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martedì 24 novembre 2009

Ugento: Vendola inaugura impianto di biostabilizzazione rifiuti

Verrà inaugurato Mercoledi’ 25 Novembre alle ore 11,00 il nuovo impianto complesso di selezione e biostabilizzazione dei rifiuti sito in Contrada Burgesi nel Comune di Ugento, al servizio del bacino di utenza dell’ATO Le3. Alla cerimonia interverranno il Presidente della Regione Puglia e Commissario Delegato per l’emergenza ambientale in Puglia Nichi Vendola e l’Assessore Regionale all’Ecologia Onofrio Introna.La realizzazione dell’impianto, avviato a regime lo scorso 9 Novembre, assicura oggi una nuova prospettiva di gestione dei rifiuti solidi urbani indifferenziati e rappresenta un importante traguardo per l’intera comunità del basso Salento. All’inaugurazione sono stati invitati il Presidente della Provincia di Lecce, il Presidente e i Sindaci dei Comuni dell’ATO Le3, il Prefetto di Lecce e i vertici dell’ARPA.

da GrandeSalento

Taranto, le dichiarazioni choc di Riva - "I morti di tumore sono un'invenzione"


La battuta in un'intervista a una televisione locale. Gli ambientalisti: "Ora deve chiedere scusa". Il patron dell'Ilva se la prende con i giornalisti. Gli ambientalisti: deve chiedere scusa

di Giuliano Foschini
Inutili le belle parole durante i tavoli con le istituzioni. Inutili le aperture di credito nei confronti delle associazioni ambientaliste e della politica. Emilio Riva ha sintetizzato in poche parole il suo pensiero sulla situazione di Taranto: "Il dibattito sui tumori in questa città - dice il patron dell'Ilva - è completamente inventato". La frase è dettata da Riva al giornalista Luigi Abbate di Bs Television, al termine della conferenza stampa che l'azienda ha tenuto sull'ambientalizzazione nei giorni scorsi. Appena conclusa la dichiarazione, si è avventato sul giornalista il responsabile per i rapporti istituzionali dell'Ilva, Girolamo Archinà, che ha strappato dalle mani del reporter il microfono e lo ha portato via. Le telecamere hanno però ripreso tutto. Ieri il filmato è finito su You Tube scatenando l'ira degli ambientalisti.


Da Alessandro Marescotti di Peacelink è arrivato il primo, durissimo, commento: "Di fronte a questi episodi - dice - la nostra associazione ritira ogni credito alle aperture di facciata della dirigenza Ilva al dialogo con le associazioni ambientaliste e con la società civile". Durissima anche Legambiente che con il presidente regionale, Francesco Tarantini e il direttore nazionale, Sebastiano Venneri, invita Riva a "chiedere immediatamente scusa alla gente di Taranto. Una tale arroganza non è più sopportabile". Sdegno tra la gente anche sui social network e nei forum.
Intanto prosegue l'organizzazione per la grande manifestazione del 29 novembre.

da LaRepubblicaBari

Marcinkus incontrava Emanuela Orlandi a Torvajanica


«Marcikus venne a trovare la Orlandi nella casa di Torvajanica. Io sentii le urla di Emanuela ma De Pedis mi disse di farmi gli affari miei...». Sabrina Minardi torna ad accusare l’alto prelato, ex presidente dello Ior, e rivela anche un’altra delle prigioni dove la ragazza rapita il 23 giugno del 1983 nel centro di Roma venne tenuta segregata: una casa al mare, la stessa dove venne poi uccisa, chiusa in un sacco e gettata in una betoniera. Un racconto drammatico che conferma ancora una volta la tesi della donna secondo la quale Emanuela sarebbe stata sequestrata per ragioni sessuali.La Minardi ha raccontato tutto in una intervista a Rai News 24. «Io stessa insieme a De Pedis e Sergio portai la ragazza nella casa al mare. Doveva restare solo un giorno ma è rimasta 15 notti assistita da una zia di De Pedis, Adelaide». L’ex donna di De Pedis che nei giorni scorsi è stata nuovamente ascoltata dalla Procura dice anche di aver sentito la voce di tale Mario, l’uomo che chiamò a casa Orlandi. «L'ho riconosciuto - ha spiegato - : ha la mia età, era ricco di famiglia. Un grande amico di Renatino, sono certa della sua identità». Non è la prima volta che la supertestimone chiama in causa monsignor Marcinkus. Già nella prima deposizione la donna aveva raccontato di aver portato più volte alcune ragazze in un appartamento di via di Porta Angelica dove erano messe a disposizione del prelato. Ha poi raccontato di aver accompagnato lei stessa Emanuela ad un appuntamento in Vaticano e che proprio in quell’occasione, vedendo questa ragazza un po’ su di giri, le aveva domandato il nome e lei, candidamente, aveva risposto Emanuela.

Sabrina Minardi ha mantenuto per anni questo segreto. Perché così le aveva detto di fare il suo uomo Renatino De Pedis («Se dimentichi quello che hai visto non ti succederà nulla»), sia per le minacce di incolumità alla figlia. Per trent’anni ha tenuto nascosto di sapere dove era segregata la ragazza. E anche quella frase pronunciata da Renatino che due anni fa ha troncato ogni speranza della famiglia: «Vedi quei due sacchi neri? Dentro c’è Emanuela».

La Procura le crede? Sembra proprio di sì. Soprattutto adesso che alcune incongruenze, date confuse, fatti che non riusciva a collocare bene nel tempo, sono scomparsi. Sabrina Minardi ha riconosciuto il fantomatico Mario e il riconoscimento ha avuto un riscontro. I magistrati sono riusciti ad ricostruire l’identità di tre sequestratori di Emanuela Orlandi. Uno di loro è il biondino che fece salire Emanuela nella Bmw grigia parcheggiata davanti al Senato. Un gregario della banda della Magliana, non un personaggio di primissimo piano, ma uno che conosceva bene Enrico De Pedis «Renatino», e i suoi segreti. Il suo curriculum racconta di rapine, estorsioni, ma mai di condanne per omicidi tant'è che ora è libero. Sarebbe questo l'identikit del telefonista che spiegò di chiamarsi Mario e che chiamò a casa di Emanuela Orlandi il 28 giugno del 1983, sei giorni dopo la scomparsa della figlia quindicenne del postino personale di papa Wojtyla, commesso della segreteria vaticana.

da Indymedia

Perché l’Africa scompare dai giornali


“Ho cominciato molte delle mie lezioni criticando la copertura del continente africano da parte del New York Times“, afferma il blogger statunitense Ethan Zuckerman, che sul suo blog My heart’s in Accra analizza l’atteggiamento della stampa occidentale rispetto all’Africa.

“Le notizie che riguardano il Giappone, per esempio, sono 8-10 volte di più di quelle che riguardano la Nigeria, il che è incredibile se si pensa alla grandezza del paese e alla sua popolazione. E il New York Times è in buona compagnia perché tutti i giornali statunitensi hanno la stessa politica”, continua Zuckerman.

Esperto di nuove tecnologie, per molto tempo Zuckerman si è chiesto come mai sui giornali statunitensi non ci fosse attenzione per i paesi in via di sviluppo: “Pensavo che la mancanza d’informazione provocasse delle pesanti conseguenze sui paesi in via di sviluppo: se gli statunitensi non sanno niente del boom economico in Ghana, non investiranno in Ghana e non aiuteranno il paese a svilupparsi. Ma un paio d’anni fa ho capito che è soprattutto un problema di domanda”. I giornalisti vorrebbero parlare di più di Africa, ma i direttori non sono molto sicuri che i lettori vogliano davvero notizie sull’Africa, e nell’incertezza non lasciano passare molti articoli che riguardano questa parte di mondo.

A questo possono servire i siti di social networking come Facebook e Twitter. “Creare un gruppo su Facebook oppure lanciare un tag di Twitter può aiutare a far circolare alcune questioni e renderle interessanti. Questa è la maggiore utilità di questo tipo di azioni”, continua Zuckerman. “L’efficacia di queste azioni in rete non è tanto un cambiamento diretto a livello politico, quanto la costruzione di una coscienza e una conoscenza diffusa che sono un punto di partenza fondamentale”, scrive Zuckerman.

Anche se molti, come Evgeny Morozov, pensano che l’attivismo online non sia altro che slacktivism e cioè un modo simbolico e velleitario di seguire una causa senza nessun impegno e senza conseguenze, Zuckerman difende l’attivismo della rete e porta a sostegno della sua tesi numerosi esempi. Come il caso delle proteste in Iran nel giugno del 2009, a cui Twitter ha fatto da eccezionale cassa di risonanza.

da Internazionale

Chiapas tra "rumores" e realtà


Il 17 novembre l'Ezln ha compiuto 26 anni dall'inizio del suo cammino e sono passati circa 16 anni da quando ha fatto la sua apparizione pubblica.

Una storia lunga e complessa, una realtà che oggi costituisce, con il laboratorio quotidiano delle comunità zapatiste, una delle esperienze più significative di conflitto e costruzione di indipendenza.

In queste settimane in Chiapas hanno iniziato a circolare "voci", "rumores" come si dice in messicano, che si sono trasformate in verità raccontate attraverso i mezzi di comunicazione ufficiale su un "attacco", "iniziativa esplosiva", "azione concertata" che "gruppi vari, zapatisti, etc .. con l'appoggio di strutture cattoliche e dei diritti umani" avrebbero avuto intenzione di effettuare nei giorni dell'inizio dei festeggiamenti per il centenario della rivoluzione messicana.
Questa opera di disinformazione è stata immediatamente segnalata da il quotidiano La Jornada attraverso una serie di articoli di Hermann Bellinghausen.

Contemporaneamente dalle Giunte del Buongoverno zapatista giungono precise denunce della costante provocazione contro le comunità autonome e in resistenza.

In un momento in cui ufficialmente l'EZLN è in silenzio da un lato, come è successo tante volte, gli apparati di potere messicano mestano nel torbido per legittimare un generale clima di sostegno alla militarizzazione generale del Chiapas dall'altro come confermano le denunce delle Giunte zapatiste episodi concreti e reali materializzano una sorte di "guerra costante" nell'intera zona.

Da tempo è questo insieme di fatti concreti e voci infondate che non solo in Chiapas caratterizzano la scena messicana.

Ma in Chiapas una cosa è certa: gli zapatisti continuano il loro cammino.


Rumori in Chiapas

di Gloria Munoz Ramirez
Nelle settimane recenti una ondata di “rumori” ha invaso lo stato del sud est messicano, nel quale 26 anni fa si impiantò la prima cellula di quello che un decennio seguente è stato conosciuto come EZLN.

Nei circa 16 anni di lotta pubblica, altri hanno approfittato dei momenti di silenzio della comandancia general zapatista per propagandare versioni di ogni tipo, come comunicati apocrifi, manifesti con firme collettive che li includevano, annunci di un prossimo attacco zapatista o piani militari mirati a decapitarli.

La politica dei “rumori” non è stata inaugurata ora in Chiapas, si è vista prima ed anche ora: a chi giovano i “rumori” di una possibile iniziativa militare in Chiapas? chi ne trae beneficio? dove iniziano i “rumori”? Chi li prepara e perchè?

Quando i “rumori” si riferiscono a possibili sollevamenti di gruppi armtai, anche con sigle differenti dall'EZLN, la pressione militare si intensifica sulle comunità zapatiste, si rafforzano i pattugliamenti e si creano nuovi posti di controllo. In questo contesto si potrebbe pensare che le versioni che circolano sono propaganda di alcune sfere del potere per giustificare la pressione che di fatto si esercita sulle comunità zapatiste.

Da che parte possono venire? Dall'Esercito? Dal governo statale? Dal'Esecutivo? Sono gli stessi, rappresentano gli stessi interessi o ognuno ha i suoi scopi?

La cosa certa è che al di là dei “rumori” in Chiapas c'è una guerra che dura da oltre tre lustri e che di questa situazione, in momenti differenti, hanno cercato di trarre profitto i governi di turno, l'Esercito, le multinazionali, la Chiesa e alcune ONG.

Quando la parola dell'EZLN è assente, il vuoto si riempe non solo di “rumori” ma anche di iniziative e strategie di ogni tipo che seminano confusione nei settori che realmente sono interessanti a sapere quello che sta succedendo.

Lo scorso 17 novembre l'EZLN ha compiuto 26 anni senza festeggiamenti pubblici e, a quanto pare, neanche privati.

Intanto ci sono cose che stanno avvenendo: nei giorni scorsi le Giunte del Buongoverno di La Garrucha, Roberto Barrios e Oventic hanno denunciato le diverse provocazioni che provengono da gruppi paramilitari coordinati con le forze armate e i governi locali.

Da parte loro il gruppo civile Las Abejas, de Acteal, ha denunciato che continuano ad essere operanti gruppi paramiliatri nella zona Los Altos così come organismi dei diritti umani hanno denunciato le provocazioni che subiscono.

Nonostante la tensione e la mancanza di festeggiamenti, nelle comunità il lavoro autonomo non si ferma.

Sembra che si vivano due tempi.


Messico - Chiapas Infondata la voce di un "estallido" in Chiapas

Un grande operativo di controllo è stato messo in atto dopo le voci messe in circolazione di un azione durante l'anniversario della Rivoluzione Messicana

di Hermann Bellinghauser
E' risultato infondato il nervosismo del governo attorno al 99 anniversario della Revolución Mexicana, che attraverso informazioni sulla stampa ufficiale e notiziari radio aveva generato nei giorni scorsi il timore di una iniziativa di gruppi non controllati.

Tanto erano ufficiali le voci che hanno dato il via a fermi, perquisizioni, interrogatori e accuse pubbliche contro dirigenti contadini, comunità, religiosi di zone indigene e difensori dei diritti umani. Voci filtrate, dichiarazioni di funzionari e note – che risultavano alimentate da un documento confidenziale della procura statale (vedi La Jornada 14 novembre) coincidevano nel fatto che la data probabile di questa azione, denominata 20 e 10, sarebbe stata questo venerdì.

In coincidenza con questa previsione la Secretaría de Seguridad y Protección Ciudadana (SSPC) ha stabilito a partire da una certa ora di oggi un ampio ed inusuale “operativo de seguridad nella geografía chiapaneca per proteggere la pace sociale e l'armonia tra la popolazione durante la commemorazione della Rivoluzione Messicana”.

Il piano aveva come obiettivo quello di proteggere le persone che dovevano assistere alla celebrazione nei municipi, salavguardare l'integrità fisica e la proprietà delle persone, evitare fatti spiacevoli.

La SSPC è entrata nei dettagli. Le strategie comprenono patugliaenti, vigilanza, presenza ni luoghi pubblici degli atti. Il tutto alludendo agli atti pubblici e alle mobilitazioni annunciate da organizzazioni come MOCRI e OCEZ-CNPA, che non si capisce perchè avrebbero dovuto essere violenti. ue no tenían por qué ser violentas.

Aql dispositivo di controllo organizzato hanno pèartecipato 4.700 agenti della Policías estatales Preventiva, Fronteriza, de Caminos, Auxiliar y de Tránsito, e gruppi speciali della SSPC.

Adirittura alcuni lavoratori del Municipio di San Cristóbal hanno riferito che nei giorni scorsi è stato loro ordinato di salvare i dati dei computer perchè c'era la possibilità che gruppi sovversivi prendessero il palazzo municipale.

Con questi ingredienti di base non è difficile capire come le voci incontrollate abbiano iniziato a giirare tra la popolazione.

Molta gente si diceva convinta che qualcosa sarebbe successo. All'inizio della giornata una fonte del governo ha iniziato a dire che si erano avvistati degli incappucciati nella zona nord della città, un organizzazione legata ad ambienti ufficiali ha assicurato che “gli zapatisti prenderanno le installazioni di Carranza, Aric e Abejas prenderanno le strade a San Cristóbal, Comitán, Ocosingo, Altamirano, Polhó e Oventic, e dopo Tuxtla”.

Iente di questo è successo, però la premonizione era nell'aria e scritta nei giornali stampati.

Tratto da:
La Jornada 22 novembre

da GlobalPoject

Le mafie all'ombra del Duomo


di Lorenzo Frigerio
In un saggio di “Aggiornamenti Sociali” la storia delle mafie in Lombardia.
In Lombardia, in questi ultimi mesi, si rilancia da più parti e con toni sempre più ansiosi l’allarme mafie, in considerazione del naturale interesse delle cosche per le ingenti risorse previste per la realizzazione del prossimo Expo 2015. Uomini politici e opinion leader si dicono seriamente preoccupati della possibilità che le mafie si infiltrino negli appalti miliardari presto al via. Del resto, è ormai stato sancito in diverse sedi processuali del nostro paese il dato che individua uno dei business maggiori delle mafie proprio negli appalti pubblici.
Tuttavia, nel gran polverone alzato dai media, a molti sfugge quella che è invece una drammatica realtà: le organizzazioni mafiose sono presenti da molti decenni a Milano e in Lombardia. A partire cioè da quando l’istituto del soggiorno obbligato portò molti boss di primaria grandezza e manovalanza criminale nelle regioni del centro e del nord, in particolare in Lombardia. La presunzione che i mafiosi, lontani dai loro luoghi di origine, potessero essere portati a più miti consigli e cambiare vita, si rivelò quanto mai fallace e perniciosa nel suo divenire.

Infatti, a partire da Milano e dal suo hinterland, gli uomini delle mafie siciliana e calabrese seppero prima costruire una fitta rete di alleanze con esponenti criminali già operativi in città e poi consolidare i loro business. Dalla stagione dei numerosi sequestri di persona, nacquero importanti opportunità per moltiplicare il denaro dei riscatti: il traffico di sostanze stupefacenti su tutti gli altri, ma anche il contrabbando di preziosi e di armi in anni lontani e, ai giorni nostri, la tratta degli esseri umani e il traffico di rifiuti, compresi quelli speciali.

Nelle pagine di un saggio pubblicato da Aggiornamenti Sociali, il mensile italiano della Compagnia di Gesù, si ricostruiscono decenni e decenni di pericolosa sottovalutazione da parte dell’opinione pubblica, durante i quali le cosche hanno potuto prosperare e aumentare il loro peso specifico a Milano prima e poi nel resto della Lombardia. Così la rivista dei Gesuiti presenta lo studio pubblicato nel numero di novembre: “Smentendo superficiali stereotipi, le organizzazioni criminali di stampo mafioso si mostrano ben radicate sul territorio lombardo da almeno cinquant'anni; la loro presenza alterna fasi di maggiore visibilità a livello di fatti di sangue a periodi in cui le armi tacciono, sulla base di una strategia di infiltrazione silenziosa nel tessuto dell'economia e della società. Molte inchieste, anche recentissime, indicano che a Milano non manca nulla: affari nel settore immobiliare, stupefacenti, tratta di esseri umani, traffico di armi e di rifiuti. E i capitali messi in moto dall'Expo 2015 rischiano di essere una redditizia opportunità di consolidamento”.

A ragion veduta si parla di consolidamento della presenza mafiosa e non di infiltrazione possibile: il primo rischio che oggi corre la regione motore economico del nostro paese è quello di non comprendere la portata di un fenomeno quale quello mafioso che non lascia troppi spazi di interlocuzione. Quando siamo ammalati, la prima cosa da fare sarebbe riconoscere di essere ammalati; solo così si può decidere di ricorrere al medico e di curarsi.

In Lombardia e a Milano, invece, si continua ostinatamente a proclamarsi immuni dalla presenza mafiosa; vuoi perché lo si è convinti davvero, per ingenuità o sottovalutazione; vuoi perché non si vuole ammettere di avere il problema, in quanto sarebbero chiamati in causa i meccanismi della politica, della finanza e dell’economia.

Tocca alla società civile farsi sentire, perché solo prendendo coscienza del ruolo delle cosche in città e nella regione si può avviare la stagione del risanamento.

Tratto da: liberainformazione.org

da AntimafiaDuemila

InfoStadio - news dalle curve


DASPO IN ARRIVO PER I GRIFONI

Momenti di tensione e qualche tafferuglio poco prima delle 19 alla stazione ferroviaria di Livorno dove un gruppo dei circa 400 ultrà genoani, scortato dalla polizia, era in attesa di salire sul treno che li avrebbe riportati a Genova, ha tentato di salire sul convoglio senza pagare il biglietto.

Sono scoppiati disordini e due ferrovieri e due poliziotti sono rimasti lievemente contusi nei tafferugli. Dopo alcuni minuti di tensione, la polizia ha riportato la calma e, quando tutti i tifosi avevano acquistato il biglietto del treno, ha scortato gli ultrà a bordo del convoglio che è partito.Ora, la polizia visionerà le immagini delle telecamere di sicurezza della stazione e i filmati girati dalla polizia scientifica per individuare e denunciare i responsabili dei disordini.

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SIENA:CORTEO TIFOSI CONTRO SOCIETA'

Circa 800 tifosi del Siena hanno sfilato in corteo nelle vie del centro per contestare il presidente Giovanni Lombardi Stronati. I sostenitori bianconeri hanno rivolto un appello alle istituzioni cittadine per trovare un'alternativa alla proprieta', considerata inadeguata e incapace di garantire la permanenza in A. I tifosi hanno innalzato striscioni,tra i quali vi era una citazione di un verso della Divina Commedia:'Ricordati di me che son la Robur, Siena mi fe' disfecemi Stronati'.

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EGITTO-ALGERIA LA GUERRA DEL PALLONE

No, non cala la tensione. Anzi, sembra essersi rinfocolata quando tutto sembrava finito, gli algerini potevano godersi il trionfo per la qualificazione ai Mondiali e agli egiziani non restava che rassegnarsi alla sconfitta. E invece tutto tutto si è riacceso, ieri con il ritito dell'ambasciatore ad Algeri da parte del governo algerino, e tra ieri notte e oggi con la discesa di migliaia di tifosi egiziani nelle strade di Zamalek, il quartiere del Cairo dove ha sede l'ambasciata algerina. E quegli atteggiamenti aggressivi mostrati almeno finora principalmente dagli algerini sono venuti fuori anche tra gli egiziani. Tanto che questa notte a Zamalek si sono viste volare pietre e bottiglie infiammabili, rompere vetrine e distruggere automobili: bilancio finale, 35 feriti tra agenti e dimostranti. Stamani il quartiere, uno dei più vivaci del centro cittadino, era semideserto e contava le ferite, ma non era finita. Subito dopo la preghiera altre folle di manifestati si sono riversati nelle strade, lanciando slogan e sventolando bandiere. 'Misr, Misr' urlavano, il nome arabo dell'Egitto. E anche dalle autoradio dei tassisti, generalmente sintonizzate sulla musica leggera o programmi religiosi, si levavano canzoni patriottiche. Si sa che che non è solo il calcio in questione, in questa duello tra i due Paesi, ma anche la patria. Ne parlavano stamani i giornali governativi, con Alaa Mubarak, uno dei due figli del presidente, a dire che l'Egitto «ha sopportato abbastanza», ed i legami di fratellanza araba «vanno rispettati solo se anche gli altri lo fanno». Gli incidenti tra tifoserie, osservava da parte sua l'editorialista Ibrahim Issa sull'indipendente Al Dostur, hanno l'effetto di «spingere i popoli tra le braccia dei governanti dei due paesi». Ma di patria ha parlato da Dubai anche il grande imam dell'Egitto Qaradawi, per invitare la «nazione araba» ad abbandonare le lotte intestine. E un invito alla ragione è giunto anche, tramite l'Afp, dal segretario della Lega Araba Amr Moussa.

Ma le armi sono ancora tutt'altro che deposte anche sul fronte diplomatico. E se il governo algerino ha convocato l'ambasciatore del Cairo per lamentare l'«escalation» della campagna mediatica egiziana, il ministro degli esteri d'Egitto ha anche oggi protestato con il suo omologo per le aggressioni. Perfino gli artisti hanno detto la loro: il presidente del sindacato di quelli egiziani ha detto che nuove cooperazioni con l'Algeria «non sono benvenute» ed il presidente dei musicisti ha detto che nessun andrà in quel Paese.

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I SIMBOLI VIETATI

di FULVIO BIANCHI

Michel Platini dà battaglia su due fronti: il fair play finanziario e il razzismo. Il n.1 dell'Uefa non tollera i "buu" negli stadi, i simboli di discriminazione razziale. Tanto da aver emanato norme durissime: l'arbitro infatti nelle Coppe può anche sospendere la partita in caso di cori, o simboli, o striscioni razzisti. Cosa che in Italia non è possibile: da noi la procedura prevede che l'ultima parola, prima dello stop alla partita, tocchi al funzionario di polizia (così è stato deciso pere volere del Viminale).

In Uefa sono previste sanzioni durissime, dalle porte chiuse alla sconfitta a tavolino. Tanto che il massimo organismo europeo, in collaborazione con il "Fare" (Guarda i simboli vietati) ha fatto avere un elenco a tutti i club che partecipano alle Coppe, e per conoscenza anche alle Federazioni europee. In questo elenco ci sono tutti i simboli razzisti che non possono assolutamente essere portati in uno stadio: una lista lunga, ma c'è da dire che soprattutto nell'Est Europeo ci sono segnali preoccupanti. Antisemitismo, razzismo, simboli che ricordano le Ss. Succede in Croazia, Polonia, Bulgaria, Romania, Russia, eccetera. Anche, ma raramente, in Germania.

In Italia, dopo il caso Raciti, la situazione è migliorata: non si vedono più svastiche, croci celtiche, striscioni che inneggiano ai forni o alle foibe. Un campionario vergognoso che sino a pochi anni si vedeva in alcune curve. Ora massima attenzione: non sono consentiti simboli nemmeno di partiti politici. Per gli striscioni bisogna inoltrare domanda 7 giorni prima della partita, mediante fax o email da inviare alla questura. "Analoga disciplina dovrà essere applicata per le bandiere, fatte salve quelle riportanti solo i colori sociali della propria squadra e quelle degli Stati rappresentati in campo", come spiega la determinazione dell'Osservatorio (8 marzo 2007). Quindi, teoricamente a Udine non si potrebbe portare allo stadio nemmeno la bandiera del Friuli: ma per fortuna, con buon senso, viene consentita. Con buon senso, si potrebbe riaprire anche agli striscioni, soprattutto quelli ironici: basterebbe un controllo prima della partita ai cancelli dello stadio. Intanto si tenta di porre riparo all'articolo 9 del dl 8 febbraio 2007 n.8, "in materia di accesso agli stadi" deciso dall'ex ministro Giuliano Amato. Articolo contestato dai tifosi, e criticato anche dallo stesso ministro Bobo Maroni. Ora se ne occupa la Commisione affari costituzionali del Senato. Il ddl, presentato dal senatore Domenico Benedetti Valentini e sottoscritto da altri quattro senatori del Pdl (Bevilacqua, Mugnai, Augello e Fasano) prevede che il divieto di ottenere titoli di accesso agli stadi (biglietti e tessere del tifoso) "decada quando non è più in essere la diffida amministrativa subita in passato (il Daspo, ndr) e quando, in caso di condanna, siano trascorsi cinque anni dal passaggio in giudicato". "In sostanza - spiega Benedetti Valentini - si conferma la linea di rigore nella prevenzione contro la violenza nelle manifestazioni sportive, ma si ripristina il diritto costituzionale dei singoli, che non possono essere sanzionati 'a vità quando abbiano ormai scontato il tempo di diffida o di presunzione di pericolosità".

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NO ALLA DIFFIDA A VITA

Di R.Stracca

No alla diffida vita, no a quello che viene definito un "mostro giuridico". E' la di modifica dell'articolo 9 della legge Amato, firmata dai deputati del Pdl Claudio Barbaro e Paola Frassinetti. L'articolo 9 prevede infatti che chi ha ricevuto un Daspo, il divieto di accesso alle manifestazioni sportive, non possa acquistare biglietti. O titoli equiparabili, come la tessera del tifoso. Per sempre. Anche quando si è finito di scontare la diffida.

La proposta Barbaro-Frassinetti specifica che il Daspo deve essere «in atto». Quando non lo è più, il tifoso può tornare a fare il tifoso. In secondo luogo, la legge Amato non prevede la possibilità di sottrarre, in caso di condanna definitiva, gli anni senza stadio già scontati con il Daspo.

C'è da registrare, dopo la manifestazione ultras contro la tessera del tifoso del 14 novembre a Roma, l'allargarsi di un fronte politico trasversale che non vuole punire a prescindere chi vive la passione sportiva, ovviamente nei limiti della legalità. Come ha sottolineato Alessandro Cochi, delegato per lo sport del sindaco di Roma, Alemanno. "Le modifiche e i correttivi che saranno apportati a questo provvedimento sono tutti volti a tutelare e salvaguardare la figura del tifoso, elemento fondamentale e anima del movimento sportivo, che non deve subire alcun tipo di manipolazione a fini politici, ma essere il centro di un più ampio ragionamento anche in maniera traversale, proprio come sta accadendo con l'ex sottosegretario Paolo Cento, i radicali Perduca e Staderini, e gli onorevoli del Pdl Benedetti, Valentini, Barbaro e Frassinetti, che tenga in considerazione la passione sportiva e la incanali nella giusta direzione della legalità».

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SCONTRI HURACAN-SAN LORENZO, 20 FERITI

Una ventina di feriti, due arresti e inizio della partita slittato di mezz'ora. E' il bilancio degli scontri tra tifosi in occasione del derby di Buenos Aires vinto poi dal San Lorenzo sull'Huracan per 2-0. La polizia è stata costretta a ricorrere ai lacrimogeni e giocatori e ufficiali di gara sono stati obbligati a rientrare negli spogliatoi in attesa che tornasse la calma. A far scoppiare gli incidenti lo striscione con i colori del San Lorenzo esposto in modo provocatorio dai tifosi dell'Huracan.

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21 DASPO PER GLI ULTRAS ROSSOBLU

Il Questore di Ascoli Piceno, Dott. Giuseppe Fiore, in seguito agli episodi di violenza posti in essere da 21 tifosi della Sambenedettese in occasione della partita Fermana-Samb disputatasi presso lo Stadio Comunale "B.Recchioni" di Fermo lo scorso 4 novembre, ha emesso 21 provvedimenti di Divieto di Accesso ai Luoghi ove si disputano Competizioni Sportive (Daspo) con l'obbligo di firma presso un Ufficio di Polizia. Tali provvedimenti rientrano in una ormai consolidata linea di rigore verso coloro che utilizzano lo sport come pretesto per dare sfogo a vandalismi e a fatti delittuosi che nulla hanno a che fare con il sano tifo calcistico.

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SCONTRI IN BASILEA-ZURIGO

Almeno 25 feriti e due arrestati: è il bilancio del pre e post partita di Basilea-Zurigo, sfida valida per gli ottavi di finale della Coppa di Svizzera. Già prima dell'inizio della sfida, tifosi dello Zurigo hanno divelto seggiolini e causato altri danni nel settore ospiti dello stadio. La polizia è intervenuta per calmare gli animi con manganelli di gomma e con il lancio di gas lacrimogeno, mentre al termine della partita, le forze dell'ordine hanno evitato contratti tra le due tifoserie. Il Basilea si è imposto 4-2 sullo Zurigo.

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UNDICESIMO ARRESTO A BELGRADO

La polizia serba ha annunciato l'arresto di un ulteriore sospettato per la morte di Brice Taton, il tifoso francese del Tolosa deceduto due mesi fa a Belgrado in seguito ad un'aggressione da parte di hooligans della squadra locale del Partizan. Le autorità serbe, che abitualmente non diffondono le generalità complete degli indagati, hanno fatto sapere che l'11.mo sospettato finito in manette è un uomo di 39 anni. Taton, aggredito prima del match di Europa League disputato a settembre a Belgrado, morì diversi giorni dopo l'aggressione subita in un bar. La vicenda ha indotto le autorità di Belgrado a mettere al bando diversi gruppi di tifoseria organizzata.

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SE LO STADIO NON CE L'HAI...

«Se lo stadio non ce l'hai, ce lo portiamo noi». La versione parafrasata di un coro da curva riassume la volontà del Comune di Pisa, in accordo con il Pontedera, di consentire ai tifosi nerazzurri di assistere al derby in programma a Pontedera fra dieci giorni. Pisa presterà allo stadio Mannucci le tribunette usate a giugno nei lungarni per il Gioco del Ponte, scacciando così l'incubo di una terza trasferta vietata. Dopo la serrata totale della gara di Vignola con il Boca Pietri, lo scampato pericolo in occasione del match di Rosignano (trasferito in extremis a Santa Croce sull'Arno) e il divieto imposto ai pisani domenica scorsa a Chioggia, le amministrazioni sono corse ai ripari garantendo ai supporter nerazzurri il diritto di assistere ad una gara (per di più un derby) della propria squadra del cuore e alla società locale (ossia il Pontedera) di poter beneficiare di un incasso importante, visto che in D il ricavato va interamente alla formazione di casa.

Finora le gare vietate hanno portato bene al Pisa (successo per 6-1 a Vignola e per 5-2 a Chioggia), ma sulla scaramanzia prevale la voglia dei tifosi di essere presenti... nella buona e nella cattiva sorte: il tifoso pisano vuole vedere il Pisa allo stadio, non importa la categoria. E in una stagione maledetta, dopo le sofferenze dell'ultima estate ed il crollo di tre categorie, l'impossibilità di andare alla partita senza aver commesso alcuna malefatta è percepita come l'ennesima ingiustizia che la città della Torre non è disposta a mandar giù.

In realtà le serrate non sono mai riuscite a tenere troppo lontani i pisani dal Pisa. Duecento hanno raggiunto Vignola anche a costo di restare dietro alle mura divisorie dello stadio; più fortunati i circa 80 che hanno raggiunto Chioggia e, pur rimanendo fuori, hanno potuto vedere (o almeno intravedere) la partita attraverso le maglie di una rete separatoria, per di più gratis, in barba ai divieti. Anche i tifosi di casa, persino quelli meno amici, hanno il piacere di confrontarsi sugli spalti con la curva nerazzurra a colpi di sfottò, in una cornice irripetibile per piccole piazze di paese e in una giornata da menzionare negli annali.

Significativi i cori con cui, domenica scorsa, gli ultrà del Chioggia chiedevano alle forze dell'ordine di consentire l'ingresso alle decine di pisani accorsi. A Pontedera poi, dove dimorano molti appassionati nerazzurri, accogliere gli uomini di Cuoghi ed i loro supporter è un piacere, ferma restando la reciproca legittima volontà di prevalere nei 90' di gioco.

Gli esodi di massa del tifo rossocrociato - da un minimo di mezzo migliaio per i viaggi più lunghi ai due-tremila persone pronte ad affollare gli stadi più vicini - sono croce e delizia per le altre realtà calcistiche della serie D (girone D): manna per le casse sociali e spietati nel mettere a nudo tutti i limiti di impianti sportivi accettabili per i numeri delle tifoserie dilettantistiche, ma totalmente inadeguati per un pubblico che si muove praticamente come faceva in serie B, dove era costantemente ai vertici per affluenza e partecipazione.

D'altra parte il campo quest'anno offre la D, e con questa categoria il Pisa deve confrontarsi. «Per Pontedera ci siamo mossi volentieri - spiega l'assessore allo sport Federico Eligi - noi mettiamo a disposizione le tribune del Gioco del Ponte, che aumentano la capienza di 1200 posti, e forniamo il supporto tecnico per il montaggio secondo le normative; le spese vive sono a carico del Pontedera Calcio. Era l'unico modo per evitare un'ingiusta penalizzazione per i nostri tifosi: mi pare che quest'anno la città stia subendo delle decisioni che comincia a considerare inaccettabili e punitive, visto che né in casa né fuori i tifosi si sono comportati male».

da Infoaut

La fretta e il timore di Berlusconi per il processo breve

Silvio Berlusconi va di fretta. Ed è anche normale dopo la bocciatura del lodo Alfano. Proprio per questo, potrebbe far presentare un'nuovo lodo Alfano'. Soprattutto dopo le notizie sulle indagini di mafia che potrebbero coinvolgerlo in arrivo da Caltanissetta e Firenze. Parlo ovviamente del processo breve. Si fanno i conti sui tempi di approvazione. Iniziamo col dire che al Senato non se ne parlerà prima di Natale, se tutto va bene. Mentre alla Camera non ci sarà l'ok prima di febbraio. Ma Silvio vuole accelerare i tempi e con un giustificato timore mira verso un decreto di legge.

Alfano in realtà gli ha dato una risposta negativa. Silvio, dal canto suo, gli ha detto testuali parole: "O noi risolviamo questo problema subito, oppure tu te ne vai, perché sappi che ci sono molti altri che possono fare il ministro della Giustizia al posto tuo". Una vera e propria minaccia!

E' comprensibilissimo che Berlusconi vuole stringere i tempi. L'urgenza del premier è legata alle indagini sulle stragi di mafia del '92-93.In questi giorni l'Espresso ha pubblicato un'imputazione per mafia (in pratica un concorso esterno o peggio un coinvolgimento nelle stragi). Silvio deve aver letto questa cosa o quantomeno glielo hanno riferito. Dunque, cosa potrebbe succedere? Semplice: Berlusconi dovrà per forza di cose pensare alle elezioni anticipate. Non avrebbe altre opzioni. Poi ci sono anche i processi Mills e Mediaset, pronti a produrre condanne per corruzione e frode fiscale. Almeno questi due dovranno essere chiusi. Avete capito? Il processo breve serve semplicemente a questo, a nient'altro!

Berlusconi, però, teme anche gli scontri interni nella maggioranza (vedi Fini) e il presunto stop di Napolitano per incostituzionalità.Giovedì, quando verrà presentato anche il testo, vedremo cosa succederà.

di Andrea De Luca

Fonte: http://andreainforma.blogspot.com/2009/11/la-fretta-e-il-timore-di-berlusconi-per.html

''Anche i rom sono esseri umani''


I rom di via Rubattino abbandonati al loro destino

“Sono esseri umani e come tali devono essere trattati. Come si può abbandonare delle mamme con dei bambini per strada?” A porre questa spinosa domanda è don Piero Cecchi, responsabile della parrocchia di San Giovanni Crisostomo di via Cambini a Milano, che ha preso in carico una delle famiglie rom sgomberate giovedì mattina dal campo di via Rubattino dalle ruspe del comune. “Fino a quando non verrà trovata loro una sistemazione dignitosa – ha esclamato il sacerdote - questa famiglia rom rimarrà nella nostra comunità. Abbiamo provveduto a dare loro, viveri, vestiti e possibilità di lavarsi. Non li lasceremo in strada. Per ora dormono in un'aula in cui abbiamo messo dei materassi. Non è una casa, ma è sempre meglio che dormire fuori al freddo”. Il parroco, tradito dall'emozione, sottolinea anche l'umanità e la grande dignità dei nomadi, spesso vittime dei peggiori pregiudizi.

Come don Piero, anche altre comunità parrocchiali e famiglie milanesi hanno deciso di aprire le porte ai rom di via Rubattino per toglierli dalla strada. Ecco quindi svelato il segreto dell'amministrazione milanese che, incapace di proporre una politica seria di integrazione della comunità rom, ha scelto di fare affidamento sulla rete di solidarietà delle associazioni, delle parrocchie e dei singoli cittadini. “Sono in Italia da nove anni – dice Alina, mamma di quattro bimbi, di cui due frequentavano la scuola con regolarità – e ho girato molti campi: Bacula, Bovisasca, Quarto Oggiaro e infine Rubattino. Ovunque andiamo, ci cacciano, questa non è vita. Sia io che mio marito abbiamo lavorato. Io ho fatto le pulizie, lui, come quasi tutti gli uomini del campo, ha trovato impiego nel settore delle costruzioni, ma sempre in nero. Nessuno ci ha mai offerto un contratto. In Romania non possiamo tornare, vorremmo stare qui per dare delle opportunità migliori ai nostri figli”. Alle parole di Alina fanno eco quelle di Durusan. “Ho tre figli - racconta Durusan – e sono in Italia da quattro anni. Sono stata nel campo di Bacula, Bovisasca e infine a Rubattino. Da due giorni dormiamo all'aperto con i bimbi, non sappiamo più come muoverci e per questo abbiamo deciso di rivolgerci alla chiesa”.

Sabato mattina alle sette gli agenti delle forze dell'ordine hanno sgomberato per una seconda volta i rom che si erano accampati dall'altra parte della strada dall'area liberata giovedì. Era, infatti, circolata la voce che il vice-sindaco di Milano, Riccardo De Corato, uno dei grandi sostenitori della politica degli sgomberi, venisse in zona per partecipare a una riunione di quartiere del Pdl. Nonostante ai rom fosse stato concesso di rimanere nel parco occupato fino a domenica, gli agenti, per evitare di rovinare la giornata al vice-sindaco, hanno disperso nuovamente i nomadi che, disperati, si sono recati nella parrocchia di Sant'Ignazio.

“Francamente si fa fatica a capire le mosse dell'amministrazione - afferma Elisabetta Cimoli della Comunità di Sant'Egidio -. Manca la volontà di mettere in atto qualsiasi progetto alternativo alla politica degli sgomberi. Venerdì sera i rom avevano organizzato un presidio davanti alla prefettura per chiedere il supporto della Protezione civile, ma anche questo era stato loro negato. Sabato è stata la volta dell'occupazione della chiesa di Sant'Ignazio, in seguito alla quale il comune è stato praticamente costretto a mettere a disposizione dei posti nei dormitori. Ora alcune donne con figli sono state accolte nelle comunità mamma-bambino di Monza e Melzo ed è stata aperta loro l'infermeria di viale Ortles a Milano. Gli uomini sono stati inviati in due dormitori, mentre alcune famiglie hanno trovato ospitalità presso la Casa della Carità, nelle parrocchie o nelle famiglie milanesi. E' evidente che sono tutte soluzioni temporanee, che non possono durare”.

A preoccupare le associazioni è anche l'imminente demolizione del campo regolarizzato di via Triboniano che verrà distrutto per fare spazio al nuovo piano edilizio dell'Expo. “Sono stati spesi molti soldi per sistemare Triboniano - continua la volontaria della Comunità di Sant'Egidio - e, piuttosto, che usare altro denaro per spostarne gli abitanti, sarebbe meglio utilizzare le risorse per accompagnare le persone a uscire dai campi. Sembra che i rom di Triboniano verranno trasferiti nell'accampamento di via Idro di Milano, dove verrà creato un campo che ospiterà altri ottocento individui, una sorta di ghetto. Quello che è successo per lo sgombero di via Rubattino dovrebbe far riflettere il comune e spronarlo a cambiare politica. Per la prima volta i cittadini si sono mossi non per cacciare i nomadi, ma per aiutarli. Le maestre e i genitori dei bimbi italiani con un compagno nomade hanno fatto di tutto per scongiurare lo sgombero e difendere il diritto dei più piccoli all'istruzione. Diritto che anche noi chiediamo venga rispettato”.

di Benedetta Guerriero da PeaceReporter