HOME       BLOG    VIDEO    EVENTI    GLI INVISIBILI    MUSICA    LIBRI    POLITICA LOCALE    POST PIU' COMMENTATI

venerdì 16 ottobre 2009

TRICASE - La secca smentita degli operai Adelchi



Gli operai Adelchi respingono ogni accusa mossagli dall'imprenditore tricasino. "Con noi c'erano vigili e carabinieri che possono testimoniare"

È secca la smentita dei dipendenti Adelchi di fronte alle accuse di aggressione orale lanciategli dall'imprenditore tricasino.
I cassaintegrati respingono ogni accusa e affermano che corrisponde a vero il fatto che essi si siano recati presso il circolo cittadino e l'abitazione dell'imprenditore Sergio Adelchi, ma che si trattava di un semplice corteo privo di alcuno scopo intimidatorio, tra l'altro accompagnato dai carabinieri e dai vigili urbani.
"Noi siamo persone civili" - sono le parole di Rocco Panico, rappresentante dei cassaintegrati, in risposta alla lettera diffusa dall'imprenditore a tutti i mezzi di comunicazione locale – "Da parte nostra nessuna violenza e nessuna caccia all'uomo".
cronaca16 ottobre 2009

La secca smentita degli operai Adelchi

GUARDA IL VIDEO. Gli operai Adelchi respingono ogni accusa mossagli dall'imprenditore tricasino. "Con noi c'erano vigili e carabinieri che possono testimoniare"

È secca la smentita dei dipendenti Adelchi di fronte alle accuse di aggressione orale lanciategli dall'imprenditore tricasino.
I cassaintegrati respingono ogni accusa e affermano che corrisponde a vero il fatto che essi si siano recati presso il circolo cittadino e l'abitazione dell'imprenditore Sergio Adelchi, ma che si trattava di un semplice corteo privo di alcuno scopo intimidatorio, tra l'altro accompagnato dai carabinieri e dai vigili urbani.
"Noi siamo persone civili" - sono le parole di Rocco Panico, rappresentante dei cassaintegrati, in risposta alla lettera diffusa dall'imprenditore a tutti i mezzi di comunicazione locale – "Da parte nostra nessuna violenza e nessuna caccia all'uomo".



"È solo un pretesto per far fallire la riunione di lunedì 19 nella sede regionale di Bari", affermano gli operai, convinti che la notizia del presunto attacco sia un appiglio dell'imprenditore per giustificare un mancato accordo nel prossimo tavolo tecnico.
Il rappresentante dei lavoratori ha infine aggiunto: "Speriamo che in questi giorni qualche istituzione lo convinca a ritornare sui suoi passi".

da IlTaccoD'Italia

SALVE - ENERGIE RINNOVABILI

Dopo piu' di 200 anni un neokantiano completa l'opera del maestro con la"Critica della Ragion Fossile". Paride De Masi! Leggete e ammirate, stoltiambientalisti ignoranti, le parole del benefattore.

Domenica 18 ottobre ore 20.00 sala conferenze Palazzo Ramirez (nei pressidellachiesa madre), avrà luogo il convegno dal titolo "Il futuro delle energierinnovabili in Puglia" presentazione del libro "Critica della ragionfossile" diParide De Masi coordinatore nazionale energie rinnovabili di Confindustria epresidente e amministratore delegato Italgest.

Interverranno:
a.. Onofrio Introna - Assessore all'Ambiente Regione Puglia
b.. Antonio Gabellone - Presidente Provincia di Lecce
c.. Raffaele Baldassarre - Parlamentare europeo
d.. Vincenzo Passaseo - Sindaco di Salve
e.. Luca Carrozzo - Assessore all'Ambiente Comune di Salve

Vista l'importanza dell'incontro e le tematiche trattate sarebbe opportunopresentare le ragioni del Forum Ambiente e Salute e del Cooridinamento offrendo copia della moratoria sulle rinnovabili presentata alla Regione Puglia ai presenti e in particolare all'assessore Introna e al presidente Gabellone. Leggi la moratoria La presenza di tutti è più che mai importante. Ringraziamo sin da ora per la partecipazione e la collaborazione di tuttiporgo imiei più cordiali saluti.

Per il Forum Ambiente e Salute - settore comunicazione
Alfredo Melissano

Scandalo Edf (quella che dovrebbe gestire il nucleare in Italia) - rifiuti radioattivi abbandonati a cielo aperto


In questi giorni in Francia è scoppiato uno scandalo su Edf che è la compagnia francese di energia elettrica a cui spetterebbe l'onere della costruzione in Italia delle centrali nucleari grazie all'accordo con il Governo di qualche mese fa. Le scorie francesi dovrebbero essere stoccati in un apposito sito di nome "Le Hague" che comporta probabilmente un certo livello di costi. Per qualche motivo (non troppo oscuro per la verità) la Edf ha esportato i suoi rifiuti in Siberia, nel sito di Tomsk-7 stoccandoli a cielo aperto come se fossero dei comuni copertoni. Un enorme scandalo (taciuto anche dalle nostre TV) sta travolgendo quindi Electricité de France che pare utilizzi le stesse metodologie per stoccare rifiuti radioattivi in Niger. Chiaramente abbiamo le prove di quello che scriviamo visto che queste notizie vengono da una inchiesta giornalistica di Arté Tv e di Liberation, noto giornale francese. Potrete vedere qui sotto il trailer dell'inchiesta. Cosa poi possa succedere in Italia con la Edf non ci è dato sapere visto che, come riportava un blog, i francesi preferiscono spedire i loro rifiuti radioattivi altrove ma si sa che in Italia non siamo così intelligenti e per questo o li interriamo nei nostri territori o meglio grazie alle varie mafie li affondiamo con tutte le navi nel Mediterraneo.

Così continua il blog, "Il nucleare è poco economico, non conveniente, pericoloso. Ma più di tutto, in Italia non ce lo possiamo permettere: occorre un livello minimo di onestà e correttezza che qui da noi ha passato il picco da un pezzo".

25 anni fa. L'Italia si dà a Berlusconi


«Mamma i Puffi». La mattina di venticinque anni fa cambiò la storia della televisione italiana. E - ora lo sappiamo - il destino politico del paese. Il 16 ottobre 1984 tre pretori spedirono la polizia postale - si chiamava Escopost - a interrompere le trasmissioni televisive di Canale 5, Rete 4 e Italia 1, a Roma, Torino e Pescara. Niente Puffi. E niente Dallas, Dinasty, Maurizio Costanzo Show e Superflash per due milioni di spettatori, quelli di Lazio, Piemonte e Abruzzo, su 13 milioni che le televisioni private di Silvio Berlusconi raccoglievano ogni giorno. Fuori dalla legge. Perché trasmettere lo stesso programma in contemporanea su tutto il territorio nazionale - la «interconnessione» - era vietato. Con i ponti radio e il sistema delle videocassette accese in contemporanea, il cavaliere aggirava il divieto stabilito dall'articolo 195 del codice postale, così dissero i pretori Eugenio Bettiol (Roma), Giuseppe Casalbore (Torino) e Nicola Trifuoggi (Pescara). Quattro giorni più tardi, dopo aver ricevuto Berlusconi a palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Bettino Craxi emanò un decreto, che il presidente della Repubblica Pertini velocemente firmò, per rimettere le cose a posto. Trasmissioni prorogate per un anno. Da allora in poi nessuno più fermò l'avanzata del cavaliere, che esattamente dieci anni dopo dalla tv passò alla politica. Quello fu il suo momento più difficile. Ne uscì, e ringraziò Craxi con una lettera che è spuntata fuori due anni fa dall'archivio personale dell'ex leader socialista depositato al senato.
«Caro Bettino grazie di cuore per quello che hai fatto. So che non è stato facile e che hai dovuto mettere sul tavolo la tua credibilità e la tua autorità. Spero di avere il modo di contraccambiarti». Questa lettera straordinaria di Berlusconi a Craxi è stata pubblicata per la prima volta da Sebastiano Messina su Repubblica nel 2007. Non ha bisogno di commenti: «Ho creduto giusto non inserire un riferimento esplicito al tuo nome nei titoli tv prima della ripresa per non esporti oltre misura. Troveremo insieme al più presto il modo di fare qualcosa di meglio. Ancora grazie, dal profondo del cuore. Con amicizia, tuo Silvio».
Le protezioni al governo. Ma anche l'assalto ai giudici e l'appello alla «volontà del popolo» evidentemente coincidente con i telespettatori: in quei pochi giorni di venticinque anni fa c'era già la storia di oggi. Compresa l'abilità di Berlusconi. I pretori, infatti, non avevano oscurato le tv private ma solo vietato la trasmissione in simultanea degli spettacoli. Fu il cavaliere a decidere il black-out. Per drammatizzare. Cominciarono le telefonate al centralino di palazzo Chigi. Scattò la protesta dei volti noti tv. Maurizio Costanzo organizzò puntate straordinarie del suo show dal teatro Giulio Cesare, Corrado si lamentò, Guglielmo Zucconi su Rete 4 fece parlare i «teleutenti». La concessionaria della pubblicità di Berlusconi, Pubblitalia, diffuse i primi sondaggi: il 91% degli italiani era contro i pretori. L'Avanti di Craxi sperimentò la prosa che lo renderà celebre negli anni di Tangentopoli: «Nel vuoto di potere si sono inseriti altri poteri non democraticamente responsabili ... pretori notoriamente aderenti a gruppi dell'estrema sinistra ... un metodo illiberale». Anche il Pci si preoccupò. Il responsabile comunicazione di massa del partito era un non ancora quarantenne Walter Veltroni: «Non ci si deve rallegrare che emittenti televisive vengano oscurate e non si può non ragionare sulle conseguenze che questo può avere sullo stato di aziende, piccole e grandi, e sull'occupazione. Ci sono poi anche le abitudini degli utenti consolidate in anni di offerta televisiva che non possono essere ignorate». Le ragioni di tanta prudenza si capiranno poi, quando il primo «decreto Berlusconi» fu fatto cadere alla camera e Craxi ne preparò subito un altro che conteneva anche la riforma del vertice Rai. Nuove regole per la nomina del cda di viale Mazzini, del presidente e dei direttori delle testate radiofoniche e televisive. Nell'accordo tenuto a battesimo dal direttore generale della Rai Biagio Agnes, la direzione del nuovo Tg3 è assegnata ai comunisti.
Ad opporsi restarono i parlamentari della sinistra indipendente e alcuni democristiani di sinistra. Il Pci mantenne il voto contrario, ma rinunciò all'ostruzionismo che avrebbe certamente fermato un decreto presentato tardi per la conversione. E invece il voto finale arrivò il 4 febbraio 1985 alle undici di sera, un'ora prima della scadenza del decreto. Decisiva la partecipazione al voto dei senatori missini. Il giorno dopo un'edizione straordinaria della gazzetta ufficiale certificava la prima grande vittoria di Silvio Berlusconi.

da IlManifesto

MAFIA - A un passo dalla verita'


di Silvia Cordella

Ecco uno dei documenti consegnati insieme al Papello
Adesso che la prova Regina sulla trattativa è saltata fuori i magistrati di Palermo e Caltanissetta devono fare in fretta.
Bisogna battere il ferro finchè è caldo prima che a qualcuno possa venire in mente di imbalsamare nuovamente la memoria. Il papello esiste, la prova è stata esibita da Massimo Ciancimino. Ecco le 12 le richieste del capo di Cosa Nostra allo Stato: abolizione del reato di associazione mafiosa, la revisione del maxiprocesso (con l’intervento della corte dei diritti europei), la nascita di un partito del Sud, la riforma della giustizia all’americana e poi ancora la defiscalizzazione della benzina per la Sicilia, gli arresti domiciliari per gli imputati di mafia che hanno compiuto i settanta anni di età, niente censura per la posta destinata alle famiglie, abolizione del carcare duro previsto dal 41 bis. E sul papello vergato a mano, probabilmente dal medico Antonino Cinà, stretto consigliere di Riina, è stato trovato anche un vecchio post-it giallo sul quale Vito Ciancimino aveva scritto: “consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei Ros”.
Una frase che attesterebbe così la veridicità della trattativa intrapresa da Mori e De Donno con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino, per chiedere a Cosa Nostra la fine delle bombe e la resa dei latitanti. In cambio Riina aveva rappresentato le sue richieste. Una in particolare rimetterebbe in discussione la tesi adottata dal generale Mori che ha sempre spostato il suo primo contatto con l’ex sindaco di Palermo datandolo il 5 agosto 1992. Si tratta della richiesta sulla soppressione del decreto sul 41 bis. Un provvedimento che è stato convertito in legge solo nel mese di luglio, dopo la strage di via d’Amelio. Se nel papello consegnato al generale Mori era contenuta quella richiesta è evidente che la stessa consegna è avvenuta in data precedente all’approvazione della legge, quindi nel mese di giugno. Una prova che metterebbe finalmente a fuoco la data esatta della trattativa che Riina in quei roventi giorni d’estate intavolò con esponenti delle Istituzioni. Uomini per esempio come Rognoni e Mancino annotati all’inizio del foglio che però hanno sempre negato di aver mai e poi mai saputo di un dialogo tra lo Stato e la Mafia. Ora per le indagini si apre un nuovo capitolo. Chi poteva concedere a Riina simili agevolazioni? Da chi erano coperti Mori e De Donno? Il ritrovamento del “papello” inoltre fa quadrato con le dichiarazioni dell’on. Martelli che è stato interrogato proprio oggi dai magistrati di Caltanissetta, titolari dell’inchiesta riaperta sulla strage di via d’Amelio. E si lega alle dichiarazioni dell’ex direttore degli affari penali, la dott.ssa Liliana Ferraro, convocata urgentemente dai magistrati di Palermo e Caltanissetta dopo le rivelazioni ad Anno Zero. “E’ vero – ha detto ieri a margine di un interrogatorio di 4 ore -, incontrai Paolo Borsellino e gli parlai dei contatti tra il Ros di Mori e Vito Ciancimino, come riferitomi dagli stessi ufficiali. Ricordo di aver parlato di questo argomento, negli anni successivi, anche con il dott. Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi di Firenze, Roma e Milano”. “Intuiì che Borsellino sapesse della trattativa fra stato e boss per far cessare la stagione delle stragi – ha detto invece l’ex ministro della Giustizia Martelli, precisando – me lo ha confermato di recente Liliana Ferraro”. “Avevo parlato in numerose interviste dei miei dubbi sulla formazione del governo Amato nel 1992 – ha continuato l’ex ministro socialista - delle pressioni che subii per lasciare la Giustizia e andare alla Difesa, e della situazione di Vincenzo Scotti, che dovette lasciare gli Interni a Nicola Mancino". Pressioni politiche, cambi di cariche, trasformazioni ministeriali. Era il fermento che tracciava il confine tra la prima e la seconda Repubblica. Nuovi assetti si andavano a formare mentre Cosa Nostra alzava il tiro delle richieste. Alcune, come aveva raccontato Massimo Ciancimino, ritenute improponibili dallo stesso don Vito che di fronte al generale Mori disse esplicitamente che non si sarebbe potuto proseguire oltre. Da qui poi le cose cambiarono. Riina da autore della trattativa ne divenne vittima. Considerato un personaggio scomodo e ormai ingombrante lo arrestarono l’anno dopo, mentre Provenzano prese in mano il testimone. E lì che don Vito si rese conto di essere stato scavalcato. La trattativa proseguì lo stesso, Zu Binnu lo avrebbe sostituito con Marcello Dell’Utri, il nuovo referente del nascente partito di Forza Italia. Don Vito ormai vecchio e “bruciato” venne arrestato a fine del ’92. E lì che si chiuse la seconda fase della trattativa e si aprì la terza. Ma questa è una storia che arriva fino ai giorni nostri e che dev’essere ancora raccontata.

da AntimafiaDuemila

Martelli conferma a Pm: ''Borsellino sapeva di trattativa''

Palermo. E' stato sentito per circa tre ore, dai pm di Palermo e Caltanissetta, l'ex ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli, testimone nell'ambito delle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, condotta dai pm del capoluogo siciliano Antonio Ingroia e Paolo Guido, e sulla strage di via D'Amelio, svolta dal procuratore nisseno Sergio Lari e dall'aggiunto Domenico Gozzo. Martelli, ascoltato a Roma, ha ribadito i concetti espressi nel corso della puntata dell'8 ottobre di Annozero: "Intuii che Borsellino sapesse della trattativa fra Stato e boss per fare cessare la stagione delle stragi -ha detto- e di recente me lo ha confermato Liliana Ferraro", l'ex direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, successore di Giovanni Falcone in questo incarico, dopo la strage di Capaci. Pure la Ferraro e' stata ascoltata dai magistrati siciliani, ieri a Roma. Martelli ha negato di avere ricordato soltanto ora fatti risalenti al 1992: "Avevo parlato in numerose interviste dei miei dubbi sulla formazione del governo Amato, nel 1992, delle pressioni che subii per lasciare la Giustizia e andare alla Difesa, e della situazione di Vincenzo Scotti, che dovette lasciare gli Interni a Nicola Mancino". Ad Annozero Martelli aveva detto - e oggi lo ha confermato ai pm - che Borsellino fu informato dalla Ferraro dei tentativi di Massimo Ciancimino di avere "coperture politiche" rispetto ai contatti e agli approcci con i carabinieri.

AGI

da AntimafiaDuemila

Il rap al tempo della crisi


di Militant A Assalti Frontali

Ieri ricevo un sms amico che mi dice: i Club Dogo hanno fatto un rap in cui ti mandano “affanculo”. Vado ad ascoltare la canzone su Youtube e trovo questo turpiloquio che mi riguarda e che un po’ fa ridere e un po’ mette tristezza. Si chiama “XL Rockit dissing”.

Non me l’aspettavo perché arriva a freddo. Rifletto qualche secondo in silenzio, poi penso che nel mondo del rap la polemica è sale e può diventare crescita collettiva se indirizzata in un verso positivo. Così scrivo queste righe per il movimento.

Dei tre componenti dei Club Dogo, è Gue Pequeno (spalleggiato da Dj Harsh, sedicente promoter di concerti al Leoncavallo), che si prende la briga di offendere in modo diretto ed esplicito me, femministe e giornalisti che si azzardano a criticarli. Il loro problema con me, in particolare, nasce da un articolo apparso sulla rivista “XL” di giugno. Una lunga intervista uscita anche in versione video (richiesta e organizzata dalla loro casa discografica), in cui in veste di “inviato” domandavo loro il perché di alcuni “rumors” che girano nella scena dei centri sociali, in particolare il linguaggio sboccato dei loro testi riguardo le donne spesso definite “troie” e il fatto che il massimo della vita nel loro immaginario è “pippare cocaina”. In tutto l’articolo faccio spiegare liberamente cosa pensano e alla fine mi prendo la libertà di scrivere un paio di righe di mio pugno riguardo il fatto che un rapper, a mio avviso, in quanto comunicatore deve sentire la responsabilità di quello che dice.

“Si è fatto tardi ed è ora di ripartire. Mentre vado non posso non pensare alla piazzetta sopra il centro commerciale vicino a casa mia dove i ragazzi sentono le canzoni dei Club Dogo sui loro cellulari. Convinti di essere ribelli, ma schiavi. Ribelli schiavi. Dei soldi, dei vestiti, dell’idea che rimbalza da tutti i cartelloni e le televisioni che la donna sia una merce come le altre. Schiavi della coca. Schiavi a vita. Io un po’ di responsabilità me la sento, soprattutto per i più deboli e soli. Cioè quasi tutti. Ma spira un vento forte e contrario”. Questo è quanto.

Invece di ringraziarmi per essermi sbattuto a Milano (su loro invito) per incontrarli, dopo 4 mesi di silenzio, all’improvviso, mi ritrovo offeso in pubblico da questi galantuomini. Non è solo un problema di insulti, è che sento aleggiare una sorta di violenza intimidatoria nel loro fare. Che pensare? Che chi entra in un nido di vipere non può che uscirne in qualche modo morso. Certo. E poi? Molti mi dicono di lasciar perdere, ed è quello che farò, ci sono cose più importanti nella vita di queste cazzate. Non risponderò con altre offese, né con imboscate alla Tupac Shakur, né con una riconciliazione per tornare a mangiare anche una volta alla stessa tavola. Ma tengo a precisare un paio di cose.

Il problema è capire da che parte stiamo. La nostra condizione di precari a vita è stressante e bisogna pensare e ripensare sempre a quello che si fa e si dice. Perché possiamo finire in una guerra tra poveri oppure organizzare un sentire comune. A noi tutti la scelta. I Club Dogo dicono che Militant A è di Famiglia Cristiana perché faccio la morale e posso andare a fare in culo, ma la mia unica religione è quella di difendere il debole. E su questo non si transige. Nelle strade del nostro paese è in corso una caccia al diverso che si materializza con teste spaccate, accoltellamenti, incendi di locali omosessuali e di centri sociali. Nessuno può pensare di esserne estraneo nel degrado culturale in corso. La fobia dei Gay, del cazzo nel culo, degli insulti ai froci, passa dai camerati a Papa Ratzinger alle battute dei rapper e legittima mani assassine. E questo per me non passa.

Io combatto il potere nelle sue mille forme odiose. E non sono quello che parla e basta. Se parlo di Carlo Giuliani nei miei concerti è perché stavo davvero a Genova in quei giorni a fianco a lui. Se parlo di comunità che resistono è perché ci vado davvero davanti alla base americana di Vicenza con i No dal Molin, o in Val di Susa a difendere le montagne dal business dell’alta velocità. Se parlo di droghe è perché so che vuol dire diventare tossici da cocaina. E se abbiamo occupato i centri sociali negli anni ’80 (dove tutti i rapper e i gruppi musicali cominciarono ad esibirsi) fu per dire: “No eroina”. Se parlo di chance nella vita la occupo davvero la scuola pubblica per difenderla dai capitali privati.

Questa è la realtà di Assalti Frontali. La nostra vita. Se dovessimo incontrarci su queste strade, cari galantuomini del ‘2000, benvenuti, ci berremo un bicchiere insieme. Altrimenti dimenticate il mio nome. E cercate un altro nemico. Io sto in un altro gioco.

da GlobalProject

DELTA DEL NIGER: DOPO TRE MESI, FINITO CESSATE-IL-FUOCO DEI RIBELLI

È scaduta stanotte la tregua proclamata tre mesi fa dal principale gruppo armato, il Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger (Mend), per consentire ai militanti della regione meridionale ricca di giacimenti di idrocarburi di valutare l’amnistia offerta dal presidente Umaru Yar’Adua. In una nota inviata ai media internazionali, il Mend ha annunciato di “riprendere le ostilità contro l’industria petrolifera nigeriana, le forze armate nigeriane e chiunque collabori con loro dalla mezzanotte del 16 Ottobre”. Da quando è stata annunciata la tregua, il 6 Luglio, il Mend sembra essersi sensibilmente indebolito, poiché diversi responsabili e migliaia di militanti hanno accettato l’amnistia consegnando le armi al governo e, per ora, non è chiaro chi ne sia alla guida. Il Mend ha dichiarato che quella che si sta aprendo sarà la fase “più critica” della lotta e ha minacciato di dare alle fiamme tutti gli impianti petroliferi attaccati in precedenza. In vista della fine della tregua, nei giorni scorsi l’esercito nigeriano aveva inviato rinforzi nel Delta per proteggere le installazioni della società petrolifere. Ieri, a Lagos, durante un incontro dei paesi produttori di petrolio (Opec), Yar’Adua ha detto che l’amnistia ha riportato la pace nella regione: “Gli attacchi sono terminati e ora stiamo costruendo un piano per garantire sviluppo sociale ed economico insieme agli ex-militanti”. Da anni nella regione meridionale del Delta, occupata dalle multinazionali del petrolio, diversi gruppi hanno preso le armi per denunciare uno sfruttamento iniquo che ha causato gravi danni ambientali senza contribuire allo sviluppo dell’area. Comprendere la reale portata che l’amnistia avrà sulla lotta armata nel Delta resta difficile, poiché le campagne antigovernative e contro l’industria del petrolio in questi anni hanno visto la partecipazione di una costellazione di gruppi e formazioni molto differenti fra loro, spesso unite più da una concomitanza di interessi che da comuni ideali politici. [MV]
[CO]

da Misna

Violenze ordinarie durante i rimpatri. Un funzionario di polizia racconta


Articolo pubblicato in francese il 07/10/2009 da Carine Fouteau, www.mediapart.fr

PARIGI - I rimpatri fanno parte della sua vita quotidiana. Lui è un agente della polizia di frontiera francese (PAF), basato a Rungis e incaricato di “riaccompagnare” gli stranieri espulsi nel loro paese d’origine. Contattato dal giornale francese Mediapart, ha accettato di parlare, ma sotto anonimato. Manette, cinghie, pugni, prese e strangolamenti. Il tutto sui voli di linea, tra l'indifferenza dei passeggeri e le lacrime delle hostess. Una testimonianza importante che abbiamo tradotto in italiano per i nostri lettori. Perché la violenza ci preoccupa tanto più quanto più è inquadrata e banalizzata, al punto da rientare nelle pagine di un manuale, e di divenire argomento di corsi di formazione e di aggiornamento della polizia.


"Faccio una quindicina di rimpatri al mese. Ci chiamano il giorno prima, o il venerdì per il fine settimana. Ci danno un dossier per la scorta, con i documenti d’identità della persona espulsa e la rotta aerea. Arriviamo all’aeroporto due ore prima. Così abbiamo un’ora per fare conoscenza con il tipo, vedere chi è, se ha problemi a livello di salute o di documenti. Abbiamo un’ora di tempo per convincerlo a partire e caricarlo sull’aereo davanti agli altri passeggeri normali. Chi deve essere espulso è chiuso in cella, in una zona tampone tra i centri di detenzione amministrativa e l’aereo, che si chiama ULE, unità locale di allontanamento, all’aeroporto di Roissy o di Orly. Per gli africani siamo tre poliziotti di scorta per ogni espulso. Due per tutti gli altri.

Quando ci si azzuffa, all’ULE o nell’aereo, è perchè non vogliono partire. Gli spieghiamo tutto, se capiscono bene, sennò peggio per loro. La regola ufficiale è che non si deve fare una scorta a tutti i costi. Per esempio se uno è malato, non lo metto sull’aereo. Il peggio è quando vomitano o si cacano addosso. Là non si scherza. Sputano e mordono pure. Quando succede questo genere di cose, li scarichiamo immediatamente, non insistiamo. A parte per le ITF: interdizioni dal territorio francese, là si fa tutto il possibile per farli partire, perché hanno commesso dei crimini o dei delitti gravi. E ad ogni modo, quando non partono, vanno dritti in prigioni per due o tre mesi, per le violenzefatte contro noi poliziotti.

Quelli che portiamo sono dei poveri ragazzi, ne siamo perfettamente coscienti. Gente che è venuta a cercare lavoro. Glielo spieghiamo senza giri di parole: “sei obbligato di partire”, abbiamo un’ora di tempo per spiegarglielo. Il problema è che tutte le associazioni gli fanno venire strane idee, gli montano la testa, e magari gli danno pure dei lassativi...

Se vediamo che si agitano, gli mettiamo subito le manette, prima dell’imbarco. Abbiamo i nostri corsi di formazione iniziale, di un mese, per sapere cosa abbiamo diritto di fare e cosa no, e ogni tre mesi ci fanno un aggiornamento.

Per quelli di cui non ci fidiamo, utilizziamo delle cinture di velcro che gli piazziamo intorno alla vita. Di cinture di cuoio ne avevamo in passato al commissariato, ma sono inadatte. Quando un nero di 110 chili tira con forza la strappa. Piuttosto utilizziamo delle cinghie al di sotto del ginocchio, sulle caviglie, e sul petto. E se il tipo si agita davvero molto, ne tendiamo una tra le caviglie e il petto per impedirgli di dare colpi con la testa. A volte invece attacchiamo un cuscino sul sedile davanti, per la stessa ragione.

Per un certo periodo c’era vietato l’uso delle manette. Semplicemente perché dicevano che costavano troppo. Ci davano delle manette usa e getta, di tessuto, che però sono completamente inefficaci, funzionano solo con i tipi tranquilli. Una volta facevo un asiatico, il tipo è salito tranquillamente a bordo, era pure contento di tornare. E poi invece era un provocatore, abbiamo dovuto lottare con lui nell’aereo per le due ore di volo per tenerlo fermo.

Alla fine l’abbiamo bloccato, ma il problema è che con le manette di tessuto non lo potevamo legare, stava strozzando il mio collega, io gli ero sopra, era un tempo molto molto sportivo, è stata una missione di merda. Per fortuna che i passeggeri non si sono mossi. Adesso però per fortuna abbiamo delle vere manette in metallo.

Se il tipo sta buono, evitiamo in tutti i modi la violenza, la coercizione, le cinghie. E in generale va tutto decisamente meglio. Il manuale di GTPI (Gesti tecnici professionali di intervento) è lo stesso dal 2003. Per esempio la presa del pliage (all’origine della morte di due emigrati tra il dicembre 2002 e il gennaio 2003) è vietata e non la facciamo mai. E nemmeno mettiamo più dei bavagli. Io però gli metto delle mascherine per non farli sputare.

Il massimo che siamo autorizzati a fare, è un tipo di strangolamento che chiamiamo regolazione fonica. Si tratta di fare delle pressioni sulla gola perché il tipo non gridi. È perfettamente autorizzato, sta nel manuale. Sennò quello che facciamo più spesso è la di immobilizzarli a terra. Li schiacciamo al suolo. Nelle nostre missioni abbiamo un rapporto di peso diciamo. Cioè che il totale del peso dei poliziotti della scorta deve essere il doppio del peso del tipo. Il fatto di essere in numero maggiore e di avere la possibilità di metterlo al suolo e immobilizzarlo ci evita di doverlo picchiare.

Prima rifiutavo l’uso della forza, ma adesso, quando qualcuno è ottuso, gli facciamo capire subito che noi siamo più forti di lui, e una volta che l’ha capito iniziamo a ragionare. Gli africani a volte, fanno i duri e quando gli parli in modo gentile ti prendono per un debole. Ma una volta che si ritrovano con la faccia per terra e le cinghie strette, che gli dici “com’è che ora fai meno il furbo, salame?”, là cominciano a rispettarti un po’. Io l’ho fatto un paio di volte, forse tre. So che ci sono colleghi con lo schiaffo facile, ma grossi bruti da noi ce ne sono molto pochi. Se li picchiamo gli diamo pugni nello stomaco, perché non si devono vedere i segni.

Se poi il tipo si prende un sacco di botte, vuol dire che se l’è cercata, è già successo, attenzione, non ci giro intorno, ma c’è chi se lo merita. Per esempio quello che ha morso il dito a un poliziotto, quello là si è preso un sacco di botte, è sicuro, è comprensibile.

Quando saliamo nell’aero, ci siamo noi, la persona rimpatriata, la polizia dei centri di detenzione amministrativa, gli agenti dell’ULE, quindi siamo in parecchi poliziotti. Ma in caso di necessità, se servono rinforzi, chiamiamo la compagnia di intervento degli aeroporti di Orly o Roissy. Loro sono meno formati di noi, sono loro che gasano nell’aereo quando c’è un problema. Li chiamiamo solo quando ci sono operazioni da fare a bordo, quando siamo obbligati a far scendere tutti i passeggeri perché le cose davvero degenerano.

Siamo sempre in borghese, niente armi. Gridano, sbattono, spaccano i sedili a volte, le hostess piangono, ma in generale riusciamo sempre a montarli a bordo dell’aereo, è il nostro lavoro. I problemi arrivano quando i passeggeri si mettono in mezzo. Ci sono i filosofi per esempio. Gente che non sa niente ma che vengono a fare la parte dei giusti. Vedono dei neri circondati da bianchi e gridano allo scandalo. Quando magari il rimpatrio procedeva bene, si alzano tutti.

La Lufthansa prima, bastava un colpo di tosse di un espulso e ci facevano scendere, preferivano cancellare un volo che fare un rimpatrio. Alitalia pure, e anche Royal Air Maroc. Adesso non facciamo più le compagnie africane, per fortuna, perché là veramente era difficile. A volte dobbiamo minacciare il personale di bordo, perché si dimenticano che siamo poliziotti, e che possiamo denunciarli per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, ma in generale va bene.

Una volta in volo, in generale, va tutto bene. Certo dipende dalla cooperazione del buon uomo. Ma la maggior parte delle volte li sleghiamo pure.

Spesso i rapporti con la polizia locale non sono buoni. Possono rifiutare il rimpatrio per via dei documenti. In alcuni paesi africani le autorità non ci amano e danno prova di cattiva volontà. Normalmente al nostro arrivo ci aspetta l’SCTIP, il servizio di cooperazione tecnica internazionale della polizia, sono poliziotti di stanza presso le ambasciate. In America Latina c’è Interpol che ci riceve quando riportiamo trafficanti di droga. Nella maggior parte degli altri paesi prendiamo noi contatti con le autorità locali. E gli trasmettiamo i dossier con i precedenti penali.

In Tunisia, chi viene espulso è sistematicamente arrestato per almeno tre giorni. In Algeria sono più simpatici invece, anche con gli espulsi. E anche in Marocco va bene. C’è già successo di rimpatriare della feccia, in Francia fanno i furbi, ma appena ritornano al paese, ritrovano tutto a un tratto la buona educazione, fa piacere. Bisognerebbe farlo più spesso, uno stage al paese, al bled."

da FortressEurope

Nardò: nella discarica di Castellino rifiuti speciali come l'amianto, proteste

Un’altra discarica, quindi, di oltre 100 mila metri cubi di capacità, sta per nascere a due passi dalla città

Amianto, inerti, rifiuti da estrazione di minerali, polveri e residui, “fanghi rossi derivati dalla produzione di allumina”, rifiuti e scarti dell’edilizia: questi e altri rifiuti speciali potranno presto essere conferiti in un sito, situata in contrada “Castellino”, in territorio del Comune di Galatone ma a poche decine di metri dall’impianto neritino di Rsu della “Mediterranea Castelnuovo 2”. Un’altra discarica, quindi, di oltre 100 mila metri cubi di capacità, sta per nascere a due passi dalla città. Il dirigente del Servizio Rifiuti-Scarichi-Emissioni e Politiche energetiche della Provincia di Lecce, ingegnere Dario Corsini, con la determina n. 181 del 7 agosto 2009, ha infatti rilasciato alla ditta “R.E.I. - Recupero ecologico inerti srl” con sede a Lecce, l’Autorizzazione unica per l’adeguamento al decreto commissariale del dicembre 2005 di una discarica, classificata come “discarica per rifiuti inerti e rifiuti speciali non pericolosi” sita nella contrada “Vignali - Castellino” del Comune di Galatone.

Un sito, realizzato in un’area di vecchie cave dismesse (e in contrada Castellino ve ne sono tantissime) che avrà una capacità complessiva di 86mila metri cubi per il bacino dei rifiuti inerti e di 13.500 metri cubi per la “vasca” destinata a contenere i rifiuti da costruzione contenenti amianto. La discarica dovrà “prevalentemente soddisfare esigenze di conferimento locali e regionali”. Secondo l’Autorizzazione, “sul o nel suolo” potranno essere depositati rifiuti quali, tra gli altri, rifiuti da estrazione di minerali, fanghi rossi derivanti dalla produzione di allumina, scarti di ghiaia e pietrisco, scarti di sabbia e argilla, residui del lavaggio e della pulitura di minerali, rifiuti prodotti dalla lavorazione della pietra, rifiuti e fanghi di cemento, pietrisco per massicciate ferroviarie, legno, vetro, plastica, rame, bronzo, ottone, alluminio, ferro e acciaio e altri tipi di rifiuti e scarti dell’edilizia (cemento, mattoni, mattonelle e ceramiche).

In una “discarica specialmente allestita”, invece, potranno essere conferiti “materiali da costruzione contenenti amianto”. Questi vuol dire che nella nuova discarica potrà essere scaricato l’Eternit, il materiale contenete il pericoloso amianto tanto usato nell’edilizia fino a qualche decenni addietro e che oggi la legge proibisce perché cancerogeno e ne impone la rimozione.

La storia del nuovo sito di discarica parte nel 2000 con la richiesta dell’autorizzazione all’esercizio. Nel 2005, la Provincia ha approvato il Piano per l’adeguamento della discarica e alla sua riclassificazione e nel 2006, il progetto di adeguamento ha cominciato l’iter della Valutazione di impatto ambientale presso la Regione Puglia, che ha espresso parere favorevole nel 2008. A chiusura della Conferenza dei servizi (nel corso della quale il Comune di Galatone ha espresso parere favorevole) la Provincia di Lecce ha rilasciato l’Autorizzazione unica.

http://www.sudnews.it/notizia/34717.html

Roma, in quattro picchiano un egiziano e fuggono inneggiando al Duce

Roma, in quattro picchiano un egiziano e fuggono inneggiando al Duce

ROMA (15 ottobre) - «In quattro sono scesi dalla macchina in pieno giorno, verso le 12, all'altezza di Valco San Paolo-Viale Marconi, hanno aggredito un ragazzo egiziano e se ne sono andati via, dopo "l'eroica vigliaccata", inneggiando a Mussolini».
A denunciare la violenza Andrea Catarci, presidente del Municipio XI. Il ragazzo è stato ricoverato all'ospedale San Camillo «dove gli è stata riscontrata la rottura del setto nasale». «Al danno riportato - aggiunge Catarci - potrebbe aggiungersi una tragica beffa: se il giovane non avrà i documenti in regola rischia di essere anche espulso».

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=76812
da Antifa

La banca della questione meridionale

È partito uno dei progetti più amati da Tremonti: una banca per il Sud, che dovrà favorire il credito alle imprese locali e l'occupazione nel Meridione. Si tratta di un nuovo ibrido perverso tra liberismo e assistenzialismo o di una proposta sensata?

La crisi finanziaria, evocata ogni volta che si parla di questioni economiche come la colpevole di tutti i mali, ha certamente provocato una stretta nell'erogazione di crediti alle imprese: di fatto, e sotto la duplice copertura della crisi e delle regole di Basilea 2, le banche italiane sono tornate al loro costume di pretendere enormi garanzie patrimoniali ogni volta che viene richiesto loro un prestito. Queste condizioni sono ancora più gravi al Sud, dove l'accesso al credito è reso particolarmente difficile da una serie di condizioni strutturali: le minori garanzie, le ridotte prospettive di mercato che penalizzano il conto economico delle aziende, la mancanza di istituti di credito radicati sul territorio. Ora ci si mette anche il federalismo fiscale, che di fatto terrà i soldi delle tasse nelle regioni più ricche, diminuendo la già magra disponibilità dello Stato centrale e degli enti locali meridionali, il che da un lato aumenta la dipendenza delle imprese dal credito bancario, dall'altro riduce ulteriormente la disponibilità di fondi per gran parte della cosiddetta economia reale.

Tremonti ha da sempre una risposta a questo problema: una banca del Sud, controllata dallo Stato centrale, che abbia una specifica vocazione meridionalista e che serva come strumento di pressione contro il sistema bancario privato, da sempre poco amico dell'attuale ministro dell'economia. Questa idea ha fatto un sostanziale passo verso la sua realizzazione, con l'ultimo consiglio dei ministri, in cui è stato conferito a Scajola l'incarico di coordinare il piano strutturale per il meridione, nel cui ambito rientra il nuovo istituto di credito. La banca sarà partecipata in misura preponderante dalle Poste, che metteranno a disposizione la loro rete di sportelli, circa 4.000 in tutto il Sud.

Di fatto, la banca del Sud rappresenta una sostanziale eccezione rispetto alla forma corrente degli istituti bancari che, fin dalla legge Amato del 1990, sono puri operatori di mercato, interessati a raccogliere la maggior quantità possibile di denaro e a investirla con i maggiori profitti e i minori rischi possibili, svincolati da qualsiasi vocazione sociale o, come diceva il vecchio testo, dalla "tutela del risparmio nazionale". Questo nuovo istituto di credito avrà la possibilità di emettere bond con un regime fiscale particolarmente favorevole e avrà a disposizione un apparato di garanzie pubbliche, seppure a titolo oneroso, per facilitare la raccolta e gli impieghi: si tratta di un intervento decisamente pesante, che segna una sostanziale disparità rispetto al regime in cui operano gli istituti di credito "normali", e che probabilmente causerà un bel po' di malesseri e qualche protesta.

Del resto, la riorganizzazione del sistema bancario intorno a pochi grandi poli nazionali ha completamente privato il Sud di un punto di riferimento per il credito: con il banco di Napoli assorbito da Sanpaolo che si è fuso con Intesa sull'asse Torino-Milano e con la Banca di Sicilia nella romana Capitalia assorbita dai milanesi di Unicredit, l'assenza di un tessuto locale di banche cooperative o popolari si fa sentire davvero, e Tremonti ha senz''altro ragione quando nota che le banche fanno molta raccolta al Sud, ma poi impiegano questi soldi da altre parti. Se la questione è reale, desta qualche perplessità la concezione di fondo che sottende alla soluzione proposta: la leva del credito viene vista come lo strumento per eccellenza per sviluppare l'economia, secondo la più pura logica liberista, ma questa leva viene sollecitata da un intervento diretto della cosa pubblica, che si impegna in modo asimmetrico a favore di una parte del Paese, mettendo di fatto in gioco un bel po' di risorse, e questa è una tipica risposta assistenzialista.

La tassazione agevolata è una forma di finanziamento, esattamente come l'erogazione diretta di fondi, e lo stesso vale per la fornitura di garanzie che, seppure "onerose", lo saranno sempre meno di quelle sul mercato corrente; l'affidamento del coordinamento a un ministero, e la partecipazione diretta dello Stato nel capitale, poi, sono forme di intervento pubblico da manuale. Tutto questo intervento pubblico in economia, però, dovrebbe servire a favorire le libere forze del mercato, che da sole avranno le idee e le energie per fare quello che serve per favorire lo sviluppo economico e sociale del meridione. Si tratta di uno stravagante ibrido tra la logica dello Stato e quella del mercato, che produce una forte distorsione delle regole del secondo e non dà al primo nessun reale potere di intervento, salvo quello di mettere mano al portafoglio. Con una carenza strutturale nell'utilizzo dei cospicui finanziamenti europei, uno stato di inefficienza sistematica dell'amministrazione pubblica, la mancanza cronica di infrastrutture e servizi, forse sarebbe il caso di partire da questi problemi, tutti risolvibili all'interno delle strutture esistenti, invece di lanciare una nuova versione, più o meno liberista, della vecchia Cassa del Mezzogiorno.

Napoli, docente gay aggredito E a Roma investita transgender

NAPOLI - Un professore gay aggredito a Napoli e una transgender investita a Roma. Mentre in Parlamento infuria la polemica sulla futura legge contro l'omofobia, si ripetono nuovi episodi di intolleranza. Insultati, picchiati, minacciati con il coltello. Colpevoli solo di essere gay.A Napoli è toccato ad un giovane docente napoletano omosessuale. Ha denunciato di essere stato aggredito da tre teste rasate nella metropolitana di Napoli. Stava tornando a casa dal lavoro. Aspettava il treno seduto su una pachina nella stazione deserta di "Quattro giornate". Erano le sei del pomeriggio.

"Mi avvicinano in tre", ricorda ancora spaventato il professore. "Avevano la testa rasata e un bomber verde tutti e tre. Con un coltello, forse un cacciavite, non so cosa fosse ma era appuntito, mi hanno costretto ad alzarsi e mi hanno spinto contro il muro. Poi quello che aveva l'arma, mi ha messo una mano sul collo come per strozzarmi e si è divertito a insultrmi. Sei un ricchione, un putrido mi diceva e intanto sentivo che puntava il coltello sotto i genitali. Non urlare sennò sei morto, mi minacciava. Ero terrorizzato. Sono stato zitto e quelli, dopo essersi divertiti, se ne sono andati".

E a Roma, dopo l'accoltellamento davanti al Gay Village e gli attentati incendiari ai locali per omosessuali, la denuncia di un'altra aggressione: due uomini a bordo di un'auto hanno inseguito e investito una transgender. "Questa mattina - scrive Fabrizio Marrazzo, presidente dell'Arcigay di Roma - ci è stato segnalato un episodio di violenza all'Eur ai danni di una persona transgender che adesso è ricoverata in ospedale dove ha subito un intervento alla testa". Una testimone straniera ha assistito alla scena: "L'avevano presa di mira", ricorda. "L'hanno inseguita con l'auto: c'erano due uomini a bordo. Ho visto bene. E lei è scappata ma quando si è voltata, l'hanno investita. E' caduta e ha battuto la testa".

da Indymedia

Il 17 ottobre in piazza a Roma contro il razzismo dilagante e in difesa della democrazia


(Roma) A vent'anni dalla manifestazione antirazzista del 7 ottobre 1989 seguita all'uccisione di Jerry Maslo, Sabato 17 ottobre, Manifestazione Nazionale Antirazzista indetta dal Comitato 17 ottobre, promossa da centinaia di associazioni, sindacati, politici (ad oggi hanno aderito 367 organizzazioni sociali e politiche, testate giornalistiche, singole personalità). Tra le richieste: regolarizzazione per tutti, abrogazione del pacchetto sicurezza, rottura del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, chiusura definitiva dei Centri di identificazione ed espulsione, diritto di asilo per rifugiati e profughi, no alla contrapposizione fra italiani e stranieri nell’accesso ai diritti, diritto al lavoro, alla salute, alla casa e all’istruzione per tutte e tutti, mantenimento del permesso di soggiorno per chi ha perso il lavoro, contro ogni forma di discriminazione nei confronti delle persone gay, lesbiche, transgender e a fianco di tutti i lavoratori per la difesa del posto di lavoro.

L’appuntamento è alle 14.30, da Piazza della Repubblica, da dove partirà il corteo di protesta, per denunciare che il razzismo non è stato sconfitto e continua a provocare vittime.

In occasione della manifestazione nei giorni scorsi l’Arci ha lanciato un appello (firmato, tra gli/le altri/e, dal premio Nobel Dario Fo al giurista Stefano Rodotà, dagli scrittori Antonio Tabucchi e Andrea Camilleri agli editori Inge e Carlo Feltrinelli, da Livio Perpino e Guido Neppi Modana a Luigi Ciotti, da Fiorella Mannoia e Moni Ovadia a Erri De Luca e Giorgio Bocca) in difesa dei diritti dei migranti, contro il reato di clandestinità, per salvaguardare i valori di uguaglianza e solidarietà che stanno alla base della nostra Costituzione.

''L'introduzione del reato di immigrazione clandestina, il prolungamento della detenzione amministrativa e l'ulteriore limitazione della possibilità per i migranti di accedere a servizi fondamentali - si legge nell'appello - accentuano in maniera drammatica la curvatura proibizionista e repressiva delle politiche migratorie del nostro Paese. A essere travolti sono i principi fondamentali di eguaglianza e di solidarietà che costituiscono il cuore della nostra carta costituzionale''. ''Punendo la condizione di irregolarità in quanto tale - prosegue l'appello - e senza prevedere vie praticabili di uscita da tale situazione, si crea nel sentire collettivo l'immagine del migrante come nemico nei cui confronti tutto e' lecito e possibile, anche la delega della sicurezza pubblica ai privati, organizzati in ronde e organizzazioni consimili. Così si apre la strada, come molti fatti di questi giorni dimostrano, a una società razzista, dominata dall'intolleranza e dall'odio''. ''Il nostro Paese - ricorda il documento - ha già vissuto la vergogna delle leggi razziali: non possiamo e non dobbiamo dimenticarlo. E' lo stesso sistema democratico nato dalla Resistenza contro il fascismo e scritto nella Costituzione a essere in pericolo. A fronte di ciò è necessaria una reazione forte e consapevole che coinvolga le coscienze individuali e collettive, i cittadini e le organizzazioni democratiche nella loro pluralità e differenza''.

I/le sottoscrittor* dell'appello si augurano che la manifestazione di sabato sia animata da una grande e unitaria partecipazione, per dare voce e visibilità a quella parte del paese che vuole fermare il razzismo dilagante e difendere la democrazia.

In piazza scenderà l’Italia che “non ci sta” alle esplosioni di violenza di cui sono state/i vittime cittadini e cittadine innocenti negli ultimi tempi.

Nel mondo quasi un miliardo di persone - una su sette - sono migranti. 4 milioni di migranti vivono in Italia, regolari e non, impiegati prevalentemente nei settori dell'edilizia, agricoltura e servizi alla persona. Migranti che non attentano alla sicurezza del Paese, ma che “Possono essere una forza positiva, contribuendo in modo significativo allo sviluppo umano", come sottolineato dal recente Rapporto, Overcoming barriers: Human mobility and development (una pubblicazione indipendente commissionata dall'UNDP. Jeni Klugman è l'autore principale del Rapporto 2009). Una migrazione che apporta i suoi benefici, ma a condizione che si crei un ambiente politico a sostegno, che riduca barriere e altri vincoli, e che soprattutto guardi alle persone, a quegli uomini e donne il cui spostamento è conseguenza obbligata di conflitti, disastri naturali o gravi sofferenze economiche.

"Il 17 ottobre sarò nuovamente in piazza per manifestare contro il sempre più incalzante razzismo che, alimentato da alcuni discutibilissimi provvedimenti governativi, è presente in settori sempre più ampi della popolazione”, dichiara l'assessora al Lavoro, Pari opportunità e Politiche giovanili della regione Lazio Alessandra Tibaldi, invitando la società civile e le istituzioni democratiche a far sentire forte la propria voce reclamando, contro questo intollerabile ondata xenofoba coerentemente con il dettato costituzionale, pari diritti e opportunità per tutte e tutti: dal lavoro alla salute, dalla casa all'istruzione. Per questo è importante abrogare il sedicente pacchetto sicurezza e avviare una politica dell'accoglienza che parta dalla regolarizzazione generalizzata dei migranti, a prescindere dalla loro condizione lavorativa".

Un invito avanzato da più parti, e raccolto dalle migliaia di persone che aderendo all’invito di scendere in piazza sabato grideranno il loro no al razzismo, chiamandolo senza reticenze col suo nome. Un razzismo che, come ricordava nei giorni scorsi il Segretario del Pd Franceschini “mortifica la dignità di esseri umani che cercano qui da noi quella stessa speranza che cercavano, al di là del mare o appena fuori dai nostri confini, i nostri padri e i nostri nonni”. Per questo “ Bisogna considerare la cittadinanza come grande e potente motore di integrazione”, quella invocata anche dal presidente della Camera Gianfranco Fini, che, richiamandosi al messaggio francescano (l’attenzione per gli ultimi), e ravvisandone la straordinaria corrispondenza con il mondo moderno, esorta ai valori del dialogo tra culture invitando alla ricerca di un possibile e comune punto di incontro e di reciproco arricchimento tra i popoli, che rappresentano una speranza viva e forte per la nostra epoca.

Dunque, no all’equazione immigrati=insicurezza. “Basta istigare paure, basta ostilità contro gli immigrati. Si deve allargare ai loro figli e a chi nasce e cresce in Italia la legge sulla cittadinanza”, ha dichiarato ieri Il segretario della Cisl, Bonanni, che chiede per gli/le immigrati/e “Pari impegni, pari condizioni". "Quale società e quale globalizzazione si vogliono costruire senza integrazione? Sarebbe un mondo infernale - continua Bonanni - Quale pace, senza soccorrere chi ha meno? Quale giustizia, se ai giovani s'insegnano cinismo e indifferenza? Quale umanesimo, se le persone sono considerate diverse?

“Gli extracomunitari – per leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini - non possiamo usarli il giorno e metterli nelle catacombe di notte, sfruttarli di giorno e poi farli diventare invisibili, dei fantasmi". "Ho paura di uno Stato -ha detto Casini intervenendo ieri all'assemblea dell'Anci a Torino - che invece di guidare verso un processo di integrazione che va di pari passo con la sicurezza instilla paure e dice alla gente che deve avere paura". Secondo Casini ci vuole "una grande operazione culturale" perché, dice, "il tema dell'integrazione è l'unico che salverà questo Paese e io sono convinto che lo jus soli sia un fatto di civiltà".

da Indymedia

NAPOLI - Catello Romano confessa di aver partecipato all'omicidio. Il Pd lo espelle e commissaria il circolo

(Emmevi)NAPOLI - Il Pd campano ha espulso dal partito Catello Romano, che risulterebbe tra gli autori del barbaro omicidio del consigliere comunale di Castellammare di Stabia Gino Tommasino. Il circolo locale del Partito democratico è stato inoltre commissariato. Lo annuncia Enrico Morando, commissario straordinario del coordinamento provinciale di Napoli. «Noi non sottovalutiamo in nessun modo la gravità dell'episodio - afferma Maurizio Migliavacca, responsabile nazionale Organizzazione del Pd - e ribadiamo l'assoluta fermezza nel contrasto alla criminalità organizzata e nell'affermazione dei principi di legalità, consapevoli che bisogna impedire ogni possibile infiltrazione in un corpo vero e sano di iscritti, militanti ed elettori».

LA VICENDA - Diventa dunque un "caso politico" il delitto Tommasino, il consigliere comunale ucciso dalla camorra lo scorso febbraio per non aver restituito 30.000 euro al clan D'Alessandro. Catello Romano, uno dei quattro componenti del commando che fece fuoco sul politico, dopo aver garantito la propria collaborazione con la giustizia ed essere stato trasferito in una località protetta in Puglia, ha fatto perdere le proprie tracce eludendo i controlli delle forze dell'ordine. Ora gli si dà la caccia. La fuga è avvenuta secondo la più classica delle modalità: due lenzuola legate tra loro hanno consentito a Catello Romano, 19 anni, di calarsi giù dalla finestra dell'albergo che lo ospitava. Oltre ad aver ammesso di aver esercitato un ruolo chiave nell'omicidio Tommasino, Catello aveva anche confessato di aver compiuto cinque omicidi in pochi mesi. Con lui, venerdì scorso la Squadra Mobile di Napoli aveva fermato Salvatore Belviso, 26 anni, Renato Cavaliere, 37 anni, già detenuto, e Raffaele Polito, 27 anni, esecutore materiale del delitto che come Catello aveva deciso di collaborare. Per entrambi, la Procura aveva deciso di non firmare il decreto di fermo ma di sottoporli a sorveglianza.

da Indymedia

Lettera all'Italia infelice

di Roberto Saviano - 16 ottobre 2009

La grande mobilitazione sulla libertà di stampa dimostra che c'è un Paese vitale. Ma anche che raccontare la realtà è l'unico modo per difenderlo.


Se la libertà è divenuto tema di dibattito continuo, quasi ossessivo in Italia vuole dire che qualcosa non funziona. Verità e potere non coincidono mai e quello che sta accadendo in questi giorni lo dimostra. Ci sono lezioni che non si imparano, disastri naturali che si ripetono come se la storia non ci avesse insegnato nulla e sacrifici di persone che hanno lottato per rendere questo Paese migliore che vengono dimenticati se non ignorati o peggio insultati. Qualcosa non funziona perché non si vuole capire quello che è accaduto e che quello che avviene tutti i giorni: non si racconta il presente, non si analizza il passato, tutto diventa polemica, dibattito sterile; tutto si avvita in un turbine di gelosie e di guerre tra bande.

La folla di piazza del Popolo mi ha stupito, stordito, emozionato. Non sapevo cosa dire: quella che avevo davanti era una testimonianza incredibile, non ero più abituato a vedere tanti volti e tanto sole. Da quando tre anni fa sono stato messo sotto protezione e costretto a vivere con la scorta non avevo mai potuto sentire un vento di speranza così forte.

Alla gente in Italia non interessa la libertà di stampa, non si preoccupa per il fatto che sia stata offuscata e minacciata da quello che sta accadendo: la libertà di stampa non è importante perché non la si considera necessaria e utile al proprio quotidiano. Non capiscono quello che stanno rischiando, quanto possono perdere. Se ne accorgeranno solo quando riusciranno a vedere con occhi diversi e comprenderanno che oggi sulla maggioranza dei media la vita non viene raccontata ma rappresentata. Ricostruita secondo luci e dinamiche che la rendono finta. Verosimile ma lontana dal reale: come quelle foto ritoccate al computer per cancellare le imperfezioni, far sparire le rughe, il peso del tempo e gli acciacchi del divenire fino a rendere un'immagine diversa delle persone che così rinunciano persino a specchiarsi.

Ci viene raccontata un'Italia allegra, il Paese del bel mangiare e delle belle donne. Ci viene imposto il modello di un Paese spensierato, in fila per partecipare alla fortuna milionaria delle lotterie e per vincere un posto in un reality show. Ma l'Italia oggi è profondamente infelice e triste. Vive nella cattiveria di una guerra per bande generalizzata, di un sistema animato dalle invidie. E la nostra percezione è così lontana dalla realtà da impedirci anche di renderci conto dell'infelicità. Ho sempre dentro il racconto di un immigrato africano che incontrai a Castel Volturno prima delle riprese del film 'Gomorra': "La cosa che odio degli italiani è la loro gelosia, quell'invidia cattiva che hanno nei confronti di chiunque riesca ad ottenere qualcosa. Quando in Francia lavori molto, riesci a guadagnare e puoi comprarti una bella macchina, ti guardano riconoscendo il risultato. Dicono: "Quanto ha faticato per farcela". Invece quando in Italia ti vedono al volante della stessa auto senti subito che ti stanno dicendo "Stronzo bastardo". Non si pongono nemmeno la domanda su quanti sacrifici hai fatto, scatta subito una gelosia che si trasforma in odio.

Questo accade solo nei paesi dove i diritti divengono privilegi, e quindi dove il nemico non è il meccanismo sociale che ha permesso questo, ma bensì chi riesce ad avere quel diritto. Una guerra tra vicini ignorando i responsabili del disastro.

Questo si combatte solo raccontando quello che non va, perché solo raccontando la realtà di quest'Italia arida si potrà sconfiggere l'infelicità: la libertà di stampa è utile per essere felici. Ed è la Carta fondante gli Stati Uniti ad avere dichiarato vita, libertà e ricerca della felicità come diritti inalienabili, tutelati da quella costituzione che per prima ha riconosciuto libertà di culto, di stampa e di parola. La libertà di stampa è fondamentale per potere credere nella felicità.

Prendete le cronache sulla crisi economica che ogni giorno vanno sui telegiornali e su molti giornali. Non viene mai descritta l'infelicità causata dalla crisi. Si parla del dato finanziario macroscopico, illustrato con indicatori spesso incomprensibili. Si parla della chiusura di questa o quella fabbrica ma non si racconta la quotidianità che si distrugge, la vita che si disumanizza. Per chi resta senza lavoro la crisi significa meno vacanze, meno serenità, meno diritti e quindi meno libertà. Ma tutto ciò non viene raccontato.

Prendete le cronache televisive sulla lotta a mafia e camorra. Si dà enfasi solo agli arresti, che sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. Sono un successo degli investigatori, ma devono servire come elemento per comprendere quali complicità e quali risorse alimentano il mondo criminale. Mi ricordo quando venne resa pubblica l'indagine sul Cafè de Paris di Roma, che tutte le guide internazionali elencano come uno dei locali più celebri, un tempio della Dolce Vita: l'unico commento dei rappresentanti istituzionali furono i complimenti alle forze dell'ordine. Nessuno si è chiesto come fosse possibile che - secondo le indagini - la criminalità organizzata si fosse impadronita di uno dei simboli di via Veneto.

La battaglia per la libertà di stampa per quanto mi riguarda è la battaglia per la possibilità di continuare serenamente a scrivere. Le mie parole hanno il senso della libertà come quelle del fotoreporter Christian Poveda ucciso per avere realizzato un film sui narcotrafficanti del Salvador. Si è parlato poco di questo assassinio perché si pensa che la gente sappia già tutto, ma non è così e le mafie sono terrorizzate dall'idea che la gente leggendo capisca. La responsabilità maggiore per chi racconta queste cose è arrivare alle persone: nulla di ciò che scrivo fa paura, loro hanno paura di chi legge. E oggi non solo sono i mafiosi ad avere paura: la minaccia, con forme diverse dalla brutalità dei killer ma non meno pericolose per la democrazia, è diventata generalizzata. Gli italiani stanno rinunciando a quello per cui Anna Politkovskaja in Russia e Christian Poveda in Salvador sono morti: volevano che nei loro paesi ci potesse essere la libertà di scrivere come in Europa. Quello che sta accadendo da noi non rispetta il loro sacrificio.

L'assenza di serenità ci porta a rinunciare alla libertà di stampa. Sapere che la replica al proprio lavoro non sarà una critica, ma un'offesa o un attentato alla sfera privata spinge ad autocensurarsi, convince a non attaccare qualunque autorità, rende schiavi di ogni potere. Dopo l'editoriale di Augusto Minzolini sul Tg1 mi sono chiesto se si rendesse conto di quello che stava facendo. Avrei voluto dirgli che manifestare per la libertà di stampa significava manifestare anche per lui, anche per il suo futuro: un futuro in cui se si potrà ancora parlare del potere, se lo si potrà criticare è perché qualcuno ha lottato per renderlo possibile. Si è scesi in piazza anche per lui, perché lui domani possa continuare a dire quello che dice oggi anche se dovesse cambiare il potere che difende le sue parole.

Il giornalista non è eletto, rappresenta se stesso o la sua testata, rappresenta le sue idee: non deve rispondere della sua vita privata. Non importa quali siano i suoi orientamenti sessuali o la sua religione: fa domande in nome del proprio lavoro e della possibilità di interrogare la democrazia. È diverso dal politico. Il politico deve rispondere della sua vita privata, il giornalista di quello che scrive.

Fare il politico oggi nell'immaginario è fare il lavoro più semplice e comodo. Mi vengono alla mente le famiglie meridionali in cui il figlio più intelligente fa l'imprenditore e quello incapace il politico. Invece la politica dovrebbe essere una responsabilità pesante e difficile, un mestiere duro. Capisco il fastidio che può avere un politico a essere esaminato nella sua vita privata, ma questo è l'onere della sua missione, fa parte della democrazia.

Oggi bisogna ricalibrare l'immaginario del politico, ritornare a una figura che fa una vita dura e poco divertente. La politica come servizio al Paese e ai cittadini, non come privilegio. La politica è vivere nella difficoltà. Penso al rigore morale di Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e Giorgio La Pira, restano figure di servizio alle istituzioni, nonostante i loro ideali e la loro fede religiosa.

Sono cresciuto al fianco di uomini di destra che non avrebbero mai sopportato questo clima di intimidazione e crudeltà, così come ormai la divisione e la rivalità sono così diffuse che impediscono alla sinistra ogni forma di aggregazione vera. Ogni possibilità di parlare al cuore delle persone. Oggi invece chi racconta cose scomode, chi descrive la realtà infelice dell'Italia viene accusato dalle massime autorità politiche di gettare discredito sul Paese agli occhi del mondo. Chi fa del male all'Italia: chi denuncia i misfatti o chi li realizza? Anche nel caso del film 'Gomorra' di Matteo Garrone c'è stata l'accusa di tradimento, di vilipendio alla nazione. Il film nasce per essere diverso dal libro. È uno sguardo totalmente antropologico, osserva il livello zero della realtà campana. È molto diverso dal libro, ma non ne tradisce lo spirito: sono complementari. È un film che racconta la realtà senza deformarla. Il territorio è fotografato come nessuno aveva mai fatto nel cinema italiano: le Vele di Secondigliano, le discariche di rifiuti tossici, le fabbriche clandestine, i paesi senza speranza.

C'è una scena registrata dalle telecamere sul set. È un capolavoro che dovrebbe entrare anche nel film, un trattato di estetica cinematografica. Ciro e Marco, i due attori avevano paura di essere sparati sul serio dall'uomo che impersonava il killer: le armi erano a salve ma la fiammata troppo ravvicinata avrebbe potuto comunque ustionarli. La sceneggiatura non prevedeva un ruolo per quell'uomo che lì tutti conoscevano. Ma lui ha fatto irruzione sul set: "Ci faccio una figura di merda se io che nella vita ho fatto davvero queste cose non ammazzo nessuno nel film!". I due ragazzi erano perplessi e spaventati: "Ma perché tutti ci vogliono uccidere?". Paura vera, fissata nelle telecamere. Ed è così che si è arrivati a modificare il finale con tanti attori che fanno fuoco su Marco e Ciro.

Io ricordo le vere vittime, quei due adolescenti assassinati per la loro sfida inconsapevole e irrinunciabile ai clan casalesi. Per questo la sceneggiatura non ha voluto mitizzare la mafia, ma descriverla, raccontarla, smontare la sua quotidianità. È questa la novità, la forza di 'Gomorra'. Quello che rende bello Michael Corleone è che si tratta di uomo tormentato, affascinante, potente che ha le sue regole: lo disprezzi ma ti identifichi con lui. In 'Gomorra' questo non doveva accadere. Alla fine del film ti doveva restare addosso il puzzo delle pesche avvelenate dalle discariche clandestine, la miseria della vita di chi aspetta la mesata del camorrista.

'Gomorra' ha raggiunto l'obiettivo. È stato molto visto in tutto il mondo, persino negli Usa hanno compreso la potenza di quella visione 'ground zero'. È stato un film inaspettato perché in molti paesi si attendeva 'Gomorra' come un mafia movie dai toni compiacenti. Non è stato così e si è fatto amare per la sua diversità. Un'esperienza lisergica è stato vederlo nel cinema di Stoccolma accanto alla sede dell'Accademia dei Nobel. Feceva un freddo cane. Ero insieme a Salman Rushdie e in sala c'erano centinaia di svedesi che si sorbivano il dialetto casalese o napoletano senza mai distrarsi, catturati dalle scene di Garrone.

Raccontare la realtà non significa infangare il proprio Paese: significa amarlo, significa credere nella libertà. Raccontare è l'unico dannato modo per iniziare a cambiare le cose.

da: L'Espresso

ABRUZZO : ancora seimila persone nelle tendopoli

E ora, dopo mesi di scelte unilaterali, si sollecita la collaborazione in vista di un’emergenza “improvvisa”: l’autunno.
Arriva il freddo e i nodi vengono al pettine. La neve sulle montagne, le basse temperature, i forti temporali e la tromba d’aria di alcuni giorni fa ricordano agli sfollati che il rischio di passare un lungo inverno lontani dalle loro case è reale. E l’allarme suona anche per la Protezione civile, costretta a fronteggiare una nuova emergenza più che prevedibile, quella della evacuazione forzata delle tante tendopoli di cui è ancora disseminato tutto il cratere: sarebbero ancora seimila gli ospiti dei campi ufficiali. Le tendopoli, secondo i piani sbandierati dal governo, dovevano essere chiuse a fine settembre, in contemporanea con la consegna degli alloggi del Progetto “Case”.

Finora ne sono stati consegnati solo alcune centinaia, è prevista la consegna di altri 300 a settimana e comunque tutti quelli programmati, circa 4700, sono insufficienti per tutti. Già da una settimana è visibile la presenza di carabinieri in tenuta antisommossa con gipponi, giubbotti imbottiti e manganelli. Ma con l’esibizione dei muscoli, si tenta anche la linea morbida per convincere gli sfollati: indicativa la lettera congiunta di Protezione civile e Comune de L’Aquila diffusa in questi giorni. «Intendiamo spiegare con chiarezza le ragioni che rendono necessario e indifferibile il trasferimento delle famiglie finora accolte nelle tendopoli in alloggi provvisori di altro tipo, sia all’Aquila che nei Comuni dell’entroterra aquilano che lungo la costa della nostra regione – si legge nella missiva indirizzata agli sfollati e sottoscritta da Bertolaso e dal sindaco Cialente -.

terromoto-freddo-web-big.jpgNell’arco di pochi giorni le temperature scenderanno rapidamente, rendendo le tende assolutamente inospitali. Siccome le persone che hanno abitato le tendopoli allestite dopo il 6 aprile sono migliaia, non possiamo permetterci che si crei, ai primi freddi, una nuova emergenza nell’emergenza». Tra le righe si intuisce anche la consapevolezza degli errori commessi, in particolare dell’ostinazione nel tenere per sei mesi 30mila terremotati nelle tende e altrettanti ospitati negli alberghi della costa, saltando la fase della sistemazione provvisoria nei moduli mobili. Si è preferito invece spopolare il territorio con la promessa del passaggio «dalle tende alle case entro settembre», bruciando oltre un miliardo e 200 milioni di euro sottratti così alla ricostruzione vera.

«Gli sfollati nei Comuni del cratere sono stati più di 70mila - si legge nella lettera -. Sappiamo anche che restano coloro che hanno un immobile classificato B o C, ai quali vogliamo ricordare che sono stati messi in campo tutti gli strumenti necessari a garantire gli interventi di riparazione, così da consentire in tempi relativamente brevi il rientro nelle proprie case. Il Comune e la Protezione Civile si riservano di attivare la ricerca di soluzioni provvisorie che consentano l’attesa della fine dei lavori di ripristino delle abitazioni». Oltre agli sfollati con case distrutte, sono decine di migliaia coloro che hanno abitazioni inagibili con danni minori: non hanno i requisiti per i nuovi alloggi riservati a chi ha la casa distrutta o in zona rossa e mesi preziosi sono stati persi senza indicare le procedure per avviare i lavori di riparazione.

Molti di loro hanno provveduto in proprio, disseminando il paesaggio di baracche in legno. Ora la protezione civile, dopo sei mesi di scelte unilaterali, si appella ai cittadini a collaborare per «affrontare l’inverno in condizioni non proibitive», come se si trattasse di una emergenza improvvisa. «Contiamo sulla vostra collaborazione e soprattutto nella vostra comprensione, conclude la lettera - in questo ultimo grande sforzo comune che ci porterà insieme a festeggiare il Natale in un clima più sereno, tutti a L’Aquila, uniti per avviare il processo della ricostruzione della città». Natale. Peccato che non viene indicato di quale anno.

di Angelo Venti da L’Aquila

FABRIZIO DE ANDRE' - VERRANNO A CHIEDERTI DEL NOSTRO AMORE



FABRIZIO DE ANDRE' - VERRANNO A CHIEDERTI DEL NOSTRO AMORE

Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a crederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo
tu non darglielo in fretta

non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell'amore
dopo l'amore così sicure a rifugiarsi nei "sempre"
nell'ipocrisia dei "mai"

non sono riuscito a cambiarti
non mi hai cambiato lo sai.

E dietro ai microfoni porteranno uno specchio
per farti più bella e pesarmi già vecchio
tu regalagli un trucco che con me non portavi
e loro si stupiranno
che tu non mi bastavi,

digli pure che il potere io l'ho scagliato dalle mani
dove l'amore non era adulto e ti lasciavo graffi sui seni
per ritornare dopo l'amore
alle carenze dell'amore
era facile ormai

non sei riuscita a cambiarmi
non ti ho cambiata lo sai.

Digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre
come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre
i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro
i tuoi occhi assunti da tre anni
i tuoi occhi per loro,

ormai buoni per setacciare spiagge con la scusa del corallo
o per buttarsi in un cinema con una pietra al collo
e troppo stanchi per non vergognarsi
di confessarlo nei miei
proprio identici ai tuoi

sono riusciti a cambiarci
ci son riusciti lo sai.

Ma senza che gli altri non ne sappiano niente
dirmi senza un programma dimmi come ci si sente
continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito
farai l'amore per amore
o per avercelo garantito,

andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori
o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori
o resterai più semplicemente
dove un attimo vale un altro
senza chiederti come mai,

continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai.