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martedì 1 dicembre 2009

L'aquilone strappato


Di Antonio V. Gelormini

Sarà pur vero che lui “la Puglia la gira su e giù da quando questi ragazzi non erano ancora nati”, come ha rinfacciato con stizza Massimo D’Alema a quegli irrispettosi Giovani Democratici, rei di aver evidenziato, con quanta puntualità, la storia del “popolo dei fax” torni sempre a ripetersi, quando di mezzo ci sono i suoi baffi. Altro che discontinuità e rinnovamento della politica.

La segreteria regionale e i delegati del Pd decidono di ricandidare Nichi Vendola alla presidenza della Regione Puglia, e Roma o la Direzione Centrale del partito virano vele e timone da tutt’altra parte. Puntando le sorti di questa regione sul tavolo verde di strategie nazionali, che ne vedono i destini segnati e perennemente messi all’asta dall’astuzia tattica del banditore di turno.

Ma è altrettanto vero che ogni qualvolta la Puglia è stata al centro delle alchimie elettorali di Massimo D’Alema, al suo governo è poi arrivata puntualmente la compagine avversaria. Una sorta di maledizione ancestrale, che la relega da sempre alla preziosa funzione di “pedina di scambio” sulla scacchiera politica nazionale.

Questa volta, però, la sensazione è che la corda sia stata tirata troppo. C’è in giro una più concreta consapevolezza delle proprie potenzialità. La Puglia che va, la Puglia modello, quella in controtendenza e quella ambita, la Puglia moderna, capace di risollevarsi, e quella innovatrice, orgogliosa di un riscatto dolce, sono i riflessi migliori di una Puglia decisamente più matura.

Quelli di un “laboratorio”, che si propone canovaccio innovativo per i futuri progetti sugli assetti politici nazionali. E non viceversa. Che possa essere sponda cruciale per l’auspicato riscatto dell’intero Mezzogiorno. Una Puglia stanca di essere zavorra per equilibri politici più lontani. Che rivendica, invece, la centralità di un confronto politico sulla discontinuità perseguita nel modulo amministrativo, e sulla riaffermazione coerente e prioritaria del presidente in carica. Anziché quello tutto strumentale sulla sola cosiddetta “intesa elettorale”.

La Puglia riassunta, e percepita anche all’esterno, nella personalità del suo presidente Vendola è una “realtà” come l’uccello di Gaber: vogliosa di volare, immaginando bene da che parte vuole andare. Un ponte su un futuro da attori protagonisti. La ricerca di approdi ed incontri lungo i nuovi orizzonti delle generazioni a venire.

La Puglia riproposta da incursori fedeli e affezionati, nelle loro storiche e avvincenti battute di caccia, invece, è di nuovo il mezzo per fini dal sapore bizantino e dalle architetture machiavelliche. Un tacco su cui continuare a far presa, per rendere ancora elegante una gamba non più seducente. Il ritorno ad un catenaccio difensivo, da palla in tribuna, piuttosto che la ricerca di geometrie innovative per segnare più goal dell’avversario.

Chiedere di ritirare la candidatura al presidente Vendola è un preoccupante segno di debolezza della politica. Ha il piglio minaccioso ed autoritario di una “normalizzazione” e di una sfuggente sintonia con il popolo. E’ come sparare a pallettoni sulle speranze di una Puglia migliore e sulla leggerezza di un aquilone, la cui traiettoria è da tempo seguita dagli occhi ammirati e dai respiri sospesi di un Mezzogiorno, finalmente “rapito” e non soltanto ripetutamente “rapinato”.

(gelormini@katamail.com)

da Affariitaliani

Russia: i nazisti di Combat 18 rivendicano la strage del treno 'Nievski Express'


La rivendicazione della strage al treno 'Nievski Express' sulla linea Mosca-San Pietroburgo è apparsa sulla pagina web del "Movimento contro l'immigrazione clandestina" (DPNI) firmata Combat 28, un gruppo di terroristi nazisti. (combat18.net)
In precedenza in alcuni siti di destra avevano pubblicato messaggi dallo stesso tono che inneggiavano al fortunatamente falso esplosivo trovato avvolto in una bandiera nazista nella metropolitana di San Pietroburgo e in un auto il 14 novembre e agli omicidi compiuti negli ultimi tempi.
Ifatti molte delle responsabilità di questi omicidi (in particolare, il recente assassinio di Ivan "Vanya" Khutorskoi), è opera dei cosiddetti "Combattenti per l'Organizzazione dei nazionalisti russi" (Bourn).

Ma le fonti dei gruppi antifascisti hanno scoperto e riferito che Bourn - "è una organizzazione inesistente, è semplicemente un tentativo da parte dei nazionalisti di sviare le indagini sulle loro precise responsabiltà... ."
Ipocritamente anche l' ex-leader dello xenofobo Movimento contro l'Immigrazione clandestina, Alexander Belov e il leader dei nazisti slavi dell'Unione patriottica Dimitri Demushkin dichiarano che Bourn non esiste.
Gli antifascisti ribattono che i naziskins di Combat 18 esistono realmente e fanno ovviamente tutti parte di questi gruppi neonazisti "legali"...

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mi ricordano un po i fascisti italiani quando questi maiali mettevano le bombe nelle stazioni e nei treni..

da Indymedia

Una guerra per la corona

Gabriella Kuruvilla è una scrittrice italoindiana. È nata a Milano nel 1969.

Milano, appartamento di periferia. L’ingresso si apre sulla cucina, da un lato c’è il bagno e dall’altro il salotto. L’arredamento è senza pretese , l’unico lusso è un enorme televisore, che immagino sia sempre acceso come adesso. Sul divano sono seduti quattro uomini e una donna, immobilizzati davanti a un programma in spagnolo.

L’età media è 25 anni. Vengono dal Centroamerica e sono vestiti in stile streetwear. Fanno tutti parte dei Latin King New York, una delle gang latinoamericane più famose del mondo. L’organizzazione è nata nella prima metà del novecento negli Stati Uniti, è stata ricreata nei paesi d’origine dagli immigrati che tornavano a casa e poi, con le nuove ondate di emigrazione, si è diffusa anche in Europa e in Asia.

Alessandro mi apre la porta. Il suo soprannome è un marchio di vestiti. Indossa dei pantaloni e una felpa oversize, nei toni del giallo e del nero: “Rappresentano la luce e il buio”, mi spiega. L’abbigliamento è uno dei segni distintivi della gang. I gesti assumono un’importanza fondamentale: sono segnali di riconoscimento, ma possono essere usati anche come provocazioni. Basta muovere le mani in modo sbagliato per offendere un intero gruppo ed essere puniti. Basta “rovesciare la corona”, il simbolo che contraddistingue i Latin King, ruotando la mano verso il basso. Ma la rappresaglia può scattare anche per “proteggere” una donna della banda dal corteggiamento di chi non fa parte del gruppo.

Le guerre tra bande hanno seminato diversi cadaveri per le strade di Milano e non solo. L’ultimo morto “celebre” è David Stenio Betancourt Noboa, ucciso all’alba del 20 giugno davanti a una discoteca di Milano. Era un amico di Alessandro, che ora è seduto davanti a me. Mi racconta la sua vita. È entrato nei Latin King da giovanissimo, quando viveva ancora in una città dell’Ecuador: il territorio era diviso in gang, e lui poteva solo scegliere in quale gruppo entrare. Così sarebbe stato rispettato.

La neve in tv
Alessandro è arrivato in Italia a 15 anni e all’inizio ha abitato a casa di una cugina di 40 anni, che non conosceva. Viveva nel quartiere Isola, a Milano. La città non gli piaceva, aveva deluso le sue aspettative: “Quando esci dall’Ecuador pensi che tutti gli altri paesi siano come gli Stati Uniti”. Ma l’Italia non era l’America. “Odiavo la neve. In tv invece mi sembrava bella”.

All’inizio non usciva di casa, si sentiva spaesato, soffriva di nostalgia e non riusciva a comunicare con nessuno perché parlava solo spagnolo. Voleva tornare in Ecuador. Poi ha dovuto trovarsi un lavoro, ha cominciato a muoversi per la città e a stringere le prime amicizie con ragazzi latinoamericani che appartengono alla sua stessa pandilla, la stessa gang. Li ha riconosciuti dai vestiti e dagli atteggiamenti.

“La gang sostituisce la famiglia di origine e si prende cura dei suoi membri”, mi dice Alessandro. I coetanei sono i fratelli e i più anziani sono i maestri: hanno l’autorità che dovrebbero avere i genitori, che spesso sono assenti. La famiglia ha una struttura piramidale, il motto è “Tutti per uno, uno per tutti”. Le parole d’ordine sono rispetto, fiducia e lealtà. Ognuno ha un ruolo ben definito e deve osservare regole ferree: se trasgredisci vieni punito.

Molti di quelli che ne fanno parte hanno una storia segnata da comportamenti devianti. Che la gang cerca di prevenire: aiutando i ragazzi a scuola o a cercare lavoro, ma anche mettendo al bando alcol e droghe. L’omosessualità è vietata e anche l’aborto. “Perché tu sei un re e il tuo corpo è un castello”, conclude Alessandro. Gabriella Kuruvilla

da Internazionale

Ruanda, il Paese entra ufficialmente nel Commonwealth

In corso anche le trattative per riavviare le relazioni diplomatiche con la Francia

Il governo di Kigali fa ufficialmente parte del Commonwealth. Louise Mushikiwabo, ministro dell'Informazione ruandese, ha dato la notizia proprio durante il vertice dell'organizzazione in corso a Trinidad e Tobago. "La decisione - ha spiegato Mushikiwabo - è una conferma dei progressi compiuti dal Paese negli ultimi 15 anni. I cittadini ruandesi sono pronti ad accogliere le opportunità politiche, culturali ed economiche offerte dal Commonwealth".

Dopo il Mozambico, il Rwanda è il secondo Stato africano ad essere ammesso nell'organismo, pur non essendo mai divenuto una colonia britannica.
Nelle scorse settimane la candidatura del Rwanda aveva destato molte proteste da parte dei membri delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Il Paese, secondo gli attivisti dei diritti umani, non assicura il rispetto degli standard democratici necessari per entrare a far parte del Commonwealth.
Sarebbero, inoltre, in corso contatti tra le cancellerie della Francia e del Rwanda per la ripresa delle relazioni diplomatiche, interrotte nel 2006. Il governo francese aveva emesso dei mandati di cattura per alcuni dei consulenti del presidente Paul Kagame. Secondo Parigi alcuni membri dell'entourage di Kagame sarebbero stati coinvolti nell'attentato dell'aprile del 1994 che causò la morte del presidente Juvenal Habyarimanain e innescò le violenze che culminarono nel genocidio.

di Benedetta Guerriero da PeaceReporter

Detenuti in sciopero della fame


Due giornate di protesta pacifica per chiedere condizioni di detenzione più umane

Due giornate di protesta pacifica e sciopero della fame per dire basta alle condizioni disumane di detenzione. Queste le iniziative dei detenuti italiani, in programma il primo e il dieci dicembre, per riportare l’attenzione sul sistema carcerario e chiedere l’attuazione di una riforma. I giorni della protesta pacifica non sono stati scelti a caso, ma si ricollegano a due date significative. La prima, istituita appunto l'uno dicembre, vuole ricordare le mobilitazioni avvenute nei penitenziari nel 2007 e nel 2008, mentre la seconda avverrà il dieci dicembre, in concomitanza della giornata internazionale dei diritti umani.
Sfibrati e consumati dalle dure condizioni di detenzione, i carcerati chiedono l’applicazione di misure alternative e trattamenti più equi. Secondo i dati dell’Osservatorio permanente per le morti in carcere, al mese di novembre di quest'anno i decessi sono 160, di cui 66 per suicidio, l’ultimo dei quali avvenuto pochi giorni fa nel penitenziario di Sondrio. A togliersi la vita è stato Massimiliano Menardo, di soli 36 anni. Al dieci novembre 2009, stando alle elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su fonte del Ministero della Giustizia – Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria), i detenuti rinchiusi nelle carceri italiane sono 65.355, mentre la capienza regolamentare delle prigioni è pari a 43.074 unità, 64.111 quella tollerabile. Dei 65.335 carcerati, 24.190, il 37 percento è straniero. E’ questa l’agghiacciante fotografia delle nostri carceri: oltre mille persone al di sopra del limite della tollerabilità massima. Nonostante il Viminale riferisca di un calo generalizzato dei reati, le prigioni continuano a riempirsi. La detenzione si afferma come la soluzione ad ogni problema, a discapito dell’applicazione delle misure alternative.

Anche il ricorso alla custodia cautelare, un tempo considerata come un provvedimento eccezionale, sta diventando una prassi di routine. Alla fine di settembre 2009 i detenuti in attesa di processo erano oltre 31mila. Dato che obbliga a una riflessione, specie perché le morti sono più frequenti tra i prigionieri in attesa di giudizio rispetto ai condannati. Ogni anno in carcere vengono a mancare circa 90 persone ancora da giudicare con sentenza definitiva. Fino al 2006 inoltre il numero dei carcerati e quello degli affidati alle misure alternative era più o meno uguale. Oggi, invece, i detenuti superano le 65mila unità e delle misure alternative usufruiscono solo 13mila persone. Altro indicatore che offre uno spaccato della drammatica situazione carceraria italiana è costituito dall’accesso al lavoro. Al 30 giugno 2009 i detenuti lavoranti erano 13.408, di cui 12.547 uomini e 861 donne. Di questi 11.610 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 1.798 sono gestiti da altri datori di lavoro. Cifre insignificanti rispetto al totale della popolazione carceraria. La maggior parte dei detenuti trascorre le giornate nel nulla e la rieducazione o il possibile reinserimento nella società si trasformano in miraggi, in speranze che si infrangono sui tristi muri delle prigioni.

Non è raro, poi, che chi finisce in galera non sia colpevole. L’errore è umano e può capitare di mandare in cella un innocente. Tra il 2004 e il 2007 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha erogato 212.979.100 euro per la riparazione della riconosciuta ingiusta detenzione ed errore giudiziario. In particolare 206.632.784 euro sono stati spesi per custodia cautelare ingiusta, mentre 6.346.316 per errore giudiziario. Soldi che sarebbe stato meglio spendere per avviare progetti, ristrutturare le strutture penitenziarie, assumere nuovo personale.

da PeaceReporter

Deep purple - Child in time



Deep Purple - Child in Time

Sweet child in time you'll see the line
The line that's drawn between the good and the bad

See the blind man shooting at the world
Bullets flying taking toll
If you've been bad, Lord I bet you have
And you've not been hit by flying lead
You'd better close your eyes you'd better bow your head
Wait for the ricochet

Deep Purple - Bimbo nel tempo

Dolce bimbo nel tempo tu vedrai la linea
la linea che è tracciata tra il bene e il male

Vedrai il cieco sparare al mondo
proiettili vaganti che esigono un tributo
Sei stato cattivo - oh Signore! - scommetto di sì
e se non sei stato colpito dal piombo vagante
e meglio che tu chiuda gli occhi e pieghi la tua testa
Aspetta il rimbalzo del proiettile.

"Rom vuol dire criminale"


di Emiliano Fittipaldi
Parole choc dei giudici del tribunale dei Minori di Napoli che negano i domiciliari a una minorenne a causa della sua etnia

Se si appartiene all'etnia rom, non si può che delinquere. Lo scrivono, in sintesi, i giudici del tribunali dei minorenni di Napoli, con parole che sembrano, francamente, incredibili. La storia è quella della ragazzina rom di 15 anni, accusata di aver rapito una neonata a Ponticelli nel maggio del 2008. Un fatto di cronaca che scatenò la rabbia dei residenti e la devastazione dei campi del popolare quartiere napoletano.
La ragazzina, A.V., grazie alla testimonianza della madre della rapita, è stata condannata in primo grado e in appello a 3 anni e 8 mesi, e da un anno e mezzo è rinchiusa nel carcere minorile di Nisida. L'avvocato ha chiesto prima dell'estate gli arresti domiciliari, ma il tribunale, in sede di appello al riesame, ha bocciato la richiesta. Con una motivazione sconcertante, destinata a scatenare polemiche infinite.

«Le conclusioni indicate» dicono i giudici «sono sostanzialmente confermate dalla relazione depositata in atti dalla quale, a prescindere dalle cause, emerge che l'appellante è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom. Ed è proprio l'essere assolutamente integrata in quegli schemi di vita che rende, in uno alla mancanza di concreti processi di analisi dei propri vissuti, concreto il pericolo di recidiva». In sostanza, la razza e l'etnia definiscono il comportamento delinquenziale della piccola. Un ipotesi abnorme, visto che stiamo parlando di giudici dello Stato che lo scrivono nero su bianco, e non di un comizio del più intransigente leghista da stadio. «Un precedente gravissimo» sostiene l'avvocato della bambina Cristian Valle, «che basa sulla razza l'ipotesi di condotte criminose. Non solo sulla possibilità di commettere reati, ma pure sulla tendenza a condotte recidive.

La vox populi con la quale si dice che i rom rubano i bambini, diventa certezza giuridica. E' assurdo, indegno. Non ho mai visto una decisione così. In un clima da leggi di stampo razziale, anche i giudici si adeguano». In effetti, con la stessa logica, altri giudici potrebbero giustificare le loro decisioni descrivendo gli schemi tipici della cultura ebraica o islamica, e qualcun altro potrebbe spingersi a discettare - per chiunque vive in terre ad alta criminalità - che napoletani, calabresi o siciliani sono tendenzialmente delinquenti perchè inseriti negli «schemi culturali» di quelle zone. La decisione del tribunale e le parole della motivazione sono state prese collegialmente da quattro giudici, tra togati e onorari (un sociologo e uno psicologo): vuol dire che la maggioranza, almeno tre, erano d'accordo con il tono del rigetto.

I magistrati insistono: «Va inoltre sottolineato che, allo stato, unica misura adeguata alla tutela delle esigenze cautelari evidenziate appare quella applicata della custodia in Istituto penitenziario minorile. Sia il collocamento in comunità che la permanenza in casa risultano infatti misure inadeguate anche in considerazione della citata adesione agli schemi di vita Rom che per comune esperienza determinano nei loro aderenti il mancato rispetto delle regole».

Sono parole che sfiorano, dice Valle, la discriminazione razziale, e mettono in pericolo i diritti civili e umani della bambina condannata. «In modo sconcertante» spiega l'avvocato «si afferma l'opzione del carcere su base etnica e, attraverso la definizione di "comune esperienza", i più biechi e vergognosi pregiudizi contro la minoranza rom vengono elevati al rango di categoria giuridica».

da L'Espresso

Luisa Manfredi, sangue innocente

Era la figlia maggiore del bandito sardo Matteo Boe. E’ stata questa la sua condanna a morte? Se sei figlio di un criminale la tua diventa automaticamente una morte di serie B. Morte fisica prima. Morale, lasciata nel dimenticatoio, poi.

Sono le 18:30 di un freddo martedì di novembre del 2003, il 25 per la precisione. Soffia un gelido maestrale a Lula, piove. Luisa Manfredi, 14 anni, è in casa a prepararsi. Da lì a poco uscirà per il suo corso di ballo sardo.
Le piace ballare, lo fa con l’entusiasmo e con l’innocente malizia dei suoi anni da adolescente. Incontrerà le amiche al corso, parleranno dei compiti svolti, dell’interrogazione del giorno dopo, di quanto è carino il ragazzino dell’altra sezione. No. Non parleranno.

Luisa viene colpita dal proiettile di un fucile calibro 12, mentre si affacciava al balcone per stendere frettolosamente il bucato. Si accascerà sul terrazzo di casa ed emetterà il suo ultimo respiro 24 ore dopo. Hanno fatto di tutto i medici per rianimarla e riportarla alla vita. Ma non ci sono riusciti a proteggerla. Così come non c’è riuscito suo padre.

Credeva che bastasse risparmiarle il suo cognome per risparmiarle la morte. Ma gli assassini sanno tutto. Sanno cosa mangi la mattina a colazione, sanno che amici frequenti e sanno anche quand’è il momento giusto per colpire.

Qualcuno ha lasciato uno striscione davanti la Chiesa, su c’è scritto: “Chi ha ucciso Luisa?”. Si è pensato ad una vendetta trasversale o uno scambio di persona prima, di un delitto passionale o politico poi. La madre della ragazza chiede che venga fatta giustizia, che la sua creatura non venga dimenticata, che la gente di Lula che ha visto, se ha visto, parli. Per dire cosa? Nessuno mai dirà com’è morta la figlia di un bandito, anche se questi sta scontando in carcere i suoi errori con la giustizia. La paura è tanta. Chi vive da quelle parti non ci fa più nemmeno caso alle morti atroci che colpiscono anche gli innocenti.

A Lula è calato il silenzio. Si è abbassato il sipario di un teatro di paese dove il dramma si confonde con la realtà, dove il dolore e la disperazione dei parenti e degli amici di Luisa annegano nel lago dell’omertà. Dove sono i mass media? I telegiornali che si scandalizzano e ci scandalizzano per le morti illustri e per le vite dorate di pochi? Abbietti come sempre e alla ricerca del dolore da audience. Lacrime finte o fin troppo facili che scorrono vorticose all’apertura di pacchi milionari.

Lo so che chiedi giustizia, Luisa. Lo so che da lassù urli il tuo grido di dolore. Lo so che chi ti ama in Terra lotta nell’indifferenza mentre tu stai cercando un posto tra le anime del Paradiso, lì dove si vive senza gerarchie.

Non ti dimenticheremo Luisa. Sei la figlia di tutti noi ora, noi che con le nostre flebili vocine chiederemo per te giustizia divina e terrena.

di Lina Pasca

Fonte: http://andreainforma.blogspot.com/2009/12/luisa-manfredi-sangue-innocente.html