunità Mara Carfagna, che giovedì ha incontrato gli organizzatori della manifestazione. Fischi dalla piazza, contestazione: «Buffona, buffona». Mentre Vaccarello faceva notare come sia vero quanto sottolineato dalla ministra, e cioè che grazie a questo governo per la prima volta sarà avviata una campagna sulla stampa e sui media contro l'omofobia.
«Potevamo anche ringraziare padre Pio e eravamo a posto - commenta Gianni da Verona che sul petto in modo un po' provocatorio porta lo stesso simbolo della manifestazione però sbarrato e con sotto la scritta «diverso». «Qui si va a sdoganare una destra che ci stringe le mani alle manifestazioni e poi ci spacca la testa in strada». Il riferimento è alla ormai famosa visita della Pd Paola Concia - unica parlamentare apertamente omosessuale - ai «fascisti del terzo millennio» di Casa Pound. Ieri al corteo c'era anche lei ( e anche cartelli con su scritto «Conciati male») che ha ribadito: «Bisogna fare appello alla parte migliore del centrodestra e del centrosinistra per far fare un passo avanti all'Italia e approvare la legge contro l'omofobia». Il testo di legge dovrebbe essere discusso in parlamento domani, per ora epurato del riferimento ai trangender, anche se la ministra Carfagna si è impegnata affinché sia reintrodotto. Ma anche sulla legge contro l'omofobia c'è polemica. Ieri il coordinamento di «Facciamo breccia» distribuiva un volantino che incitava a rifiutare la «vittimizzazione» posta in atto da un ordine «razzista e eterosessita», che prima crea gli allarmi su violenze da loro stessi legittimate e poi sforna nuove fattispecie di reato. Porpora, del Movimento identità transessuale di Bologna la mette così: «La questione dei diritti io la associo a un percorso di liberazione. Sono d'accordo che che bisogna abbattere i muri, ma devi tenere il timone dritto. Per capirci, io in piazza con la Mussolini che ha detto "meglio fascisti che froci" non posso esserci». dice invece Andrea Rubera di «Nuova Proposta», il gruppo degli omosessuali di fede cristiana: «I Pride vanno benissimo, ma servono anche manifestazioni così. Per noi il dialogo è un valore fondamentale, anche con il ministro Carfagna. Bisogna lavorare seriamente perché il movimento sia unito, le frammentazioni sono soltanto un danno».
Sarebbe riduttivo, però, leggere soltanto delle precise scelte politiche dietro un nuovo «sentire» che emerge nel movimento lgbt. Riflette Stefano Centonze, artista e illustratore: «Io credo che molto giochi anche la fase storica. Quante persone oggi sono disposte ad esporsi? Credo molto meno che in passato. Da sempre gli omosessuali e i trans aspirano alla normalità. Il guaio è che puoi pure mostrare quel bravo ragazzo che sei, ma bravo per questa società non lo sarai mai».

da IlManifesto

Da Fondi al Novantadue. I legami di una storia irrisolta e l'atto di nascita di Forza Italia

di Pietro Orsatti

La lotta alla mafia si è fermata a Fondi, e il suo atto finale non è tanto la decisione del consiglio dei ministri che ha respinto la completa e puntualissima richiesta del prefetto di non sciogliere il comune, quanto in una dichiarazione di uno dei politici del Pdl che più avrebbe ricevuto danno da uno scioglimento e dall’emersione del fenomeno di condizionamento e infiltrazione dei clan. «Oggi è stata fatta giustizia, restituendo in un Comune sciolto la parola al popolo sovrano, che potrà scegliere da chi farsi governare e a chi affidare l’amministrazione della propria città» Questa la dichiarazione del senatore del Pdl Claudio Fazzone, coordinatore del Pdl in Provincia di Latina.
«Noi – prosegue – siamo dalla parte della legalità, e il governo lo sta dimostrando con i fatti. La sinistra invece sta utilizzando la lotta alla criminalità organizzata per tentare di sovvertire i risultati che il centrodestra ottiene democraticamente. Il tutto a danno di migliaia e migliaia di cittadini, dipinti come malavitosi per la sola brama della sinistra di accaparrarsi qualche voto in più». Ma chi è Fazzone? È, come si mormora, l’uomo forte per la corsa alla Regione Lazio del prossimo anno? Se così fosse, Fazzone, che proprio su Fondi basa molto del suo consenso, davanti a uno scioglimento per mafia del comune sarebbe stato costretto a rinunciare alle proprie ambizioni. Ma, continuiamo a ripetere, chi è Fazzone? È un ex poliziotto, fedelissimo di Nicola Mancino, di cui fu l’uomo forte quando l’attuale vicepresidente del Csm nel ’92 ebbe l’incarico di ministro dell’Interno, e con un passato «nei ruoli della Presidenza del Consiglio». La sua storia politica nasce lì.

Sarà solo una coincidenza, ne siamo certi, ma ci troviamo ancora riproiettati nel Novantadue, l’anno terribile di Gladio, dell’impeachment a Cossiga, di Mani Pulite e delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Torna ancora quell’anno e quello scenario di funzionari infedeli dello Stato come Contrada e delle “agende rosse” scomparse, degli armadi dimenticati di Gladio a Forte Bravetta e dei computer di Falcone manomessi nel suo ufficio al ministero di Giustizia. Molte facce nuove sono salite sul palcoscenico della politica in quel periodo, Fazzone compreso. E oggi quel comune da cui lui attinge un consenso formidabile diventa il simbolo di un conflitto che sembra ormai insanabile fra due Italie totalmente differenti, dicotomiche, non comunicanti.

Fondi è diventata il Fort Apache del Pdl. Mentre nei processi di Palermo a Dell’Utri e a Mori e Obinu, che si valutavano ormai sterilizzati, parte l’attacco all’atto fondante del Pdl, ovvero la nascita di Forza Italia, la creatura politica di Berlusconi (che a Fini ogni giorno che passa sembra stare sempre più stretta) usa Fondi come baluardo, punto irrinunciabile, quasi una Stalingrado alla rovescia. Fondi non può essere sciolta, anche contro l’evidenza di una relazione prefettizia che, se resa pubblica, avrebbe effetti devastanti. È facile dedurlo semplicemente andando a vedere le dichiarazioni agli atti di pentiti accreditati come Antonino Giuffré che a proposito dell’interessamento di Cosa nostra (sempre nel ’92 quando Dell’Utri stava iniziando a mettere in piedi il “movimento” per la discesa in campo di Berlusconi) afferma che «a Cosa nostra interessava che il vertice di questo movimento assumesse delle responsabilità ben precise per fare fronte a quei problemi e poi, successivamente, l’andare a mettere degli uomini puliti all’interno di questo movimento che facessero, in modo particolare, gli interessi di Cosa nostra in Sicilia, mi sono spiegato?». Si è spiegato benissimo Giuffré, le sue dichiarazioni, infatti, hanno contribuito a condannare Dell’Utri a nove anni in primo grado. E di che anno parlava? Il Novantadue, ovviamente.

Tratto da: orsatti.info
da AntimafiaDuemila

Mafia: intercettazioni politici ''distrutte'', ma sono agli atti

Palermo. Le intercettazioni delle conversazioni telefoniche fra Toto' Cuffaro e un gruppo di una ventina di parlamentari, che dovevano essere distrutte un anno fa, sono rispuntate a sorpresa, depositate nella nuova inchiesta per mafia sull'ex presidente della Regione Sicilia.
La scoperta e' stata fatta dai difensori dell'attuale senatore dell'Udc, che avevano richiesto copia di un cd contenente i file audio originali dei colloqui tra Cuffaro e - fra gli altri - Silvio Berlusconi, Renato Schifani, Gianfranco Fini, Angelino Alfano. Tutti atti inutilizzabili, senza l'autorizzazione del Parlamento, ma che soprattutto dovevano essere distrutti gia' da un anno: una decisione in questo senso era stata presa dal Gip di Palermo Fabio Licata, al termine di un lungo contraddittorio fra la Procura, diretta da Francesco Messineo, i legali di Cuffaro e di Berlusconi. Secondo il Gip, oltre ad essere inutilizzabili senza l'autorizzazione del Parlamento, quei dialoghi erano del tutto irrilevanti, e lo sarebbero stati anche quelli tra Cuffaro e Berlusconi, in cui il presidente del Consiglio rassicurava il governatore siciliano circa un positivo esito dell'inchiesta che lo riguardava. Un perito nominato da Licata aveva poi eseguito la distruzione, ma ora la copia del cd che teoricamente non doveva esistere piu' e' spuntata di nuovo: ce n'e' quanto basta, per Cuffaro, per sostenere che chissa' quanti altri duplicati di quegli atti (ci sono infatti anche i "brogliacci" contenenti le sintesi delle conversazioni) sono abusivamente in circolazione. Mentre la Procura, che in extremis ha bloccato la consegna del materiale ai difensori, parla di "errore materiale" avvenuto probabilmente nella trasmissione degli atti dal Gip al pm Nino Di Matteo, e ha disposto un nuovo invio al giudice, per una effettiva distruzione. I legali di Cuffaro, gli avvocati Nino Caleca e Nino Mormino, intendono adesso insistere per la consegna.

AGI

da AntimafiaDuemila

Lettera di un ergastolano

di Alfredo Sole, carcere di Opera, Milano (ergastolano ostativo da più di 20 anni)

Nessun ergastolano ostativo percorrerà MAI quel lungo corridoio che porta alla libertà. Il nostro destino è la sofferenza infinita, il buio. Ci sono diversi modi per uccidere qualcuno, il più umano è quello rapido, senza far soffrire la vittima. Quello disumano è gioire della lenta e sofferente morte altrui. E’ in quest’ultimo modo che noi veniamo uccisi, lentamente, tutti i giorni. Non possiamo meravigliarci. Discendiamo da un’antica cultura dove gli uomini venivano inchiodati su una croce e lasciati a marcire lentamente. Ma anche in quella orribile cultura romana c’era sempre qualche soldato che aveva pietà di quegli esseri in croce e, per alleviare il loro dolore, li colpiva con una mazza alle gambe rompendogliele, in questo modo accelerava la loro morte. Oggi si è persa anche questa BARBARA UMANITA’, e noi veniamo lasciati inchiodati alla croce, a marcire lentamente come medicina per soddisfare il basso istinto del popolo. Non possiamo essere per sempre il para-fulmine dell’insoddisfazione di una società che si avvia al declino più assoluto. Non siamo eterni, anche noi, per fortuna, giungeremo all’ultimo respiro. Con chi ve la prenderete dopo? Forse queste sono parole dure o forse non è altro che la cruda verità. Comunque sia, l’Italia ha un problema e, questo problema non siamo noi, ma voi. Se lascerete che la sete di vendetta offuschi quel lato umano che tutti possediamo, allora gioite pure per questi uomini che vengono lasciati in croce, perché è l’Italia che meritiamo. E prevale in voi il lato umano, allora date quel colpo di mazza sulle nostre gambe e chiedete allo stato la pena di morte. Se a quel lato umano si aggiunge un senso di civiltà, allora aiutateci a fare in modo che l’Italia torni ad essere un paese civile e abolisca l’ergastolo. Non ci non altre alternative: BARBARA UMANITA’ o UMANITA’ CIVILE. Scegliete! In un modo o in un altro, tirateci giù dalla croce.

"Nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è una infinita possibilità!" (D. M. Turoldo)

99 POSSE - POVERA VITA MIA



POVERA VITA MIA
Alle volte mi ritrovo con la testa tra le mani
e penso di essere diventato pazzo
mi dico cazzo! non è reale qua mi devo calmare
eh già, devo stare calmo, riprendere il controllo,
lucidità, perché fa caldo qua,
senti che caldo che fa, si muore, ma si fa per dire
non è che fa caldo e uno muore
a meno che non sia anziano e c'abbia problemi col cuore
o di pressione, ma non è che fa caldo e uno muore
il caldo è una cosa naturale, come andare a lavorare
C'è l'affitto da pagare? Vai a lavorare,
lì ti possono sfruttare, umiliare, sottopagare,
cassaintegrare, ma non è che ti possono ammazzare,
non è così, perdio, non è così che deve andare,
cazzo, morire, cazzo morire per poco più di un milione
non può capitare, ma non si sa come
succede ogni giorno a ben tre persone
e io sarei il pazzo! mille morti l'anno è una guerra perdio
ed io sono un pazzo fottuto che con una guerra in corso
vado ancora in giro disarmato, un pazzo, un pazzo fottuto
Povera vita mia chi coglie e magna
chi se ne fa nu rap e chi na pigna

Povera vita mia chi magna e magna
chi se ne fa nu rap e chi na pigna

Più ci penso e più mi è chiaro
il fatto che non sono diventato pazzo
è solo che là fuori c'è qualcuno
che si è messo in testa di ammazzarci tutti
e puoi giurarci che nemmeno lui è pazzo
pazzo è riduttivo per un serial killer recidivo
che poi non è neanche uno
perché sono tanti e sono pure tanto ricchi
e potenti e sfacciati maledetti siano loro
e chi cazzo li ha creati, avidi assassini senza scrupoli
che intascano un miliardo ogni due mesi
e si permettono di parlare
di taglio alle spese e ai contributi
i bastardi fottuti, figurati se c'hanno orecchie per sentire
chi gli parla di riduzione dell'orario di lavoro
per loro se dopo otto ore di lavoro
sei stanco, fai una cazzata e muori
è un peccato e manco per la tua vita
quanto per la pensione che hanno cacciato
e comunque hanno risparmiato
rispetto all'assunzione di nuove persone a pieno salario
è questo lo straordinario obbligatorio
chi vola alle Bahamas e chi va all'obitorio
e dovremmo pure dirgli grazie
perché “offrono” lavoro

Povera vita mia chi coglie e magna
chi se ne fa nu rap e chi na pigna

Povera vita mia chi magna e magna
chi se ne fa nu rap e chi na pigna

Alle volte mi ritrovo con la testa fra le mani
e penso, penso e rifletto: in Italia c'è un conflitto
una guerra che fa più di mille morti all'anno
tra lavoro e mala sanità, e dimmi tu
se questa qua non è pulizia etnica
cos'è come si chiama?
Quando uno che c'ha i soldi può avere tutto
e uno che ne ha di meno non ha diritto
nemmeno a un letto in un ospedale quando sta male
e se vuol farsi curare deve pagare
solo che coi soldi che gli danno quelli del lavoro interinale
c'è l'affitto da pagare, il bambino da mantenere
e cosa cazzo vuoi pagare un dottore
quando non sai nemmeno se tra due mesi
c' avrai ancora un fottuto lavoro
perché il lavoro interinale non è altro che
una prestazione occasionale di lavoro manuale
non qualificato, esattamente il caso in cui
il rischio d'incidente sul lavoro è quintuplicato
e tutto questo non è capitato
ma è stato pensato, progettato e realizzato
dal padronato in combutta con l'apparato decisionale dello stato
per il quale la vita di un proletario non vale non dico niente
ma sicuramente non vale il costo di un'assunzione regolare
con tanto di corso di formazione professionale;
è evidente il disegno criminale o no?
o sono io che sono pazzo?

Povera vita mia chi coglie e magna
chi se ne fa nu rap e chi na pigna

Povera vita mia chi magna e magna
chi se ne fa nu rap e chi na pigna

Messina. Autorità contestate ai funerali di Stato



Questa è la conmtestazione avvenuta alcuni giorni fa astutamente oscuta dai media.

ANCORA SULLA SENTENZA PER I FATTI DI GENOVA 2001 - ASSOLTI SENZA ONORE


Il tribunale di Genova ha stabilito che Spartaco Mortola e Gianni De Gennaro non agirono su Francesco Colucci, questore di Genova al tempo del G8 del luglio 2001, per indurlo alla falsa testimonianza nel processo Diaz (poi concluso in primo grado con 13 condanne). Fatto sta che Colucci cambiò versione su un dettaglio importante: disse d'aver chiesto l'arrivo a Genova del portavoce della polizia di stato, Roberto Sgalla. In precedenza aveva sostenuto che Sgalla era stato inviato dal capo della polizia, appunto De Gennaro.Il "fatto non sussiste", dice il Tribunale, e bisogna prenderne atto, ma le registrazioni delle telefonate fra Mortola a Colucci - a dire il vero penose per entrambi - non si possono cancellare. Ciascuno può farsi un'idea. Io credo che Colucci fu effettivamente spinto a cambiare versione: è difficile pensare il contrario, una volta lette le trascrizioni, e considerato che né Colucci, né Sgalla, né De Gennaro erano imputati al processo Diaz (Mortola sì, è stato assolto in primo grado).

Quel che colpisce in questa vicenda - oltre ovviamente alla disinvoltura di certi contatti fra testimoni e imputati, forse per conto di altri - è la pervicacia con la quale al vertice di polizia, De Gennaro in testa, si è combattuto un braccio di ferro con la magistratura, senza esclusione di colpi, nella convinzione di pover ritrovare in Tribunale la verginità perduta nelle strade di Genova.

Anziché affrontare l'opinione pubblica e lavare i panni sporchi davanti ai cittadini, in modo da recuperare davvero dignità e decoro istituzionale, la polizia di stato ha chiesto e ottenuto protezione politica (bipartisan) e ha poi affrontato la magistratura con lo spirito di chi cerca una resa dei conti. I dirigenti imputati hanno sfidato i pm e i giudici, puntando al colpo grosso: l'impunità completa. Per raggiungere l'obiettivo non hanno trascurato alcuno strumento: non collaborazione, ostacolo alle inchieste, rifiuto di rispondere alle domande dei pm, promozioni sul campo per gli imputati di grado più alto.

Le assoluzioni alla fine sono arrivate per tutti i dirigenti più importanti; sono rimasti nella rete del giudizio penale, fra Diaz e Bolzaneto, 29 agenti e funzionari di basso livello e così lo scempio dei corpi e delle leggi è stato comunque certificato dai tribunali. Le assoluzioni di Mortola e De Gennaro si collocano lungo questa scia. Ma il prestigio della polizia di stato e la credibilità del suo gruppo dirigente sono ugualmente compromessi.

da Altreconomia

Niccolò Ghedini, la sua carriera dai nuclei neofascisti al Palazzo:strage di Bologna, Furlan etc..


È l'avvocato artefice delle leggi ad personam, l'architetto del Lodo. E anche il protagonista di smentite e gaffes che hanno messo in crisi la credibilità del premier. Ecco la sua carriera dai nuclei neofascisti al Palazzo
L'unica volta che Niccolò Ghedini si sedette dall'altra parte della barricata era un giovane avvocato di belle speranze chiamato a rispondere su certe sue pericolose frequentazioni di adolescente. Il processo era quello per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, oltre 200 feriti). Rimase per sei minuti sulla sedia del testimone davanti al presidente della Corte Mario Antonacci. Confermò quanto aveva dichiarato il 27 settembre 1980 quando fu interrogato in questura. Gli inquirenti si erano concentrati, nelle indagini, su un gruppo di neofascisti padovani, la sua città, che avevano come punto di riferimento il quartiere Arcella. Ghedini li conosceva per una sua precocissima attività politica nel Fronte della Gioventù (l'organizzazione giovanile del Msi). Tracciò il profilo di Roberto Rinani, detto "l'Ammiraglio", imputato di concorso in strage, poi assolto: "Per la mia valutazione personale, mi dava l'idea che tra quei ragazzi, che conoscevo, fosse il personaggio di spicco".
"Quei ragazzi" erano una ventina di persone che si scontravano con i "rossi": "Si bastonavano per lo più". Si diceva, ma lui lo può affermare solo "de relato", che facessero anche uso di armi mentre "non ho mai sentito parlare di esplosivi". Negò di aver conosciuto Massimiliano Fachini (altro imputato) e sì invece che conosceva Franco Giomo: "Siamo usciti assieme un paio di volte, poi ha avuto un incidente, si è messo a fare l'assicuratore e non l'ho più visto. L'ho anche cercato qualche volta. So che ha avuto problemi con la giustizia ed è stato condannato e poi assolto".
Franco Giomo era un dirigente nazionale del Msi finito nei guai per i collegamenti con il nucleo Fioravanti-Mambro: i due che per la strage di Bologna ebbero l'ergastolo come autori materiali. Il futuro legale di Silvio Berlusconi nel 1988 aveva 29 anni e già una certa dimestichezza di aule di tribunale. Due anni prima era stato l'assistente di un principe del foro come Piero Longo, il suo maestro, nella difesa di Marco Furlan, il ragazzo della Verona bene che con Wolfgang Abel aveva dato vita alla banda Ludwig col proposito di liberare la società da drogati, nomadi, frequentatori di sale a luci rosse e preti: 15 persone uccise e 39 ferite. Durante le pause delle udienze Longo non mancava di presentare a tutti l'ancora acerbo collega con una frase rituale: "Tenete a mente il nome di questo ragazzo.
Si chiama Niccolò Ghedini. Farà strada".
Nemmeno lui immaginava quanta. Oggi lo stesso Niccolò Ghedini è, come il suo omonimo Machiavelli, il consigliere più ascoltato del Principe.
È lui che scende nell'arena delle trasmissioni più agguerrite, come "AnnoZero" per lanciare il grido di battaglia "Mavalaaa", diventato un marchio di fabbrica all'indirizzo degli avversari, ovviamente "comunisti" e "parrucconi". Lui che si offre alla stampa nei momenti delicati e al prezzo di straordinarie gaffes. Come quella proverbiale su Berlusconi che "anche fossero vere le ricostruzioni di questa ragazza (la D'Addario), e vere non sono, sarebbe al massimo l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile". O come quella sull'avvocato di Zappadu, il fotografo di villa Certosa, che "è difeso da un eurodeputato dell'Italia dei Valori. C'è una doppia veste, avvocato e parlamentare che non si dovrebbe confondere" (dal suo pulpito). O quando definisce le registrazioni della D'Addario inverosimili e frutto d'invenzione perché "non credo sia mai andata a casa di Berlusconi" quando proprio "L'espresso" le ha rese disponibili con la voce del premier chiaramente identificabile.
E fossero solo le gaffes.
Ghedini è l'architetto delle leggi ad personam che hanno salvato il presidente da molti processi, lo stoico resistente d'aula che opponendo impedimenti, codicilli, astuzie procedurali, è riuscito a rinviarne altri fino al lodo Alfano che li ha sospesi e sulla legittimità del quale la Consulta si pronuncerà il prossimo 6 ottobre.
Salvo avere l'impudenza di affermare che non è affatto contento che non si arrivi mai a sentenze perché sarebbero "senza dubbio favorevoli". È anche l'uomo che sveglia il presidente del Consiglio per rendergli noto che Veronica, la moglie, ha scritto lettere contro di lui ai giornali o ha chiesto il divorzio, che vuole una legge per rendere impossibile la pubblicazione delle intercettazioni.
Ora allarga la sua sfera d'azione, il ruolo "tecnico" non gli basta più. Media col Fini furibondo per la querela al "Giornale" di Feltri, attacca la Lega che vorrebbe la presidenza del Veneto e la accusa di fare una battaglia medievale di chiusura "per la polenta e contro l'ananas". Un lavoro indefesso, matto e disperatissimo, per alzare una corazza e far scudo all'uomo che gli ha cambiato l'esistenza. Nega se lo si definisce il ministro ombra della Giustizia. E in realtà anche quella carica occulta gli starebbe stretta.
Senza avere un ruolo istituzionale preciso, se non quello di semplice deputato, ha sbaragliato, nel cuore di Silvio, tutti i possibili rivali. Fossero essi colombe o falchi. Si è fatto molti nemici, ma tira dritto per la sua strada e del resto sa di essere "una carogna" (autodefinizione).
Dal nuovo ruolo di presidente della Consulta giustizia del Popolo delle libertà controlla le terminazioni nervose del sistema più sensibile del berlusconismo. E pensare che fino a un certo punto della sua vita non aveva pensato né alla politica né alla carriera legale: voleva fare l'agricoltore, gli interessava la terra.
E questa è la sua storia.
Quando nasce, il 22 dicembre 1959, Niccolò ha tre sorelle. Nicoletta, 17 anni, Francesca, 15, e Ippolita, detta Ippi, 9, il cui nome è un omaggio esplicito alla mitologica regina delle Amazzoni. Il padre Giuseppe, ex ufficiale di cavalleria, ha una passione per l'equitazione almeno pari a quella per il diritto: dna perfetto per il futuro assistente del Cavaliere.
È un famoso penalista, schieratissimo a destra, originale e passionale.
Non di rado nello studio volano i posacenere. L'arcigna madre Renata tiene le redini di un'educazione rigida e consona al rango di una famiglia dell'alta borghesia con una venatura di nobiltà se si fa fede al Niccolò che dichiarerà: "Nel 1600 i miei antenati furono insigniti del blasone patrizio per particolari meriti resi alla Serenissima Repubblica di Venezia". Lo stemma è un orso feroce con la spada sguainata: quasi una rappresentazione dell'immagine che vorrà dare di sé.
Le ragazze hanno il percorso canonico delle bennate di Padova. Le scuole al Sacro cuore, il classico al Tito Livio.
L'ultimogenito è il cocco di casa.Molto sport: nuoto, sci, cavallo con qualche gara vinta. Poco studio: "Ero un asino". Racconterà di essere caduto da un'impalcatura, in prima media, mentre cercava di sputare in testa agli orchestrali di passaggio nella strada. Lo mandano al collegio Barbarigo dove fatica, ogni anno, ad arrivare alla sufficienza, "ma non sono stato mai bocciato".
A 13 anni, la svolta dolorosa.
Muore il padre. Nicoletta e Ippolita sono costrette a occuparsi dello studio perché ne hanno seguito le orme.
Francesca ha il pallino dell'archeologia.
E Niccolò è già in politica.
Un nero deciso, negli anni in cui, come altrove, non esistevano le mezze misure e a Padova restava viva una tradizione neofascista nata con Franco Freda e con la cellula di Ordine Nuovo impegnata nella strage di Piazza Fontana.
Occupa il tempo che gli rimane nelle due aziende agricole di famiglia che producono vino e olio e coltiva il sogno di iscriversi ad agraria.
Conosce, quindicenne, la donna della sua vita, Monica Merotto, figlia del titolare di un'oreficeria, che si laurerà a Cà Foscari con una tesi su "Federico II ed Ezzelino II da Romano nel territorio padovano" e gli darà, molto tempo dopo, un figlio chiamato Giuseppe, come il nonno, oggi dodicenne.
Le scelte irrevocabili dell'adolescenza, si sa, possono cambiare rapidamente. Non è ancora maggiorenne, Niccolò, quando abbandona l'estremismo per le acque più placide del Partito liberale in cui si distingue un leader che ha per nome Giancarlo Galan, attuale governatore del Veneto.
E anche la terra può attendere se tutto il mondo che ti circonda lascia intendere che un Ghedini non può non essere un avvocato.
Padova è facoltà di tradizione, troppo difficile. Per "l'asino" Niccolò molto meglio ripiegare su Ferrara, dove si laurea.
Quando finalmente può mettere piede nello studio di via Altinate 86, davanti al tribunale, trova un signore che sarà parte importante del suo destino.
È successo che le sorelle, civiliste, hanno rafforzato la squadra con un penalista.
E non uno qualsiasi, ma col professor Piero Longo, nato ad Alano di Piave nel 1944, figlio del direttore delle Poste di Venezia, uno che non si preoccupa di manifestare la sua aperta simpatia per l'estrema destra.
Lo ricordano allievo del Marco Polo, mentre brucia in piazza San Marco le bandiere cubane al tempo della crisi dei missili. Intelligenza fine, anche spregiudicata.
Come quando cercò di iscriversi in un movimento di sinistra coerente con la strategia dell'"entrismo" professata da certa destra rivoluzionaria.
Brillante studente a Padova e poi subito assistente con un rapporto al minimo rude con quelli di sinistra se, quando non lo salutavano in biblioteca, li apostrofava più o meno così: "Fate i furbi con me ma io vi faccio un mazzo (eufemismo) così". Tra l'accademia e la professione privilegia la seconda e non si dimentica dei vecchi camerati e li difende nello storico processo per la ricostituzione del partito fascista (1975). La sua perizia però non evita la condanna per tutti.
Si dice di Longo perché, almeno a Padova, lui è considerato la mente e Ghedini sarebbe un testardo, diligente, pignolo, allievo.
Che cerca, anche in un certo lessico aulico, di imitare colui che tutto gli ha insegnato.
Proverbiali alcune frasi pronunciate con la voce cantilenante che abbiamo imparato a conoscere: "Ella, signor giudice...". Sta di fatto che, per quelle circostanze fortunate che capitano agli umani, Niccolò finisce, e siamo alla metà degli anni Novanta, a fare il segretario delle Camere penali quando Gaetano Pecorella ne è presidente.
È Pecorella che lo introduce alla corte di Arcore.
Prima un processo, poi un secondo, poi si prende tutto.
Difende il premier "gratis" nelle cause personali mentre si fa pagare per quelle che interessano Mediaset o le altre società del Sultano.
Niccolò Ghedini è diventato più ricco di quanto già non fosse.
Dichiara di guadagnare un milione e 300 mila euro ed è tra i Paperoni della Camera.
Possiede 44 tra case e terreni tra cui una tenuta a Montalcino e la storica dimora di famiglia a Santa Maria di Sala (Venezia) dove si è fatto costruire una piscina, una cappella privata e dove ospita i vertici del Pdl veneto quando non lo stesso Berlusconi.
In garage tiene una collezione impressionante di auto d'epoca.
Quanto alle sorella, Francesca, direttore del dipartimento di Archeologia a Padova, bellissimi occhi chiari, l'unica rimasta nubile, è stata nominata da Sandro Bondi nel Consiglio superiore del Beni Culturali. Nicoletta, la primogenita, rimasta vedova di Paolo Favini delle omonime cartiere di Rosà, e Ippolita, moglie del procuratore di Trieste Michele Dalla Costa, sono diventate le avvocate civiliste di Berlusconi nel divorzio con Veronica Lario.
Non è la sola loro causa importante.
Difendono anche Luciano Cadore, un maggiordomo che ha ereditato dall'imprenditore delle pellicce Mario Conte, dove era a servizio, un patrimonio stimato dagli inquirenti in 70 milioni di euro.
Cadore è indagato con l'accusa di aver falsificato il testamento e ha devoluto un milione di euro alla Libera fondazione di Giustina Destro, ex sindaco di Padova e attuale parlamentare Pdl.
Nessuno dei Ghedini ama farsi vedere in pubblico.
Di Niccolò si segnala la presenza a Padova solo quando la scorta lo accompagna sotto l'ufficio con qualche disappunto dei residenti per gli intralci al traffico. Le sorelle stanno appartate.
E vivono nel culto di quello che considerano il loro Grande Fratello.
Lo stesso ruolo che in fondo gli ha affidato Silvio Berlusconi, concedendogli il compito di stare alla sua destra.
Almeno fino a quando reggerà lo scudo del Lodo.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ghedini-mi-rovini/2110414//2
ziocane che merda...
da Indymedia

Diplomatici per passione

Laila Wadia è nata a Mumbai e vive a Trieste, dove lavora all’università.


Per lavoro ho avuto modo di conoscere molti diplomatici italiani. A volte il loro sguardo critico verso l’Italia spiazza gli interlocutori stranieri, che non riescono bene a capire perché delle persone così ben pagate si lamentino. Da un po’ di tempo, però, mi capita di incontrare un altro tipo di ambasciatori. A questa nuova categoria di rappresentanti del Belpaese la parola “Italia” fa brillare gli occhi.

Salgo sul taxi dell’ambasciatore Mohammed alla stazione ferroviaria di Bruxelles. Irritato per il traffico del mercato domenicale intorno alla Gare du Midi, alza le braccia ed esclama: “Bienvenue à Marrakesh!”. Per calmarsi, accende la radio, si sintonizza sui risultati del campionato di calcio italiano e impreca in bolognese. Con un certo stupore vengo a sapere che ha vissuto in Italia prima di trasferirsi in Belgio. Nonostante abbia un ottimo lavoro (sono i marocchini a mandare avanti il sistema dei trasporti nella “capitale d’Europa”), rimpiange la vita nel Belpaese. “Gli italiani sono come noi marocchini: allegri, pieni di idee, un po’ pasticcioni. Poi, mi manca ‘o’ sole mio’, qui fa sempre freddo. E, se devo dire la verità, ci sono troppi nordafricani. Forse è per questo che la Lega nord non vuole proprio sentirne parlare di Bruxelles!”, dice ridendo.

Gli ambasciatori Igor e Boris li incontro a colazione nella sala di un piccolo albergo a Stoccolma. Mi piacciono le gallette svedesi che servono la mattina e chiedo in inglese al cameriere se mi sa dire la marca. Igor, il cameriere, si rivolge in italiano al collega che sta preparando il caffè dietro al bancone. Così, cambio lingua anch’io e Igor mi regala la scatola delle gallette con un sorriso. Poi si concede una breve pausa per il caffè e mi racconta delle sue migrazioni, dalla Bosnia all’Italia, dalla Svizzera alla Svezia.

Alla domanda se è felice, i suoi occhi si velano di nostalgia. Mi risponde che nessun paese è allegro quanto l’Italia, anche se dal punto di vista economico si sta meglio a Stoccolma. “Ma cos’è che ti manca di più?”, gli chiedo. “Tutto”, risponde Igor, “a cominciare dalla lingua. Magari è solo nostalgia della gioventù. So che ora le cose sono cambiate. Nel 1991 l’Italia era una nazione aperta e generosa. Tutti si ricordavano che in passato il loro era un paese di migranti”.

L’odore del mercato
Boris si unisce a noi. Parte della sua famiglia vive ancora a Napoli. Sostiene che gli manca l’odore dell’Italia, in senso letterale e metaforico: il profumo degli ortaggi al mercato dove lavorava e l’aroma del vivere giorno per giorno, anche arrangiandosi, ma sempre con altruismo e ottimismo. Il giorno della mia partenza Igor e Boris mi regalano un pacchetto di gallette e mi chiedono di salutarmi la loro Italia.

Il terzo incontro lo faccio ad Atene. “Signora, scusi, ma lei vive nel paradiso terrestre?”. La domanda mi viene rivolta nella macelleria del mercato generale. Al mio sguardo interrogativo segue una spiegazione e una supplica. Sembra infatti che Rudy, di Tirana, addetto al quinto banco, non faccia che cantare le lodi di Chianciano. I suoi colleghi greci non vedono l’ora di rispedirlo indietro. “È qui fisicamente, ma con la testa sta ancora là”, dicono.

Mi indicano un ragazzo dagli occhi verdi che fischietta una canzone di Eros Ramazzotti. Il giovane albanese non fa altro che parlare del suo soggiorno in Italia, che ha dovuto interrompere perché non aveva il permesso di lavoro. “Pensi un po’, noi greci gli diamo di che sfamarsi, ma lui serve ancora il governo italiano! Nonostante la crisi economica, Rudy ha convinto metà mercato ad andare in vacanza in Toscana in autunno. Quando torna a casa, lo dica ai capi che qui c’è uno che fa l’ambasciatore dell’Italia gratis”. Laila Wadia

da Internazionale