HOME       BLOG    VIDEO    EVENTI    GLI INVISIBILI    MUSICA    LIBRI    POLITICA LOCALE    POST PIU' COMMENTATI

giovedì 22 ottobre 2009

Il giovanilismo e la guerra delle generazioni

Esiste un popolo in Italia oggi, abusato, che lotta per la sua determinazione e per la riscossione dei sui diritti?
ESISTE questo popolo. E’ quello preso dalle crisi di occupazione, precarizzazione e incognite di ogni tipo: è l’ universo mondo dei GIOVANI.
Ogni determinismo è guidato da una presa di COSCIENZA.
Questa coscienza ci indica che occorre CULTURA, CONOSCENZA e CONSAPEVOLEZZA per agire verso il bene di una società.
Occorre una coscienza della CLASSE DEI GIOVANI capace di contrastare l’ egemonia culturale della barbarie prodotta dal berlusconismo e dalle destre (oltre che dalla tracimazione della marcia Prima Repubblica nella finta Seconda Repubblica ) .
Per cambiare gli organi istituzionali a livello centrale bisogna costituire IDENTITA’ e FORME DELLA RAPPRESENTANZA a livello LOCALE.
Dal proletariato storico si passa al PRECARIATO ( poiché la natalità è minacciata da variabili micro e macro della globalizzazione e da un mix di politiche antimeridionaliste che da secoli vengono perpetrate ad arte) perché la prole è già prerogativa indifendibile, specie per un giovane del sud.


Definizione degli obiettivi e metodi di lotta sono in una aperta fase costituente ed è tutta l’ Italia ad essere attraversata e squarciata nei suoi territori da lotte per il possesso della giurisprudenza di beni comuni e collettivi: terra, ambiente, flora, fauna, acqua, sole, vento…
Per sopravvivere dobbiamo incentrare gli investimenti sullo sfruttamento del sole, del vento, dell’ idrogeno,.. Dovranno liberarsi nuovi posti di lavoro nel campo delle energie rinnovabili e della terza rivoluzione industriale, del trattamento e smaltimento dei rifiuti, della riqualificazione urbanistica e della edilizia. Una vera conversione ci attende, ma come ogni rivoluzione essa non parte se non sospinta fortemente dalle forze sociali, dal popolo.
Da parte sua il popolo per andare incontro a scelte condivise deve essere popolo, cioè deve esser formato ed informato dei processi in atto e per partecipare deve riconoscersi negli altri come membro insostituibile di un tutto che veicola il destino delle umanità.
Da queste dispute dipende la possibilità di sopravvivenza di gran parte delle genti che abitano questa Italia.
Mi verrebbe da dire marxianamente : GIOVANI PRRECARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!
Non è semplicemente uno slogan ma credo sia una necessità per resistere all’ erosione dei diritti che proviene da questa ondata nefasta conservatrice e globalizzatrice.
Con queste lotte fatte dai giovani precari, specie nel sud, una spinta moralizzatrice potrebbe definire una cultura nuova, quella altermondialista che come una manna purificatrice dai vari localismi periferici sappia risalire la china sino al cuore di questa nazione.
I giovani in un turbine di effetti dichiareranno guerra al mondo dei grandi che lottizza ed occupa ogni necessaria aspirazione dei primi.
Una guerra fra generazioni che sconquassi l’ ordine dato e apra le porte ad un socialismo nuovo, un SOCIALISMO VERDE, con forme di solidarietà mai esplorate prima d’ ora.
Eserciti di giovani volenterosi volontari torneranno nelle loro terre e occupandole e lavorandole daranno vita ad una riqualificazione delle realtà locali e comunitarie.
Dovranno fare leggi e riforme, la più importante di tutte la RIFORMA AGRARIA, dovranno combattere col mondo dei grandi fatto di capitalismo, di automobili, di internet, di televisioni, di giornali…; dovranno ora dare risposta con un’auto-organizzazione capillare che, quand’ anche con “ manu militari “ sappia invertire i ruoli di classe: chi oggi è vittima di questo sistema dovrà prendere inevitabilmente il posto di chi predatoriamente è classe dirigente.
Inevitabile è la lotta di classe per la nostra sopravvivenza e della umanità tutta.
E’tempo di fare i conti con la nostra realtà e rifiutare tutte le finzioni e alienazioni che quotidianamente ci propinano i grandi per affrontare finalmente il presente.
Se i giovani italiani e meridionali soprattutto, vogliono avere un avvenire devono ora diventare cittadini e trasformare le città e le comunità che vivranno in un nuovo mondo possibile.
I giovani devono fare politica e devono lottare per cambiarla, per abbattere la prerogativa dei vecchi ad occupare gli scranni parlamentari.
Appare ovvio che lo spazio fra la pazienza dei giovani e la strafottenza dei più grandi si stia dilatando sempre più e che non serviranno (o serviranno ancora a poco) i lavaggi di cervello di internet e televisione.
Come in altre parti del mondo anche noi grideremo la nostra rabbia per un futuro incerto e per un presente vissuto come totale smarrimento.
E’ la crisi delle crisi che bussa alle porte e coglie impreparate le famiglie: al punto in cui siamo le persone con un età anagrafica superiore ai 50 anni d’età non possono sentirsi esentati da un mea culpa generalizzato, devono altresì mantenere (o cercare di farlo ) un’ economia familiare gravata da una crisi senza precedenti e concedere ( o contendere ) la prerogativa parlamentare ad un gran numero di giovani.
L’ accesso alle cariche pubbliche è ineludibile per cambiare rotta e dare un diverso impulso ed indirizzo politico alla società tutta.
Noi di scelte scellerate non possiamo più subirne.

Angelo Cleopazzo

La sfida di Berlusconi

di Nicola Tranfaglia

Berlusconi ha annunciato che farà da solo, anche senza l’apporto delle opposizioni parlamentari,le sue riforme della costituzione repubblicana.
E lo ha detto con tono minaccioso e irritato, dopo la sentenza della Corte Costituzionale ha bocciato il lodo Alfano e il tribunale civile di Milano ha dato ragione alla CIR e ha stabilito che la Fininvest deve dare 750 milioni di euro come risarcimento di danni per il lodo Mondadori.
Che cosa possiamo aspettarci da questa nuova campagna di riforme del governo Berlusconi?
Non è difficile immaginarlo perché riguarderà l’amministrazione della giustizia,l’immunità del presidente del Consiglio e il primato ancora più forte del potere esecutivo rispetto al parlamento e agli altri organi costituzionali.
Per quanto riguarda la giustizia, il disegno di legge Alfano, ormai in fase di approvazione definitiva, è già un assaggio notevole:ai giudici non sarà possibile indagare su una serie di materie indicate e nello stesso tempo ai giornalisti sarà vietato parlare dei processi fino alla loro conclusione.
Ma ora è arrivato il momento di intervenire in maniera decisiva sui “PM rossi” che sono l’incubo ricorrente del nostro presidente del Consiglio:bisognerà fare in modo che i pm siano staccati dal resto della magistratura e subalterni al potere esecutivo.
E’ quello che succede in altri paesi ma che in Italia avveniva durante il fascismo e non nel periodo repubblicano. E questo fa già capire come sarebbe un passo indietro tornare a quel triste passato.
Ma Berlusconi è convinto anche della necessità di riformare il Consiglio Superiore della Magistratura perché ritiene che servano soltanto commissioni disciplinari contro i magistrati e non organi di autogoverno che discutano questioni di diritto.
C’è,insomma, per quanto riguarda la giustizia,il progetto è quello di non avere più problemi con la giustizia e togliere alla magistratura le caratteristiche di un ordine distinto da gli altri dello Stato.
Berlusconi si rende conto che una simile riforma distrugge uno dei principi di fondo della costituzione che si regge sulla presenza di tre poteri distinti nessuno dei quali ha un potere prevalente?
A me pare che il presidente del Consiglio non si preoccupi né dei principi fondamentali della costituzione né dei rischi di una simile riforma.
L’altro aspetto, che sarà sicuramente toccato dalla grande riforma berlusconiana, è il restringimento dei poteri del parlamento e l’assoluta primizia del presidente rispetto ad esso.
Ci sarà un primo ministro in grado di nominare e revocare i ministri senza l’intervento neppure formale del Capo dello Stato e la sua assoluta immunità da raggiungere con un’apposita legge costituzionale in grado di sfuggire alla mannaia della corte costituzionale.
E diventerà impossibile costringerlo alle dimissioni perché quelle dimissioni porteranno allo scioglimento delle camere,adempimento che anch’esso spetterà in maniera esclusiva al capo del governo.
Questa riforma, che era già contenuta nel progetto di costituzione respinto nel 2006 dalla maggioranza degli italiani,ha il difetto di ridurre a una figura esclusivamente rappresentativa e formale il Capo dello Stato. E se Berlusconi volesse aspirare a quella carica nel 2013?
Non si può escluderlo e dunque su questa riforma pendono margini di incertezza. Staremo a vedere ma non c’è dubbio che già le altre riforme butterebbero a mare i punti essenziali della costituzione.
Ce la farà Berlusconi ad approvare a maggioranza assoluta le sue riforme e vincere i successivi referendum.
Ci sono molte varianti da misurare ed è difficile dire che cosa succederà.
Ma se l’opposizione sarà forte e unitaria,l’impresa diventerà troppo difficile.

da AntimafiaDuemila

Tondo e Limone a processo


Scambi di favori tra Università e politica. 20 dei 23 imputati sono stati rinviati a giudizio. Tra questi Angelo Tondo, ex assessore all'Urbanistica per il Comune di Lecce, e Oronzo Limone, ex rettore dell'Ateneo

Scambio di favori tra politici ed Ateneo per ottenere vantaggi personali. Un regime di illegalità diffusa al centro del quale ci sono nomi illustri come quello di Oronzo Limone, ex rettore dell'Università del Salento, ed Angelo Tondo, ex assessore all'Urbanistica del Comune di Lecce. Lo ha descritto ieri mattina il gip Carlo Cazzella che ha rinviato a giudizio 20 dei 23 imputati nel processo su voto di scambio, corruzione, peculato, truffa, abuso d'ufficio e falso. Ovvero sul denaro dell'Università salentina utilizzato per spese personali dall'allora rettore Limone (tecnici pagati come consulenti universitari ed in realtà incaricati di effettuare lavori di ristrutturazione in appartamenti privati), dal suo capo di gabinetto Gianfranco Madonna e da altri collaboratori e sui posti di lavoro promessi da Tondo, quand'era assessore all'Urbanistica, in cambio di voti alle elezioni comunali di due anni fa. Le indagini condotte dal pm Marco D'Agostino si sono avvalse di intercettazioni telefoniche relative al periodo tra l'ottobre 2006 al giugno 2007. Toccherà adesso ai giudici della seconda sezione penale determinare le effettive responsabilità a partire dall'udienza del prossimo 9 dicembre.

da IlTaccoD'Italia

Puglia: 220 borse di studio da 50mila euro l'anno per ricercatori

Il presidente Vendola, la vicepresidente Loredana Capone e l’assessore al Lavoro e Formazione, Michele Losappio, hanno presentato questa mattina la delibera con la quale sono state finanziate 220 borse di studio per i ricercatori pugliesi, ciascuna per 50mila euro l’anno, nell’ambito di 19 progetti di laboratori pubblici di ricerca. La spesa complessiva della delibera approvata ieri dalla giunta è di 16 milioni di euro, provenienti dall’integrazione di fondi Fesr e Fse. “La novità – ha spiegato la vicepresidente Capone – sta proprio nell’integrazione dei fondi sociali e di sviluppo, per un dialogo proficuo non solo per la ricerca, ma anche per il mondo produttivo. I finanziamenti servono per il mondo della ricerca ma anche per le imprese, che saranno così incentivate ad investire in Puglia dove esistono infrastrutture per la ricerca e l’innovazione. E per la Puglia ci sarà anche il vantaggio di arginare la cosiddetta fuga dei cervelli. Solleciteremo però il tessuto socioeconomico a fare altrettanto, dopo il finanziamento di 220 borse con fondi pubblici ci aspettiamo altri fondi dai privati. Per i quali ci sono altri 20 milioni di finanziamenti per chi investe in ricerca. Un premio alle imprese che investono in ricerca in questi tempi di crisi”.

“Si tratta – ha confermato Losappio – di una prima iniziativa per finanziare le ricerche di laureati e possessori di un master con fondi che un tempo andavano tutti alla formazione professionale e agli enti storici. Oggi gli enti storici continuano ad avere finanziamenti, ma orientiamo parte della spesa verso utilizzatori diretti come i giovani ricercatori. E’ chiaro che il tutto è orientato alla creazione di impresa, ma se il tessuto imprenditoriale non dovesse dare risposte come però chiediamo, tutti gli sforzi sarebbero inutili”.

da GrandeSalento

repubblica democratica del congo - Il cuore dell’Africa saccheggiato e derubato

Arrivo, saccheggio e me ne vado, senza pagare il conto. È quello che sta succedendo nella Repubblica Democratica del Congo.

Secondo il rapporto di una commissione d’inchiesta del senato di Kinshasa, pubblicato da Le Monde, - nel 2008 - le imprese minerarie che scavano nelle regioni ricche di rame, cobalto, oro e coltan hanno versato in tasse e diritti di concessione 92 milioni di dollari contro i 205 milioni previsti.

Questo vero e proprio furto a i danni dello stato - e della popolazione - contribuisce a lasciare il settore minerario nel caos: le statistiche sulle esportazioni sono inesistenti, non esiste un catasto, alla direzione generale delle miniere esiste un solo computer che deve controllare migliaia di concessioni e gli archivi cartacei sono spariti: una parte bruciata in un incendio e un’altra parte semplicemente volatilizzata. Intanto si continuano a rilasciare concessioni: nel 2008 sono state 4.234, di cui 1.500 solo nel Katanga.

“L’Africa saccheggiata”, scrive Le Monde. “Fatto ancor più scandaloso visto che si tratta di un paese, l’Rdc, grande come l’Europa e le cui ricchezze naturali dovrebbero contribuire a migliorare le condizioni di vita di una popolazione distrutta da trent’anni di dittatura e dieci anni di guerra”.

Guerra che, secondo Medici senza frontiere, sta estendendosi in nuove zone, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di civili.

da Internazionale

"Lo sterminio degli ebrei è una leggenda" prof negazionista, shock alla Sapienza


Roma, il ricercatore di filosofia del diritto scrive sul suo blog
ripreso dall'estrema destra. "Priebke? Solo una vendetta"
"Lo sterminio degli ebrei è una leggenda" prof negazionista, shock alla Sapienza
di MARCO PASQUA

"Lo sterminio degli ebrei è una leggenda" prof negazionista, shock alla Sapienza

Antonio Caracciolo
DEFINISCE l'Olocausto una "leggenda" sulla quale esistono "solo verità ufficiali non soggette a verifica storica e contraddittorio". Una "leggenda" usata "per colpevolizzare moralmente i popoli vinti". Anche le camere a gas, "ammesso e non concesso che queste siano mai veramente esistite", sono una delle tante verità "da verificare".
Come "i sei milioni di morti nei campi di concentramento". È la Storia reinterpretata secondo i folli principi del negazionismo, e che sembra trovare terreno fertile nel pensiero e nei blog gestiti da Antonio Caracciolo, un ricercatore 59enne di filosofia del diritto dell'università La Sapienza. Secondo il sito ufficiale del dipartimento di teoria dello Stato è ricercatore, anche se lui dice di essere "professore aggregato".

Sentito telefonicamente Caracciolo non smentisce la propria difesa del negazionismo, anzi, ne fa una questione di principio affermando "il diritto dei negazionisti di poter esprimere le loro idee, senza finire in carcere". C'è da chiedersi, allora, se tra i suoi studenti o le persone che lo leggono qualcuno si sia mai ribellato. "Ho subito minacce, ricevuto insulti, ma non mi interessa. Vado avanti: sono pronto a discuterne con chiunque". E continua: "A chi mi dice che sono antisemita rispondo così: non ho mai capito il significato di questa parola". Lo scorso anno accademico, Caracciolo ha tenuto un corso di filosofia del diritto, nell'ambito del corso di laurea di II livello in Studi Europei. Oltre a salire in cattedra nel più grande ateneo d'Europa, si vanta di gestire ben 33 blog e si definisce coordinatore provinciale dei club di Forza Italia a Seminara (Reggio Calabria), avendone fondato uno nel 2003.

Sono due, in particolare, i siti sui quali questo ricercatore spiega perché si debba dare credito alle tesi negazioniste. In "Club Tiberino", parla a più riprese della Shoah, in paginate virtuali di offese alla memoria degli ebrei morti nei campi di concentramento. Pagine regolarmente citate e riprese dai siti della destra estrema. A proposito della Shoah, è disposto ad ammettere che "vi sia controversia storica sul numero dei morti di Auschwitz. Che siano sei milioni nessuno sembra più voglia seriamente sostenerlo. Che poi all'indubbia discriminazione e persecuzione di ebrei, zingari, omosessuali, disadattati, oppositori politici di ogni genere sia seguita in senso proprio anche la volontà di "sterminio" mediante "camere a gas" è cosa su cui io posso sospendere il giudizio in attesa di prove certe o in attesa di un mio personale ed informato convincimento".

Scende in campo, a più riprese, in difesa del negazionista Robert Faurisson, che nel maggio del 2007 suscitò proteste e sdegno perché invitato a tenere una lezione presso l'università di Teramo. E nell'ambito di questa Storia liberamente reinterpretata, viene fornita anche una lettura delle leggi razziali, condita di elementi antisemiti: "Le leggi razziali furono cose di 70 anni fa che si collocano in un contesto di 70 anni fa. Molti italiani, la stragrande maggioranza, hanno meno di 70 anni e quasi tutti gli italiani di oggi non hanno nessuna memoria diretta di quegli anni. A trarne profitto sono gli ebrei di età avanzata che sono diventati una sorta di eroi nazionali.

Vengono portati in giro nei convegni e nelle scuole per raccontare quello che ricordano o pensano di ricordare". Sempre secondo Caracciolo, gli ebrei trarrebbero profitto dalla figura di Erich Priebke, ex ufficiale delle SS, condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine: "Non si parli di giustizia e di giusta condanna, perché io non ne vedo di giustizia. Vedo solo vendetta. Mi chiedo cosa sarebbero gli ebrei romani senza i Priebke. Come potrebbero vivere senza nutrirsi della colpa altrui, o meglio della colpa che loro pensano il mondo intero abbia verso di loro. Su questa base fondano la loro tracotanza, la loro pretesa ad un risarcimento morale e materiale infinito".

http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/prof-olocausto/prof-olocausto/prof-olocausto.html
da Antifa

Modena City Ramblers & Francesco Guccini - Auschwitz



AUSCHWITZ

Son morto con altri cento,
son morto ch'ero un bambino,
passato per il camino
e adesso io sono nel vento.
E adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz c'era la neve,
il fumo saliva lento,
nel freddo giorno d'inverno
e adesso io sono nel vento.
E adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz tante persone,
ma, ma un solo grande silenzio
è strano non riesco ancora
a sorridere qui nel vento.
A sorridere qui nel vento.

Io chiedo come può l'uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.
In polvere qui nel vento.

E ancora tuona un cannone
e ancora no no è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.
E ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà
che l'uomo potrà imparare
a vivere senz'ammazzare
e il vento si poserà.
E il vento si poserà.

Io chiedo quando sarà
che l'uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà.
E il vento si poserà.
E il vento si poserà

Si ricomincia dall'immigrato

di Karim Metref

Una lettera aperta scritta da un membro del Collettivo autorganizzato immigrati di Torino su quello che significa, e potrebbe significare, la manifestazione del 17 ottobre e perché non va archiviata come una tra le tante manifestazioni antirazziste tenute in Italia da venti anni in qua.

Sabato 17 ottobre 2009 alle 14.30, da Piazza della Repubblica a Roma, partiva una manifestazione che in aspetto assomigliava a tutte le altre. Ma la protesta del 17 ottobre, nonostante l’aspetto, era molto diversa. Profondamente diversa nella sua essenza stessa.Da 20 anni, dall’uccisione di Jerry Masslo nel 1989 a Villa Literno fino a oggi di manifestazioni antirazziste in Italia ce ne sono state tantissime. Ma questa è stata la prima manifestazione nazionale contro il razzismo e contro le leggi razziste convocata e maggiormente sostenuta da organizzazioni autonome di immigrati. Gli immigrati non erano soltanto molto numerosi in piazza come è stato segnalato in molti media. Questa volta non hanno fatto solo da portabandiere o da comparse per portare un po’ di colore nel corteo come erano soliti. Questa volta gli immigrati erano l’anima di questa manifestazione. Questo fatto, però, o non è stato chiaro a tutti o addirittura non è piaciuto per niente.
Fin dall’inizio, il Comitato 17 ottobre è stato guardato con diffidenza. Ignorato dal mondo della politica e di conseguenza anche da quello dei media potenti. In effetti la manifestazione del 17 ottobre sembra piovuta dal cielo. Ne hanno parlato un pochino alcuni «piccoli» giornali di sinistra ma timidamente, nelle ultime settimane. Le grosse macchine che di solito mobilitano per le grandi manifestazioni della sinistra [Cgil, Arci…] si sono mosse solo negli ultimi giorni. I partiti più grandi, alcuni hanno fatto finta di niente e altri hanno affidato la questione al loro reparto «immigrazione», di solito poco numeroso e poco influente. Gli unici a crederci oltre ai comitati degli immigrati sono state piccole organizzazioni, piccoli partiti extraparlamentari, movimenti di base… Che hanno fatto insieme a centinaia di immigrati uno straordinario lavoro di informazione e sensibilizzazione capillare nelle strade, nei luoghi di lavoro, nei luoghi di raduno della gente, quella vera, quella che lavora per vivere, quella che subisce la crisi in pieno. Al punto che negli ultimi giorni le direzioni dei partiti sembra siano state confrontate ad un dilemma importante: o continuare a negare la loro solidarietà e affrontare l’ennesima incomprensione da parte delle loro basi o raggiungere il corteo all’ultimo minuto. E hanno per la maggior parte scelto la seconda soluzione.

Alla partenza da Roma ovviamente c’erano tutti, o quasi. Ormai la vetrina era allestita e tutti volevano un posto in primo piano. Come al solito, partiti, sindacati e grosse associazioni hanno inondato il corteo di bandiere, magliette, capellini, striscioni, palloncini e chi più ne ha più ne metta. Non si sono fatti sfuggire questa occasione per praticare il loro sport favorito: quello di calpestarsi i piedi a vicenda a ogni manifestazione unitaria.
L’accordo stabilito, tra il comitato 17 ottobre e le varie organizzazioni presenti, di lasciare la testa del corteo al comitato unitario e di schierare le loro truppe dietro è stato più o meno rispettato dalle basi [anche se numerose bandiere hanno giocato a rincorrersi fino alla testa del corteo]. Ma le grosse personalità l’hanno completamente calpestato. Il comitato organizzativo ha dovuto fare la caccia al politico per rimandarli indietro, a stare un po’ insieme alle loro basi. Alcuni sono stati richiamati all’ordine varie volte… alcuni sono rimasti testardamente in testa di corteo nonostante le richieste e gli accordi.
Una nuova prova se ce ne fosse bisogno che se da una parte la gente «normale» è matura per un nuovo modo di fare e vivere la politica, le classi dirigenti rimangono il principale ostacolo a tale cambiamento.

Perché, anche se non si è visto ma, la manifestazione del 17 ottobre ha segnato un nuovo modo di protestare, di fare politica. Ed è giusto che questo cambiamento venga dai comitati di immigrati.
L’immigrato nel mondo ricco del Nord in genere e in Italia oggi in modo molto particolare rappresenta il gruppo sociale sul quale le ingiustizie dell’ultra liberismo arrogante si esercitano con più ferocia. Come l’ebreo nell’inizio del secolo in Europa, come il nero negli Stati Uniti del dopoguerra, l’immigrazione costituisce in Italia una specie di popolo-classe utilizzato per colmare i buchi causati dallo sfascio del patrimonio pubblico. Vittime delle vittime. Schiavi degli schiavi. Braccia sfruttabili a volontà a disposizione di piccoli agricoltori, industriali e imprenditori edili strangolati da un mercato controllato dai grandi gruppi che pretendono prezzi sempre più bassi. Servi e serve a disposizione di una famiglia strangolata dalla quasi assenza di welfare e di politiche per la cura di anziani e bambini. Capri espiatori a disposizione di una politica, che non può e non vuole nemmeno più dare risposte ai problemi veri, e che li usa come spauracchio per tenere i cittadini lontani dalle domande vere. Una schiavizzazione cominciata con il rapporto stretto tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno della legge Turco-Napolitano normalmente proseguito nella Bossi-Fini per concludersi del tutto logicamente nell’attuale Pacchetto sicurezza. Rendendo l’immigrato sempre più vulnerabile, sempre più ricattabile.

E come nell’Europa del Novecento e come negli Stati Uniti del dopoguerra, è dai diritti di chi più di tutti è senza diritti che comincia la lotta per migliorare la vita di tutti. Oggi, in Italia, la lotta per la dignità e i diritti di tutti ricomincia dalla lotta dei migranti.
La manifestazione del 17 ottobre non è una piccola sfilata tutta gentile che dice che il razzismo è una brutta cosa e basta. La manifestazione ha un piattaforma. Una piattaforma volutamente radicale. Troppo radicale per chi vuole essere politicamente corretto ma non affrontare mai i problemi alla base.
La manifestazione del 17 ottobre chiama quelli tra i politici e i membri della società civile italiana che hanno ancora a cuore i valori della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza a tornare alla politica vera. Quella che si fa con la gente vera. Non da Floris, non da Santoro, non da Vespa! Non quella che scalda le poltrone, non quella che si focalizza sui festini e le veline di Berlusconi.
Ma quella che parla dei temi che Berlusconi [e credo anche tanti dell’opposizione] non vorrebbe sentire. Quella che tratta delle vere cause della crisi. Che parla di lavoro, di scuola, di sanità, di sociale e ambiente. Di beni pubblici che non devono diventare beni di pochi.
Di quella politica che non fa finta che la questione del sociale si ferma ai confini dell’Italia. Di quella che affronta le questioni nazionali e internazionali insieme perché il mondo è più che mai un tutt’uno. Di quella che non nasconde all’Italiano che se le ragazze di Benin City vengono a prostituirsi in Italia è perché la Shell-BP, la Total, la Chevron e soprattutto la Agip hanno ammazzato il mare, i laghi e le terre di cui viveva il loro popolo.
La politica vera che non cerca di abbindolare la gente con la storia che «l’immigrazione è una buona cosa. Perché porta braccia alla nostra economia e ringiovanisce la popolazione».
Come se fosse vero che milioni di persone costrette a lasciare la propria terra fosse una buona cosa. Come se paesi interi che si svuotano della loro linfa vitale fosse una buona cosa. Come se decine di migliaia di bambini che crescono in Moldavia, Romania, Ucraina, Polonia… senza la madre [perché la madre sta ad accudire qualche anziano o i bambini di una altra donna in Italia] potesse essere una buona cosa.
Come se fosse una buona cosa che un ragazzo che nasce a Bamako e che non ha, per poter almeno sognare un vita dignitosa, altra scelta che attraversare il deserto a piedi e poi il mare su una qualche imbarcazione di fortuna per, se sopravvive… venire a vendere accendini a Brescia.
Come se per ringiovanire la popolazione italiana non ci sarebbero modi per permettere ai giovani di avere bambini e poterli crescere senza paura e senza che sia un fardello insopportabile. Come se anche la produzione dei bambini si potesse delocalizzare verso luoghi dove viene a costare meno.
A tutto questo richiama la piattaforma volutamente radicale del 17 ottobre. Richiama ad una politica che si azzarda a ripensare il mondo e non si limita a gestire soltanto quei pochi spazi lasciati a disposizione dal mercato e dalla finanza internazionale. Richiama a un ritorno ai valori. Richiama a ricominciare dagli oppressi. Per ricordare che: i diritti o ce li abbiamo tutti o non ce li ha nessuno. Per far suonare il campanello d’allarme, per dire che non c’è più tempo da perdere. O ci svegliamo e ci decidiamo a cambiare radicalmente prima noi stessi e il nostro modo di pensare e di fare politica o le cose andranno solo peggiorando. Per i paesi poveri prima, per i migranti dopo e poi per tutti. Ma veramente tutti quanti!

da Carta

Giornalismo in crisi anche in Africa

Sono passati più di sei mesi dalla Conferenza dei giornalisti dell’Africa centrale e molta acqua è passata sotto le canoe dei pescatori di Kinshasa, eppure non molto è cambiato nel giornalismo africano.

Il 20 e il 21 marzo del 2009 i giornalisti e gli editori africani si riunirono nella capitale della Repubblica Democratica del Congo, metropoli con oltre sette milioni di abitanti, per parlare dell’attuale situazione del giornalismo africano.

Il simposio fu molto frequentato ed animato ma la diagnosi che ne venne fuori fu categorica e drammatica: “il giornalismo africano è malato e per salvarlo servono rimedi urgenti”.

All’evento parteciparono professionisti della comunicazione di Camerun, Gabon, Repubblica Democratica del Congo, Ciad e Congo Brazzaville.

Nello specifico i problemi emersi andavano dalla contrazione degli investimenti al problema strettamente pratico della distribuzione quotidiana dei giornali nelle zone decentrate e più difficili da raggiungere. Problema grave quest’ultimo per un mezzo di informazione che si nutre specialmente della capillarità nella distribuzione e nell’immediatezza delle notizie.

Un problema che causa la disinformazione di milioni di persone che vivono nei villaggi e nelle periferie delle grandi città. Una fonte che, dunque, non raggiunge il proprio delta dissetando al proprio passaggio tantissimi cittadini africani assetati di informazione.

In sei mesi, dicevamo, la situazione non è certo migliorata complice anche una “strascicante” crisi economica globale che stenta, purtroppo, a lasciare il passo ad una comune ripresa.

D’altra parte il boom dell’informazione on-line che ha riguardato anche il continente Africano stenta a dare al giornalismo quel salto di qualità sperato, specialmente nel campo della diffusione delle informazioni, per via degli innumerevoli limiti infrastrutturali e tecnologici del paese.

Tidiane Dioh, responsabile del programma sui mezzi di comunicazione dell’Organizzazione internazionale della francofonia, sostiene che le cause vanno cercate nella scarsità dei finanziamenti statali e nell’instabilità politica dei paesi africani. Di diverso avviso vari giornalisti, tra cui Alcinou da Costa, senegalese. Il problema principale, secondo lui, riguarda la cultura dei giornalisti stessi che troppo spesso preferiscono insultare e fare polemica piuttosto che informare i cittadini.

I punti di vista e le prospettive sono diverse, il comune denominatore è uno solo: il giornalismo africano è un malato grave.

Non certamente un malato terminale, le cure esistono, i siti internet e i giornali che parlano e si occupano di Africa si moltiplicano ogni giorno.

Sono sempre più i giovani giornalisti che decidono di rimanere in Africa per scrivere e raccontare.

La speranza è che un aiuto esterno, magari la ripresa economica globale e il miglioramento della rete delle telecomunicazioni, possa fare cambiare rotta ad un mezzo di informazione indispensabile che, comunque, dovrà trovare dentro di sé molte risposte ed antidoti ai propri problemi.

di Isidoro Malvarosa da AfricaNews

Il pesce e la rana


Lettera aperta di Militant A, sulle ultime note di Gue Pequeno*

Un pesce è un pesce, e una rana è una rana.

Quanto rumore per un articolo su una rivista musicale. Questo pezzo di giugno su XL diventerà un “classico”. Ma perché tanto fermento? Spesso le interviste musicali sono noiose e inutili, con quelle domande che quando rispondi pensi ad altro. Invece qui bam, subito al dunque. Gue mi accusa di essere andato pesante dalla prima riga. L’incipit era un po’ forte, ma serviva ad attirare l’attenzione del lettore: “Una donna non può sentirsi una donna se sente i Club Dogo…ecc.”, me l’ha detto una mia amica del nord, e l’ho trovato un ottimo espediente narrativo per intrigare il lettore distratto: “E che diranno mai questi qua di così pesante?”.
L’ho usato per conquistare alla lettura. Non volevo offendere, ma creare interesse. Era chiaramente una battuta esagerata. Ma simmetrica alle rime dei Club Dogo. L’articolo per il resto è misurato. Tutti possono leggerlo e rendersene conto da sé. Ho cercato di dare uno spessore mainstream a dei discorsi underground. E coinvolgere anche quelli che del genere musicale rap se ne fregano. Per allargare il pubblico. Sono stato chiamato per questo dalla Universal. E anche pagato (come dice Gue nella sua lettera, e non dalla casa discografica, né da famiglia cristiana, ma da XL). Certo pagato. Ma che vado gratis? Io sono quello che fa benefit per tutti, ma non per tutti, tutti, tutti. Comunque pagato una miseria, che ancora non ho visto, saranno 200 euri se tolgo tutte le spese e le tasse. E’ per questo che considero questo lavoro un’opera di aiuto alla costruzione di un “sentire comune”. Se penso ai soldi mi viene da ridere. Ho dato molto più di quello che ho avuto. Ho lavorato sopra a quella intervista con passione e dedizione prima e dopo l’incontro per almeno tre giorni proprio per farne un pezzo quasi di letteratura. L’ho dovuto limare e ri-limare per farlo entrare negli spazi. Con le descrizioni dei componenti del gruppo, l’evocazione del primo disco, le discussioni sulla cocaina, ecc. Se vogliamo aprire il dibattito sui contenuti, ok, è stato fatto apposta. Ma guardare dentro questa botola dei mostri che si è aperta su internet, è una pena. Ma che c’è l’impazzimento generale? Gli stessi Club Dogo durante l’intervista mi dissero più volte che quelle domande erano stimolanti, profonde, che davano l’assist per parlare di tutti gli argomenti in libertà. Poi d’un tratto la materia si è trasformata in merda e sono iniziati gli insulti.

E allora, do la mia versione su come è nato l’affare. Per capire come funzionano le cose. Scusate se è un po’ noioso, ma sono costretto per ristabilire un po’ di coerenza in rete. E’ stata Rossana (la responsabile marketing dell’etichetta Universal) a inseguirmi e convincermi a fare il “fatidico” pezzo che ha dato il via al ciclone. Quando ci sentimmo la prima volta al telefono (persona molto cordiale), io espressi subito i miei dubbi. Le spiegai che non la consideravo una buona idea. Non ero io la persona adatta per “celebrare” l’uscita del loro nuovo disco. Perché Assalti Frontali e Club Dogo sono diversi e questo prima o poi sarebbe emerso. E poiché c’era anche un biglietto d’aereo costoso, il taxi per andare e venire dall’aeroporto, l’affitto di una sala per farmi ascoltare Dogocrazia, i rinfreschi, ecc., (tutto questo, invece, a carico Universal) e soprattutto l’uscita di un disco con investimenti importanti, mi spiaceva che io, con la mia identità, avrei fatalmente lavorato su elementi che invece erano di critica, positiva, ma critica.

Perché un pesce è un pesce e una rana è una rana.

Anche se per un breve tratto dell’evoluzione possiamo nuotare insieme, prima o poi ognuno finirà nel proprio ambiente naturale. E non volevo essere scortese con chi mi ospitava. Glielo feci presente alla Rossana, ma lei mi disse che era proprio questa l’intenzione del gruppo: parlare dei “rumors”. Perché, diceva testuale, i Club Dogo volevano scrollarsi di dosso l’etichetta di gruppo sessista ecc. e volevano affrontare l’argomento. Bene. Parlai dei miei dubbi anche con Esa, che era con me in quei giorni a Lampedusa, per cantare in un benefit davanti al CIE, e lui mi suggerì di andare. Non è vero che non ci pensai nemmeno due volte. A me questa cosa mi creava degli imbarazzi. Se qualcuno mi paga non è che mi compra.

Io dirò sempre quello che penso. E non volevo finire in una guerra tra rapper. Siamo seri. Mi interessa parlare dei comportamenti sociali. Dell’identità di un gruppo, che è il 70% della sua potenza. Ma in questo momento il mio lavoro è rivolto a tutt’altro nel campo del rap. Ma insomma, alla fine, vado. Forte anche di un legame passato con i Club Dogo, non solido, ma di rispetto a distanza. L’occasione che ci dava XL non era male. Ma io NON sono di XL. Io vengo dagli spazi sociali, cammino nel movimento, pubblico i mie interventi su www.globalproject.info, e a quella area politica appartengo, con tutta la sua costellazione. Degli scazzi tra la rivista e il gruppo sono al di fuori. Me ne sbatto. E se non volete andare su XL perché siete esasperati, non ci andate! Chi ve lo ha proposto? Io sono uno leale. Ho detto subito quello che avrei fatto. Don Jo lo sa. Jake lo sa. Non avrei parlato del suono del disco. E non ho dato voti a nessuno. Sono andato apposta a cercare i “rumors” di un certo tipo proprio per farvi rispondere. Ho lavorato per questo e fatto ricerca.

Ho speso il mio tempo. Ma perché avete chiamato Militant A? Che ci facevo io in quello studio? Io non sono un traduttore, e poi voi parlate la mia lingua, vi capisco. Gue, se tu tutto questo non lo sapevi, devi fare un dissing sulla tua manager! (Scherzo). Ora non so se lei decide cose che voi non sapete sulle scelte comunicative, (e questa cosa potrebbe essere una rivincita beffarda in fatto di potere femminile), ma così sono andate le cose. E in fondo è stata brava, complimenti, ci ha visto lungo. Appena sono entrato nella sala ho chiarito subito di che cosa avremmo parlato e come avrei trattato l’argomento, tanto più che c’è un video quasi integrale (che a me personalmente non piace, perché lungo e pesante). Tutti i presenti lo sanno. Questi sono i fatti. Morale: che palle!

E poi basta con queste storie dei moralisti e dei cattivi in croce. Voglio vedere alla fine della vita come siamo messi. Mi viene da ridere a pensare che noi saremmo i moralisti, ma ve ne prego! Per strada stiamo con tutta la fauna che c’è oggi in strada. A Via dei Volsci, negli altri spazi sociali, c’è gente che… ma lasciamo stare. Chiedete ai vostri amici che sono a Roma e smettiamola con tutte queste cazzate. Ognuno è quello che è.

Nel mio articolo avete fatto la vostra storia e vi siete spiegati su tutte le questioni. Ho detto che i Club Dogo sono un gruppo che rappresenta un’epoca. Non la fate lunga sull’origine del mondo. Ci siete rimasti male per il finale? Non credo di avere offeso nessuno. E comunque alla fine il girino diventa rana e si separa dal pesce. E’ inevitabile. Sono i nostri sogni e i valori di riferimento che ci separano. L’approccio verso il prossimo. Il rap è presa di parola, è poesia, per me, non è aggressione verso l’altro. E anche il tuo dissing indica che le strade dovevano separarsi.

Io non avrei mai fatto una cosa così fredda e sgradevole a uno della scena. Uno con cui c’era anche un filo di legame. E’ una tristezza. Gue, siamo molto diversi. Dici che è stata una cosa all’americana, un po’ simpatica. Bene, a me non sembrava ironica. Sembrava più uno sfogo contro tutta un’area sociale, anche perché il mio nome non è solo quello di Luca, ci sono tanti fratelli e sorelle che non vengono nemmeno ai concerti e se ne sbattono del rap, e si sentono coinvolti e mi chiedono chi sono questi Club Dogo, che vogliono? E’ per questo che parlavo in generale dei valori ai quali il mio nome si identifica. Tutto questo resterà nei nostri curriculum.

Ma ora io non voglio più pensare a queste cose come a un conflitto tra due gruppi. Anzi, non ci voglio proprio più pensare per un po’. Io lavoro per il bene della comunità. Non si torna indietro. Ognuno il suo. Ai fratelli che mi chiamano da tutta Roma e dall’Italia, dico state calmi. Trasformiamo questo accumulo di energia in arte. In discussione che ci fa crescere tutti.

L’hip-hop fu creato per questo. Come diceva Afrika Bambaataa: Peace!

Militant A

P.S.: Per quanto riguarda la questione concerto al Leoncavallo il 30 ottobre prossimo. Il Leoncavallo decide in maniera autonoma, noi non entriamo nelle loro scelte sulla programmazione musicale.

*Cantante dei ClubDogo leggi la sua risposta al primo intervento degli Assalti


GUE' PEQUENO RISPONDE A MILITANT A/XL VS DOGO
Cari amici
“rivoluzionari”, ecco la risposta del vostro "schiavo".
Sono appena tornato dal carcere di San Vittore dove i Club Dogo e altri rapper della Dogo Gang hanno tenuto un live per i detenuti. Così mi metto una stellina anche io...
Nel frattempo il blog di Militant A in cui si offende per essere stato mandato "affareinculo" in un mio rap ha fatto il giro di portali come Indymedia ecc. e ovviamente è stato pubblicato in simultanea sul sito della nostra rivista preferita, XL Di Repubblica.

Andiamo per ordine: mesi fa la nostra “malvagia” casa discografica multinazionale si mette d'accordo con XL (che fino ad allora ci aveva sempre "dissato") per dare uno spazio al gruppo. La redazione, evidentemente senza gli attributi per voler comprendere da sola l'universo-Dogo, pensa di utilizzare un traduttore, e quindi paga il nostro Militant che si "scomoda" per venire a farci un'intervista (di cui si possono facilmente ascoltare e vedere alcuni estratti digitando su Youtube le parole chiave assalti dogo intervista xl).
La versione pubblicata su carta, però, è ben diversa: la band viene "inquisita", le sue risposte vengono per la maggior parte omesse e il risultato è un quadretto infernale di un gruppo di drogati, sessisti, destrorsi e soprattutto corruttori di giovani.
Non che ci dispiaccia troppo, del resto la nostra attitudine è un pò maledetta, e per noi è meglio essere finiti con tre pagine su Playboy che avere una recensione come quella che abbiamo letta su XL...
Intendiamoci un cd può piacere o non piacere
e se un giornalista vuole stroncarci , ci sta...
Ma che un traduttore ci metta pure del suo...
Le critiche vengono fatte partire da una serie di demenziali ed ipocriti rumors di alcuni centri sociali anonimi contrariati dai nostri atteggiamenti e dall'abbigliamento firmato: un pò di parte come spunto, forse era il caso di sentire anche altre campane per raccogliere delle informazioni più complete!
Penso che le rime dei Dogo vadano ascoltate e vissute e non semplicemente sentite.
Tutta la merda di cui parliamo è esasperata perchè la realtà italiana odierna lo è.
Siamo controversi perchè il mondo è in contraddizione.
La cocaina è il fumo del 2000.
Ne scorre a fiumi OVUNQUE e anche negli ambienti alternativi…
Dite pure che non vi piacciamo, ma non metteteci in bocca frasi non nostre (gravi), visto che nella famigerata intervista ci vengono attribuite delle rime fasciste sulla strage del Circeo(!!).Cito: "In questo tipo di rap mi sembra ci sia un'assenza completa di responsabilità che riempie la testa di ragazzi di 13 anni. Si può scivolare fino ad evocare il massacro del Circeo( stupro e omicidio compiuto da neofascisti nel '75)" . Di cosa stai parlando Militant? non di rime dei Club Dogo!!!!
Abbiamo passato la vita andando a ballare negli squat e iniziato là la nostra carriera artistica, siamo cresciuti fortemente attaccati a certe realtà, e mi fa ridere che una giacca di Gucci o un paio di Nike disorientino e irritino così "l'opposizione". Tutti quelli che ci conoscono sanno da che parte stiamo,
E di come gestiamo in maniera assolutamente Alternativa la nostra storia e il nostro lavoro. E volutamente non uso il termine che a voi farebbe piacere “Autogestiamo".

Ho pubblicato sul mio nuovo mixtape (autoprodotto) un pezzo in cui cito in modo agro-dolce il grande Militant e la redazione di XL, un dissing nella più tipica tradizione hip-hop, in cui rappo del fatto che sia assurdo che una rivista alternativa ci faccia la morale (alla fine...it's only rap 'n roll), e che la stragrande maggioranza dei miei amici/ascoltatori non conosca minimamente l'intervistatore, con un paio di frecciate su ex musicisti ora giornalisti e su femministe un pò troppo severe.
Nessuna minaccia, aggressione e tono intimidatorio, soltanto un pò di spocchia e arroganza hip-hop, quello che in America chiamano "swagger".
Trovo davvero meschino, assurdo e fuoriluogo associarci al clima di omofobia(??!!) violenta degli ultimi fatti di cronaca italiana e farci passare per picchiatori e antigay, consigliando tra le righe al Leoncavallo di non chiamarci più a suonare, solo perchè la compilation è assemblata da Dj Harsh, promoter di eventi rap al Leo (probabilmente chi muove le critiche è più ferrato sull'attivismo in Val Di Susa e molto meno su dinamiche classiche dei prodotti hip-hop, come i cd mixati in questo caso).
Il nostro eroe dice di stare dalla parte dei più deboli, ma gli sfugge che nelle nostre liriche ce la siamo sempre presa con i più forti, coi potenti, con i politici, con i corrotti dalla bella faccia, con l'ipocrisia e la finzione del mondo dello spettacolo, e le "troie" sono solo le donne mercificate propagandate per anni dalla tv italiana, non tutte le ragazze.
Quando ho letto su XL "Una donna non può ascoltare i Dogo a meno di dimenticare di essere donna" pensavo di essere su Scherzi A Parte.
La tv-spazzatura, la mala-scuola, e la musica di merda fanno indubbiamente più male a un ragazzino di quanto gli possano fare i Club Dogo, che a quanto pare hanno però l'esclusiva nazionale sulla responsabilità di quel che dicono quando prendono un microfono.
Sono estraneo dall' idolatria di una certa old school italiana che trovo sopravvalutata, non ho nessuna divinità personale e nessun maestro.
Faccio il rapper, non l'opinionista, nè l'attivista, nè vengo pagato da un giornale per fare traduzioni simultanee.
Da sempre dico quello che voglio quando e come voglio.
Rappo le mie rime davanti a migliaia di ragazzi dal vivo, non le scrivo su un forum come la filastrocca incomprensibile che mi ha dedicato quel dj-macchietta anni '80 o su facebook come un altro ex-artista in disgrazia, che mi ha addirittura definito "non hip-hop", e che dopo essere fallito sotto una major vestito sgargiante su ritmi club con diamanti finti ora si riscopre underground purista e militante.
Ho sempre rispettato umanamente Militant e lo spessore della sua storia passata con gli Assalti, pur non essendone un gran conoscitore. Ho apprezzato quando nel 2003 mi telefonò personalmente per complimentarsi del nostro primo disco.
Ora sono deluso da tutto questo: perché questa indebita traduzione è il problema ,
perchè mi è sembrato di leggere le prediche da oratorio di Mc Frankie Di Gesù riguardo ai Truceklan, non a caso forse l'unica nuova realtà rap nazionale di dimensioni simili ai Dogo. Ho trovato triste l'ultimo capoverso in cui il nostro esalta il suo curriculum di alta moralità e impegno.
Penso che le vendite dei dischi, il riscontro di pubblico nei live, ma soprattutto il seguito "carnale" parlino più di quelle belle parole..
Non ho mai apprezzato il calcio e non me ne frega niente di fare squadre nè di fare lo "sborone" parlando dei sold-out e del fanatismo che insegue i Dogo facendone un fenomeno di costume quantomeno interessante. Noi non abbiamo la virtù e non vogliamo essere guide, ma posso assicurare al dubbioso Militant che sappiamo bene di cosa parliamo, che quello che facciamo è a nostro modo molto sociale, perchè rappresenta Realmente questa realtà e questa società, e nel bene e nel male, questi ragazzi. Se l'hip-hop è dare voce trasversalmente a tanti tipi di gente, i nostri concerti sono la prova che lo siamo.
Anche se abbiamo gli occhiali fashion e non rappiamo "piove governo ladro" con l'ipocrisia di molti.

Dopo il live nelle case circondariali per il terzo anno consecutivo, i Dogo parteciperanno a una campagna di sensibilizzazione dei giovanissimi alla prevenzione dell'HIV.
E se volete ci metteremo un'altra stellina..

Le proposte di Tremonti, No Global reazionario


Le ultimissime dichiarazioni del Ministro dell'Economia Giulio Tremonti fanno brillare all'improvviso gli strali stanchi di un dibattito stantio e polveroso. Non rallegriamoci troppo, resta una boutade che non può trovare altra eco che nella galassia smarrita e senza prospettive di una Sinistra già morta e sepolta. Verrebbe quasi da credere che altro non si tratti che di un amo gettato apposta ad un'opposizione inesistente per dargli la possibilità di dimostrare che qualche colpo, ancora lo sa battere.
Ecco allora i gialli della Cisl gongolare per le responsabili parole del ministro; Epifani, vecchio gigione che crede di saperla lunga, prendere la palla al balzo e proporre l'apertura immediata di un tavolo di concertazione "per risolvere la questione del precariato" (come se ne avessero i mezzi...); la panzer-Marcegaglia ringhiare contro ogni sussulto di un Lavoro che ogni giorno mette sotto i tacchi del suo comando; Brunetta, secondo il più classico gioco delle parti (lui rappresenta il "nuovo" di un Capitalismo che pretende di aver fatto per sempre i conti con una classe operaia organizzata politicamente), obiettare che la sua (di Tremonti) "è una soluzione del Novecento". Berlusconi, attento ad un consenso pubblico in progressiva via di marcescenza, assicurare che anche per lui il lavoro stabile è "un valore".
Anni di spietata guerra neo-liberista contro i proletari per tornare infine alla melensa retorica dei valori. Forse che la Crisi c'entra qualcosa?

Su tutti, il più onesto sembrerebbe proprio il ministro-secchione che, coerentemente a quanto già scritto in un libro di qualche anno fa, propone una risposta di chiusura neo-protezionistica alle sfide (e i contraccolpi) della globalizzazione capitalistica. Un ritorno ai 'bei tempi andati' in cui le sregolatezze della modernizzazione potevano ancora essere temperate dal buon uso sociale della Famiglia, come articolazione locale dello Stato, un po' sostentamento, molto controllo. Un No Global in salsa rétro.

Non c'è altra proposta nel Discorso Tremontiano. Ma non c'è nessuna alternativa all'altezza neanche nei bofonchiamenti sindacali e della Sinistra. Prima parlavamo di esca e di ami. Così crediamo vada inteso il senso di una polemica nei fatti inesistente, che serve soltanto a confondere le menti e i cuori di chi, spossessato di tutto, crede di risentire le parole buone di un Lessico Familiare.

Questo "dibattito" è completamente sballato. "Lucciole per lanterne" come si diceva una volta. E' tutto il quadro dei riferimenti che non tiene più. S'imprigiona (volutamente?) il confronto-scontro sul "Lavoro", trasformando questo, da rapporto sociale conflittuale (o necessità per il sostentamento) in Fine a sé stante. Quando invece è proprio la Civiltà del Lavoro che chiede di essere sorpassata. Cosa cavolo c'è ancora da produrre quando tra poco il Pianeta stesso non avrà più spazio per stoccare le merci in eccesso? Abbiamo forse bisogno di altre macchine, elettrodomestici.. etc...?
No, decisamente! La frontiera dello scontro è oggi tutta spostata tra la riappropriazione di tempi e spazi di vita è la macchina mortifera e onnivora del Capitale. Anche quando ci si batte contro dei licenziamenti, lo si fa per poter campare e respirare ancora un po', non perché quella fabbrica di merda e quel lavoro comandato (call-center, lavoro autonomo...) siano un Bene in sé (lo penseranno forse alcun sindacalisti, che quel lavoro non lo fanno!).

Il vespaio sollevato da Tremonti è un trucco da illusionisti. Lasciamo che a macerarsi siano gli stessi prestidigitatori di un ceto politico distante dai nostri bisogni. Reddito, ri-appropriazione, contro-potere, autonomia. Non sono altre le linee di sviluppo su cui costruire iniziativa, progetto ed accumulo di forze.

da Infoaut

Italia-Serbia, via le mine ma la ruggine resta


Aiuti per lo sminamento, sponsor per l'Europa e accordo Fiat Zastava. Ma per alcuni non basta per cancellare i ricordi dei bombardamenti

Matrimonio d'eccezione tra l'Italia e la Serbia. Il 12 ottobre scorso Roma ha donato a Belgrado materiale e apparecchiature militari destinate all'individuazione, alla rimozione e alla distruzione di ordigni inesplosi, per un valore complessivo di 600mila euro.

Cerimonia ufficiale. A consegnare l'equipaggiamento è stato l'addetto militare presso l'ambasciata d'Italia a Belgrado, generale Mauro De Vincentis, in una cerimonia all'aeroporto di Nis, nella Serbia meridionale.
Secondo le dichiarazioni del ministero degli Esteri italiano, ''questo gesto rappresenta il primo aiuto concreto alla Serbia da parte di un paese della Nato, volto a sanare le disastrose conseguenze dei bombardamenti aerei del 1999''. Gli stessi bombardamenti a cui partecipò l'Italia. Guerra a parte, le relazioni diplomatiche tra i due paesi vanno a gonfie vele. Con il rientro a Roma dell'ambasciatore Raskovic-Ivic e con le politiche 'occidentali' del nuovo governo serbo, guidato dal democratico Mirko Cvetkovic, Belgrado spinge per arrivare il prima possibile in Europa. Anche grazie all'Italia. A novembre, infatti, la Serbia firmerà una partnership strategica con il Bel Paese che la supporterà nella strada verso l'adesione alla Ue. Una special relationship che non è una novità. Dando uno sguardo al sito dell'Istituto del Commercio Estero italiano, infatti, l'elenco di 18 pagine di imprese tricolori presenti in Serbia fa pensare che il passato sia alle spalle. L'Italia, al terzo posto nell'interscambio con la Serbia (dopo Russia e Germania), in due anni ha firmato due protocolli d'intesa (nel 2008, tra i ministeri della Difesa di Italia e Serbia e tra il vice ministro allo Sviluppo economico con delega al commercio estero, Adolfo Urso e il ministro serbo dell'Economia e dello Sviluppo Regionale Mladjan Dinkic), e ha dato vita alla joint veinture Fiat-Zastava. Torino investe a Belgrado. ''Un'opportunità eccezionale''. Queste le parole che l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, usava per descrivere l'accordo. Precipitata allo 0 percento di crescita nel 2009 con un'inflazione tra il 9 e il 10 percento, la disoccupazione che supera il 20 percento e lo stipendio medio che va dai 200 ai 500 euro, la Serbia accetta, sorvolando i fatti del 1999, le scuse italiane accogliendone gli investimenti con gran entusiasmo. Lo striscione ''W la Fiat'', appeso ad un cavalcavia dell'autostrada, celebra l'evento. Grazie alle trecento imprese nate dall'accordo Fiat-Zastava, 350mila persone torneranno ad avere un lavoro.

E la parternship serba rappresenta un'occasione da non perdere, soprattutto per l'Italia. L'avvio della produzione di automobili in Serbia ''è un tassello fondamentale per lo sviluppo collettivo del gruppo Fiat e il più significativo in termini di potenziale: abbiamo aspettato un bel po' di tempo per trovare un paese che ci avrebbe ospitato'', ha ammesso il manager italiano. Si tratta di investimenti di ''circa 940 milioni di euro''. Per l'Italia, ''un'irripetibile opportunità, con particolare riferimento al settore industriale e commerciale ed alla presenza italiana in settori strategici (telecomunicazioni, infrastrutture, banche)''. Di più, raccogliendo investimenti, la Serbia offre all'Italia un'area franca, con tasse al minimo o nulle (si va dal 10 percento a scendere a seconda degli investimenti fino allo zero per gli utili reinvestiti), terreni gratis per le aziende, ma soprattutto la possibilità di esportare dalla Serbia senza alcun dazio doganale su un mercato da 800 milioni di clienti, Ue compresa. Da 4 a 5 mila euro per chi investe in zone svantaggiate da Kraguievac a Nis fino al Sud, tassazione al minimo, costo del lavoro molto basso e alta specializzazione dei lavoratori. Una grande occasione per l'Italia, che ora prova a ricambiare il favore donando a Belgrado materiale e apparecchiature militari destinate all'individuazione, alla rimozione e alla distruzione delle mine, eredità dei bombardamenti Nato, per un valore complessivo di 600mila euro.

Ma non è tutto oro quello che luccica. Mentre a Nis si aspetta di veder rimossi gli ordigni inesplosi, seduta davanti al Palazzo Vecchio della capitale, Mariana Galešević, studentessa di economia all'Università di Belgrado, racconta i grandi giochi di denaro e di potere. ''Nella primavera del 1999, l'obiettivo strategico dell'Alleanza era quello di concorrere al raggiungimento di una soluzione pacifica della crisi del Kosovo. Sì, a suon di bombardamenti. Quelli che contano poco, come me, devono accontentarsi di stare a guardare, di inveire.
Inveire perché tutti questi favori che ci fa l'Europa sono solo frutto dei rimorsi di aver condotto una guerra disastrosa. L'accordo con la Fiat è un accordo asimmetrico. Gioverà alla Serbia solo se verranno impiegati i lavoratori serbi e non quelli italiani». Per quanto riguarda l'ultima donazione, invece, secondo Mariana l'intesa Italia-Serbia non è un affare, ma la beffa del secolo. «Se non ci fosse stata la guerra non ci sarebbe stato neanche il bisogno di donare dei soldi per eliminare gli ordigni inesplosi. Ora la fanno passare come un gesto di solidarietà e cooperazione, ma la guerra l'hanno voluta loro. L'Italia si lava la coscienza, mentre la Serbia è costretta a ringraziare. Della serie, ''se state buoni forse otterrete lo status di paese candidato ed entrerete nella lista bianca di Schengen''. Mariana è arrabbiatissima. Stringe i pugni e cambia discorso mentre nel cielo sopra al Palazzo Vecchio volano palloncini rossi, blu, bianchi e verdi. ''I colori della bandiera italiana e serba'', dice. Forse, un modo per celebrare l'intesa tra i due paesi. Questa partneship perfetta.

di Giulia Cerino da PeaceReporter

Etiopia: sei milioni di persone soffrono la fame

Il governo di Addis Abeba, l'ong Oxfam e la Fao si appellano alla comunità internazionale

Una situazione drammatica: sono più di sei milioni gli etiopi che necessitano di un immediato sostegno alimentare. Lo ha denunciato lo stesso governo di Addis Abeba, chiedendo l'intervento della comunità internazionale.L'organizzazione non governativa Oxfam, che si batte contro la fame nel mondo, ha confermato che la situazione è simile a quella di 25 anni fa, quando una grave carestia uccise un milione di persone in Etiopia. Le cause, come conferma la Fao, l'organizzazione dell'Onu per la lotta alla fame, sono molteplici, non ultima la situazione politica del Paese che aggrava le condizioni di vita dei profughi.
Il problema chiave, però, in Etiopia e in tanti altri paesi africani, è la siccità che il riscaldamento globale del pianeta aggrava ogni giorno di più. Tutte le coltivazioni sono in crisi e Oxfam ha sollecitato l'immediato intervento della comunità internazionale.

da PeaceReporter

Le maschere di Alemanno


di Sandro Medici

Certo non sarà il primo, Alemanno, a prendersela con lavavetri, giocolieri, ambulanti, lucciole, così come bevitori serali, bivaccatori diurni e pittori notturni, insomma la grande schiera di “fastidiosi” che transitano in città – altri sindaci eroi l’hanno preceduto in questo nobile esercizio di pulizia sociale. Essere forti con i deboli e deboli con i forti, prima ancora che una scelta, sta diventando in politica una necessità.
Ma nel caso del sindaco di Roma non agisce solo quella pulsione razzista e perbenista che cerca (e facilmente trova) sintonie con un senso comune sempre più intollerante e gastrico. C’è anche il tentativo di nascondere l’affanno di un governo locale ormai in carica da un anno e mezzo che non sembra minimamente in grado di esprimere alcunché di sensato e concreto per la città e il suo futuro. Non che ci si aspettino grandi strategie o programmi strutturali da amministratori improvvisati e di scarso spessore, ma che una destra finalmente ascesa sul Campidoglio confezionasse per Roma un’impronta, una prospettiva, una visione, uno straccio di idea, questo sì che avrebbe avuto e dato senso politico: sia per chi aveva vinto le elezioni comunali sia (soprattutto) per chi le aveva perse.
Forse è per questa ragione che siamo ancora qui a meravigliarci di come sia stato possibile che la città sia finita in mani tanto mediocri, e in attesa di capire cosa succederà, come cambierà, dove si andrà a finire.
E lungo questa attesa imperversano le ambigue e ipocrite incursioni del sindaco Alemanno, che impugna la fiaccola insieme al movimento gay ma è contrario a tutelare per legge l’omosessualità, visita con gli studenti i campi di concentramento ma nelle scuole comunali ostacola ogni forma di multiculturalismo, annuncia politiche di integrazione ma perseguita i lavavetri. In una continua alternanza di maschere di scena sul palcoscenico della visibilità cittadina, peraltro recitata con discreta abilità e indubbio seguito popolare.
Non si tratta di stabilire quale sia il suo vero volto: lo conosciamo. Piuttosto, di valutare se e quanto il suo procedere rasoterra e sbrigativo continuerà a ricevere consenso. L’impoverimento culturale della politica, così come la debolezza della tenuta sociale, sono oggi il combinato disposto che favorisce il successo della destra. Una destra che infatti non si preoccupa più di tanto di mostrarsi adeguata e attrezzata. Piove e tira vento e si tagliano gli alberi, così come viene, all’ingrosso; ci sono i Mondiali di nuoto e allora si realizzano piscine, chissenefrega se abusive; aggrediscono gli omosessuali e si va a far visita al Gay village, così ci si mischia un po’ e diventiamo tutti democratici; ci si spazientisce per le insistenze dei lavavetri e allora cacciamoli tutti, tranne i meritevoli che saranno assistiti.
C’è in questo modo di fare un saporaccio di meschina furbizia: alla lunga si svelerà in tutto il suo cinismo.
Solo che intanto il destino di tutti quei povericristi che raccoglievano i nostri spiccioli ai semafori sarà segnato da un’ancor più drammatica miseria: una condizione che spingerà molti a spacciare, rubare o peggio. La città ne subirà conseguenze amare, e ci sentiremo tutti più insicuri. Che è esattamente ciò che la destra desidera per poter continuare a eccitarsi e spargere paura, e così dispiegare le sue politiche militaresche.

da IlManifesto


la manipolazione al potere

Nel beffardo mondo dei media e della politica - che ormai tendenzialmente coincidono - accade che il Comune di Roma, sotto l'amministrazione di Gianni Alemanno, attui una politica tutta legge e ordine, con misure pesantissime verso migranti e minoranze, e al tempo stesso sottoscriva con un signor ministro "un protocollo d'intesa contro le discriminazioni".

Non è schizofrenia ma cosciente manipolazione. Roma sotto Alemanno si è distinta per la dichiarazione di emergenza rom, lo sgombero di campi rom definiti abusivi, la creazione di campi rom ad alto tasso di segregazione (con un regolamento militaresco per la vita quotidiana delle persone che vi sono confinate) e poi l'ordinanza contro i lavavetri, i giocolieri e altre pesone che nella metropoli cercano di cavarsela come meglio possono.

L'idea che fa da sottofondo a queste misure è che i "bravi cittadini" - dotati di reddito sufficiente, autoctoni, integrati - devono restare separati da tutti quegli altri - marginali, diversi, poveri - indicati dal potere come una minaccia. E' una visione inumana e aberrante, che una volta portata alle estreme conseguenze conduce a forme di apartheid legalizzato.

Nel frattempo si firma il patto contro le discriminazioni, con l'amministrazione che si propone come pacificatrice e punto di mediazione. Questo tragico gioco è condotto sulla pelle delle persone e fa specie che questa operazione, gravissima sul piano culturale, sia compiuta nell'indifferenza generale, con un consenso largo nel mondo politico: a destra per la natura autoritaria delle forze politiche che ne fanno parte, a sinistra per la lunga coda di paglia di chi inventò e sostenne, due anni fa, l'ordinanza fiorentina sui lavavetri, oggi imitata da Alemanno.

Le campagne sulla sicurezza hanno travolto gli argini morali e politici di una cultura - cattolica e di sinistra - che un tempo affondava le sue radici nell'idea dei diritti universali, dell'uguaglianza fra le perosne, e della solidarietà verso i più deboli. Siamo alla caporetto etica e culturale e la falsificazione avanza.

da Altreconomie

Solo un'infrazione? Novità su Frapporti


di Cinzia Gubbini

Proprio in queste ore il comitato "amici e famigliari di Stefano Frapporti" scende in piazza a Rovereto a tre mesi dalla sua morte. Un decesso ancora avvolto nel mistero, e sul quale si attendono le conclusioni delle indagini del pm De Angelis. Stefano è morto in carcere la notte del 21 luglio scorso. Era entrato in cella poche ore prima, fermato in strada da due carabinieri e accusato di detenzione di stupefacenti in base alla legge Fini-Giovanardi. Richiuso alle 22,30, alle 24 i secondini lo hanno trovato impiccato alla trave di fronte al bagno. Si è tolto la vita utilizzando il laccio dei pantaloni della tuta. Ma su tutta la vienda sin dall'inizio si sono addensati dubbi di ogni sorta. Stefano Frapporti, detto Cabana, era infatti molto conosciuto in città. Forse, dicono i suoi amici, poteva farsi qualche spinello. Ma di sicuro non era uno spacciatore. Lo si ricorda invece come un tipo più che tranquillo, molto fragile. Forse proprio questa fragilità lo ha spinto al suicidio di fronta a una storia kafkiana. E proprio negli ultimi giorni sarebbero emerse dele novità sul suo caso. Tre testimoni oculati ribalterebbero la versione data dai due carabinieri sul fermo di Frapporti. Secondo quanto verbalizzato dai militari, infatti, quel pomeriggio erano in servizio di "osservazione, controllo e pedinamento" nei pressi del bar Bibendum di Rovereto, in cui si sospettava essere presente un giro di spaccio. Verso le 18 vedono avvicinarsi al bar, in bicicletta "a velocità sostenuta", un uomo che ritengono essere uno spacciatore (non viene specificato il perché). Per questo lo fermano, lo perquisiscono e gli pongono alcune domande. Lui appare "confuso e tremolante", e confessa di avere un po' di hashisc, sufficiente per confezinare due spinelli, a casa sua. Scatta quindi una perquisizione domiciliare, durante la quale i due militari invece di due spinelli trovano 100 grammi di fumo. Da qui scatta l'arresto. E la morte di Stefano. Ma ora i testimoni oculari racconterebbero tutta un'altra versione sulla parte centrale di questa storia, e cioè sul fermo. Davvero i militari hanno fermato Frapporti convinti che fosse uno spacciatore? Niente affatto, dicono le tre persone che alle 18 del 21 luglio si trovavano davanti al Bibendum. Loro hanno visto un'auto civile arrivare da un lato della strada (era quella dei carabinieri) e un uomo arrivare dall'altra parte in bici (era Stefano). Ad un certo punto un uomo scende dalla mcchina (era uno dei militari) e ferma Stefano, rimproverandogli di averlo visto pochi minuti prima passare con il rosso, e anche di aver tagliato la strada all'auto. Secondo i testimoni non è stato né intimato l'alt, né c'è stato alcun inseguimento. Come invece risulta dai verbali dei carabinieri. Il fermo, insomma, sarebbe avvenuto in ben altre circostanze. Il resto - dalla confessione di Stefano, agli stupefacenti trovati in casa - è un pezzo della storia su cui occorre ancora fare luce. Certo, se quanto raccontato dai tre testimoni - le cui versioni coinciderebbero - fosse vero, c'è da chiedersi come mai i carabinieri abbiano deciso di raccontare una versione così distante dalla realtà. Intanto, però, Cabana è morto. E i suoi amici e parenti vogliono verità.

da IlManifesto