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giovedì 29 aprile 2010

Vendola silura D'Alema: vecchio politico perdente

Le parole di Massimo D'Alema sulle primarie per la scelta del candidato premier del Centrosinistra sono "un contorcimento politicista di una cultura politica che non vuole fare i conti con la sconfitta, sconfitta che non è solo sul programma elettorale ma anche politica, culturale e sociale". Nichi Vendola replica in modo aspro alle dichiarazioni dell'ex premier secondo il quale le primarie non possono essere imposte da un solo partito.

"Il Pd - ha aggiunto il presidente della regione Puglia...
che ha partecipato a Roma alla raccolta firme per il referendum sull'acqua pubblica - continua a vivere arroccato in un palazzo e a non accorgersi della domanda di cambiamento che viene dal paese e che è frustrata dalla risposta criptica della politica. Le primarie sono un processo di riappropriazione della politica da parte del popolo, la sinistra perde nella passività della politica e può tornare a vincere solo se torna a permettere la partecipazione, non capisco perchè il Pd non lo capisce".

Un Cln con Fini? "E' il sintomo dello stato confusionale della leadership del Pd, così si fa un danno a Fini cercando di cooptarlo a fare la quinta colonna del centrosinistra mentre è uno dei più autorevoli rappresentanti della destra". Nichi Vendola boccia senza mezzi termini la proposta del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, di un patto repubblicano che coinvolga anche il presidente della Camera contro la deriva plebiscitaria di Berlusconi.

Il presidente della regione Puglia, a Roma per sostenere la raccolta firme del referendum sull'acqua pubblica, sostiene infatti che Fini "oggi incarna una destra europea e ultraliberista, sono contento che ci sia a destra un filone laico e contrario al fondamentalismo religioso ma resta un grande leader della destra, si può discutere degli assetti istituzionali e delle libertà civili ma discutere e trovare sintonie non significa creare un'alleanza".

Vendola giudica questo dibattito frutto di una politica che sembra "un mulinello impazzito che produce un vortice di parole insignificanti, si parli invece di questione sociale - incalza - oltre che di quella democratica. Poi quando è chiaro il proprio orizzonte si può anche interloquire con i moderati, io sono favorevole, ma se non hai programmi e idee chiare il vocabolario si presta a fraintendimenti".

"Vedrò Bersani, spero mi spieghi qual è suo percorso" - "Penso che vedrò Bersani, ma per dirci cose sensate, io vorrei capire qual è il percorso del Pd perchè non capisco di cosa parlano". Nichi Vendola risponde così ai giornalisti che gli chiedono se incontrerà il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che ha già iniziato un giro di consultazioni con tutte le forze del centrosinistra e dell'opposizione per ragionare dell'alternativa da costruire.

"Capisco le liti nel Pdl - aggiunge il presidente della regione Puglia che è a Roma per sostenere la raccolta firme del referendum sull'acqua - dove si è rotto il partito di plastica, ma non capisco il Pd che raccoglie le firme per un referendum sull'acqua pubblica ma non lo fa con noi, a me questi sembrano minuetti di una politica cicisbea".

Vendola torna poi a parlare della costruzione del centrosinistra e dice: "Io mi batto perchè il centrosinistra sia in grado di mettere insieme una piattaforma attraverso una discussione pubblica più larga e perchè vinca il metodo della consultazione popolare, che è il contrario delle decisioni prese nelle segrete stanze, penso che le primarie siano sempre un toccasana per il cambiamento, di cui c'è bisogno", quanto alle ricette per recuperare i consensi il portavoce di Sel pensa che il centrosinistra debba "riprendere il colloquio con la società civile, perchè l'alternativa non può essere sequestrata nel recinto del ceto politico, che ha già dato prove fallimentari, come diceva Giovanni Paolo II 'non abbiate paura' di uscire dai Palazzi e di tornare a confrontarvi con la vita vera, nel paese c'è una sofferenza sociale che è occultata dalla vita pubblica".

www.affaritaliani.it

EPPURE SOFFIA

Chiedo scusa a chi è morto per darmi la vita;
al mio paese se ne fregano
se per la nostra libertà la loro vita è finita.
E' difficile capire perchè non si vergognano;
Quelli che ci amministrano hanno la memoria corta.
Il 25 Aprile occorre celebrare e dare il buon esempio
ripercorrere la storia, parlare di Liberazione,
ricordare le "gesta eroiche" per non ripetere lo scempio.
Più cadiamo in basso e più grande è l'abisso,
un paese inebetito ed alienato dai suoi doveri,
ci guardiamo e non capiamo perchè l'oblio è fisso
per i morti di oggi e per quelli di ieri.
Più siamo pochi, più dobbiamo dirlo a tutti:
ora e sempre Resistenza.
Perchè anche se ci sentiamo soli o sconfitti
se parteggiamo culliamo la speranza.


di Angelo Cleopazzo

L’uomo ombra

Ho ricevuto questa domanda nella rubrica della “Posta Diretta” che tengo nel sito di www.informacarcere.it
Voi ergastolani vi definite “Uomini ombra” ma non pensate alle persone che sono morti per causa vostra che non hanno neppure più la loro ombra? Sono d’accordo con lei solo di una cosa “Chi vuole giustizia in realtà desidera vendetta.” Io lo ammetto, voglio vendetta. Spero che lei non esca mai e che muoia in carcere.

Ho risposto in questo modo
Chi violenta, uccide, mangia bambini o ammazza persone inermi e innocenti difficilmente è condannato all’ergastolo.
Molti di loro scelgono riti alternativi, altri collaborano o scelgono di usare la giustizia per avere sconti di pena.
E anche se alcuni di essi sono condannati all’ergastolo, non è mai quello ostativo a qualsiasi beneficio ma quello normale che dopo dieci anni puoi uscire in permesso, a venti in semilibertà e a venticinque in condizionale.
Lei non sa, o fa finta di non sapere, che su 1400 ergastolani saranno una trentina quelli che hanno sulla coscienza morti innocenti.
Tutti gli altri sono stati condannati all’ergastolo perché sono riusciti a sopravvivere a guerre interne alla malavita organizzata.
E fra gli ergastolani ostativi sono pochissimi quelli condannati per omicidi di persone innocenti, forze dell’ordine o altro.
Tutti parlano bene dei morti e male dei vivi, se fossi morto nei numerosi attentati che ho subito, forse parlerebbero bene anche di me.
L’ho detto molte volte: nella malavita organizzata sia i vivi, sia i morti, sono colpevoli.
Non ci sono vivi cattivi e morti buoni, come non ci sono vivi buoni e morti cattivi.
Infatti, molti anni fa era difficile che omicidi maturati nella malavita fossero condannati alla pena dell’ergastolo.
Molto tempo fa l’ergastolo ostativo non esisteva.
Solo esigenze politiche hanno portato a condannare ragazzi di 18-19 anni alla pena dell’ergastolo ostativo e imprenditori, finanzieri e politici corrotti a pochi mesi di carcere.
In guerra non ci sono soldati buoni e soldati cattivi, ci sono solo soldati che si ammazzano fra loro. Lo Stato, che li ha condannati e dopo la condanna li ha usati come trofei politici, è responsabile del fatto che questi ragazzi sono cresciuti nell’illegalità amministrativa e culturale, frutto dell'abbandono più totale da parte delle stesse Istituzioni che avrebbero dovuto tutelarli.
Questa è la verità storica, oggettiva e sociologica che i mass media nascondono.
Io non credo che la Giustizia/vendetta si ottenga con il carcere a vita perché se lo Stato agisce come i criminali, dove sta la differenza fra noi e loro?
Un uomo per essere giusto dovrebbe avere pietà e perdonare anche a rischio di farsi ingannare.
Io una volta avevo perdonato un mio nemico e dopo un po’ di tempo sono stato ringraziato da lui con sei pallottole ma non ho mai rimpianto di averlo perdonato.
Per il resto preferisco non uscire mai e morire in carcere che diventare “criminale” come lei.
Buona vendetta.
Aprile 2010

di Carmelo Musumeci

INIZIATIVA CONTRO L'OSCURANTISMO RELIGIOSO

Causa pioggia l'iniziativa prevista lo scorso 23 aprile è rinviata a Venerdì 30 aprile 2010 dalle ore 17 alle ore 21, presso Corte dei Cicala, Lecce con
mostra antireligiosa, diffusione di materiale informativo, bar peccaminoso e divertenti giochi...
Contro i continui attacchi del Vaticano alle libertà sessuali e personali, per impedire la loro intromissione nell'intimità di ognuno
Anarchici

mercoledì 28 aprile 2010

25 – 26 aprile memoria e impegno : partigiani sempre



C’è una Nardò che non si accontenta di tarallucci e vino e il 25 aprile testimonia in piazza il rinnovato impegno antifascista per la difesa dei valori della Resistenza, contro ogni tentativo di revisionismo e manipolazione della memoria storica.

C’è una Nardò che non si accontenta del conciliante campanilismo di chi non vuole centrali nel proprio giardino e il 26 aprile manifesta in piazza l’impegno ecologista e il fermo NO all’opzione nucleare senza se e senza ma.

Diranno che si tratta solo di un gruppo sparuto, senza mezzi e senza potere. Ci piace rispondere che questo gruppo sparuto è la prova che esiste la voglia di partecipare, di sostenere un’idea di paese diverso. : ‘‘e per quanto folle o imprudente, per quanto contro ogni tatticismo politicante, andare in piazza a dirlo – finché si può – è semplicemente giusto, è semplicemente un dovere etico’ (A.Gilioli).

sinistra ecologia libertà – circolo di nardò

martedì 27 aprile 2010

Chi dovrebbe convincersi? E di che cosa?


Dovevamo aspettarcelo! Quale migliore occasione per Berlusconi di poter annunciare, parlando con il fraterno amico Putin, il ritorno prossimo del Nucleare in Italia?
Lo fa da Lesmo annunciando un accordo tra Russia e Italia in materia di Energia (e non solo..) Nell’accordo, un memorandum, firmato da Fulvio Conti, a.d. e direttore generale di ENEL, e Boris Kovelchuk, acting chairman del management commitee di InterTaoVes, che riguarda la cooperazione nel settore nucleare, costruzione nuovi impianti e innovazione tecnica, efficienza energetica e distribuzione. Non potendo definire e comunicare i siti probabili in Italia, il Governo continua la produzione di centrali nucleari all’estero, annunciando l’intesa per la costruzione di una centrale nucleare a Kaliningrad. Non contento Berlusconi rispolvera dal cilindro un vecchio progetto, chiamato “Ignitor”, che punta alla fusione nucleare, dimenticando di come sia stato di fatto accantonato da tempo per via della sua poca economicità, per la totale insicurezza di riuscita e per il continuo problema di scorie (vedere vecchi articoli in merito), promettendo a questo riguardo un generico progetto di ricerca in merito, sempre con l’amato Putin.
Tornando al rilancio italiano, il Premier ha garantito che in questa legislatura vi sarà la posa della prima pietra, entro 3 anni, della prima centrale nucleare di 3a generazione.

Si continua a mentire sapendo di farlo visto che neanche nella migliore delle ipotesi, ossia nella malaugurata ipotesi che tutto andasse secondo i piani del Governo, si potrà vedere qualcosa che assomigli ad alla prima pietra (nel giro 3 anni!). Persino l’ENEL ha chiesto che venga posticipato l’avvento del sol Atomico (almeno non prima del 2015 ha precisato) in quanto le proprie casse non versano in buone condizioni. Senza contare le 14 Regioni che hanno hanno esplicitato il proprio No al Decreto sul nucleare. Tra l’altro non si capisce come mai Berlusconi dovrebbe fare una così vasta opera di convincimento (come ha ribadito oggi) nei riguardi dell’opinione italiana!?! Ma come, non erano proprio i sondaggi dello stesso Governo a confermare la voglia degli italiani di ritornare all’energia dell’atomo?

Non ci rimane che notare quanto sia in affanno questa voglia di tornare al nucleare, con tutto quello che ciò vuol dire, in un momento in cui di ben altro avremmo bisogno. Un affanno che non ha nessuna spiegazione, se non quella di voler dimostrare che questo governo può tutto!
Se da una parte il governo non sblocca la questione riguardo la localizzazione dei siti (manca ancora l’Agenzia incaricata) dall’altra mancano gli investimenti... ma, ad onor del vero, nell’arco di 6 mesi sono state varate due leggi che fanno carta straccia dei diritti delle popolazioni locali e dei criteri internazionalmente adottati per sovrintendere alla realizzazione degli impianti nucleari. Con ogni probabilità i nomi per questo rilancio saranno i vecchi siti che furono le località del vecchio Piano Energetico nazionale del 1982: Montalto di Castro, Caorso, Sponda veneta del Po, Litorale pugliese, Basilicata per quanto riguarda il deposito nazionale di scorie e non ultimo Trino Vercellese.
Del resto non possiamo più stupirci dei continui annunci che questa lobby fa, nei soliti salotti, insieme agli amici di sempre.
Aspettiamo le opere di convincimento per poter porre un paio di domande: Convincere chi? E di che cosa?

Il Nucleare una risposta la già avuta, più di vent’anni fà. Se è il caso sranno (saremo!) in molti/e a ripeterlo. No al Nucleare!
__________

8 Maggio - Assemblea Pubblica a Trino presso l’Auditorium delle Scuole Medie “Famiglia Tricerri” di via vittime di Bologna 4, alle ore 14.

da Infoaut

Lo Stato della governance


A cura di Paolo Cognini

Una crisi di ampie proporzioni come quella che stiamo attraversando produce tanti effetti di cui almeno uno è sicuramente positivo: la crisi ci riporta bruscamente ai rapporti di produzione e di potere materialmente esistenti, rompe la crosta ideologica ed apre un ampio squarcio sulle dinamiche reali. La crisi, tra le tante cose, è un'inestimabile fonte di informazioni, fruibili solo se la volontà di leggerle è autentica e libera da conclusioni pre-confezionate. Ancora una volta le dinamiche materiali ci consegnano una realtà fatta di molteplici processi, necessariamente in fieri, fisiologicamente complessi e non lineari: una “semplice” complessità che si contrappone alle complicate semplificazioni che non di rado contraggono e disperdono le nostre analisi. I processi storici, tanto più quando investono dimensioni globali, sono processi che articolano fasi, che modificano la realtà e si modificano nella realtà.
Anche i dispositivi di governance, che hanno occupato gran parte della nostra riflessione prima e dopo l'emergere della crisi, non configurano né un processo uniforme né un modulo ad applicazione omogenea. Si tratta sempre di un processo articolato fatto di espansioni e contrazioni e, soprattutto, di stadi successivi. Possiamo scrivere molto sui possibili scenari futuri e sulle possibili linee di tendenza ma in ogni caso approderemo sempre ad ipotesi approssimative perchè è la stessa fisiologia della governance a renderne difficile la “prognosi” ed a sottrarsi ai tentativi deterministici di cadenzarne lo sviluppo. Senza mai rinunciare al legittimo tentativo di formulare analisi anticipatorie, è tuttavia necessario assumere la natura di processo stadiale della governance e, di conseguenza, concentrare primariamente l'analisi sullo stadio attuale che non è né lo stadio iniziale né quello finale, ma uno dei tanti stadi intermedi che assume particolare rilevanza proprio (o solo) perchè è lo stadio del nostro tempo presente, lo stadio materialmente esistente della governance, fatto di dispositivi già operativi che consentono anche di materializzare l'analisi.

Nello stadio attuale la governance necessita comunque di processi di legificazione e, quindi, in ultima analisi, della legge. Non sappiamo quale sarà in futuro il rapporto tra governance e processi di legificazione né quali saranno, e se ci saranno, altri attori formali di tali processi. Possiamo però dire con certezza che oggi la governance necessita di processi di legificazione e che tali processi vengono sostanzialmente attuati ed assolti dallo Stato. Ovviamente quando parliamo di legificazione facciamo riferimento a processi che vanno ben oltre la mera codificazione e che concretizzano un'attività complessa dove sono coinvolti assetti istituzionali, poteri, dispositivi sanzionatori e meccanismi di legittimazione. Il fatto che lo Stato sia l'attore principale delle attività di legificazione non è in alcun modo in contraddizione con il tema della crisi dello Stato moderno, ma anzi ne rappresenta la conseguenza, un passaggio nell'evoluzione della crisi e non un suo arretramento.

La crisi dello Stato-Nazione è una crisi complessiva, è la crisi dello Stato moderno come forma storicamente determinata del dominio della borghesia capitalistica: tale crisi è irreversibile perchè nasce dall'insanabile frattura del rapporto di funzionalità tra il modello organizzativo rappresentato dallo Stato moderno e l'attuale strutturazione dello sfruttamento capitalistico. Crisi dello Stato-Nazione non significa, però, volatilizzazione dello Stato: il concetto di crisi è a sua volta un concetto articolato che comprende al suo interno anche l'idea di “trans-formazione”, ovvero una dinamica che consente di percorrere una determinata parabola anche attraverso progressivi passaggi a forme e modalità diverse. Come mai mentre a livello di analisi parliamo di crisi dello Stato-Nazione sul piano materiale lo Stato continua a starci addosso in maniera sempre più soffocante e violenta? Come mai da un lato parliamo di crisi dello Stato mentre dall'altro ci ritroviamo lo Stato nei meandri sempre più intimi della nostra vita? Non si tratta né di una contraddizione né di un paradosso.

La crisi dello Stato nell'attuale stadio della governance significa principalmente sussunzione dello Stato all'interno dei dispositivi di governance e, quindi, rielaborazione delle sue funzioni in un contesto di progressiva deprivazione dei margini di autonomia e sovranità che avevano caratterizzato lo Stato moderno. Forzando un po' i termini teorici potremmo dire che attualmente siamo nella fase di sussunzione formale dello Stato alla governance: lo Stato perde autonomia e sovranità ma permane come attore principale di quei processi di legificazione di cui i dispositivi di governance ancora necessitano. Tale necessità, che si conferma quotidianamente, è emersa con chiarezza nel contesto della crisi globale dove nessun New Deal ha potuto celebrare le sorti di qualche leadership nazionale. In realtà il ruolo dello Stato all'interno della crisi è stato un ruolo meramente legificatorio privo di qualsivoglia progettualità autonoma e strategica, sostanzialmente finalizzato a dare “forza di legge” ad una delle più grandi operazioni di travaso di risorse collettive nelle casse private di banche e grandi imprenditori.

La necessità di processi legificativi come strumento della governance e non come suo contenimento è emersa chiaramente persino nel teatro della “guerra in armi” che si combatte in Afghanistan ed in Iraq: anche in questi contesti è stato ritenuto necessario strutturare un'attività legificativa formalmente riconducibile al pataracchio di uno Stato e di un assetto istituzionale territoriale nonostante i processi decisionali siano interamente controllati dalle forze di occupazione che operano nella regione. La necessità di processi di legificazione territorializzati attraverso lo Stato nasce direttamente dalla fisiologia che caratterizza lo stadio attuale della governance. In particolare:

a) Non esistono ancora le condizioni per la strutturazione di processi legificativi globali: i dispositivi globali di governance possono produrre comando ma non possono ancora produrre, almeno in forma diretta, legge. Le ragioni di tale impossibilità sono molteplici e di diversa natura e non è possibile esaminarle in questa sede. Possiamo dire in maniera estremamente superficiale che tale impossibilità è direttamente riconducibile sia alle molteplici differenze e particolarità che caratterizzano lo scenario globale sia alla difficoltà di strutturare adeguati processi di legittimazione di processi legificativi de-statualizzati. Certo non mancano sperimentazioni di legificazione de-statualizzata, come ad esempio si verifica nel contesto della legislazione europea: tali sperimentazioni sono tuttavia ancora marginali e lo stesso diritto positivo europeo (che in ogni caso ha caratteristiche peculiari ed affonda le proprie radici in tutt'altra storia) presuppone sempre un'attività di ratifica da parte dello Stato membro.

b) La necessità di mantenere ed anzi, in molti casi, di intensificare le attività di legificazione assolve anche ad un'altra importante funzione: conservare il controllo assoluto sulle fonti normative ed escludere alla radice non solo la legittimità ma persino la stessa possibilità di esistenza di qualsivoglia altra fonte del diritto che non sia la legge stessa, ovvero il diritto positivo deciso ed imposto attraverso lo Stato. La legge è una fonte normativa storicamente determinata. Per lungo tempo la legge come espressione del potere normativo dello Stato o, comunque, dell'autorità temporale, è stata considerata una tra le tante fonti normative e neanche la più importante. Prima dell'avvento dello Stato moderno era diffusa la convinzione che la legge trovasse un limite invalicabile nel diritto consuetudinario: nel complesso dibattito sviluppatosi intorno a questo tema prima del XVI°esimo secolo, era diffuso l'orientamento che attribuiva al diritto consuetudinario la qualifica di fonte normativa di rango superiore e, pertanto, prevalente nel caso di contrasto tra diritto consuetudinario e legge. Con l'affermarsi dello Stato moderno e dei relativi asset teorici ed ideologici dettati dall'illuminismo, i termini della questione sono stati progressivamente rovesciati fino al punto non solo di subordinare il diritto consuetudinario alla legge ma di escludere persino che esso potesse esistere.

Attualmente, almeno per quanto riguarda la parte di mondo in cui viviamo, non esiste più alcuna tensione o contrasto tra legge e diritto consuetudinario semplicemente perchè non esiste più né il diritto consuetudinario né altra attività normativa che non sia sussunta dalla legge. Ogni ambito della nostra vita è strettamente legificato, il nostro corpo è legificato, i nostri movimenti sono legificati, ogni attività è subordinata ad una legge talmente minuziosa da non poter essere neppure applicata nella sua interezza: ma, in fondo, non è importante che la legge sia sempre applicata, purchè tale mancata applicazione sia sempre il frutto di un sotterfugio e non la rivendicazione di un “altro diritto”. Dimensione globale, crisi economica e crisi dello Stato-Nazione sono tutti fattori che tendenzialmente producono spazi agibili a fonti normative autonome, alla riaffermazione del diritto come risultante materiale delle pratiche di resistenza e di riappropriazione. Le attività di legificazione oggi più che mai rispondono alla necessità di ridurre tali spazi, di precluderli o quantomeno di nasconderli. Non è un caso che i processi di legificazione siano tutti rivolti verso il basso: densi alla base, essi diventano sempre più rarefatti mano a mano che si risale verso il vertice fino ad essere del tutto inesistenti nei luoghi, inagibili alle moltitudini, dove le corporation negoziano i propri interessi e le relative strategie.

Il diffondersi dello strumento giuridico della class-action, da molti salutato come un ribilanciamento dei poteri tra il cittadino e la grande impresa, al di là dell'utilità che può rivestire in alcuni specifici contesti, si traduce strategicamente in una giudiziarizzazione del conflitto all'interno della quale ingrassa la lobby degli avvocati e si diffonde l'idea che il contrasto tra interessi può essere validamente risolto con il ricorso alla legge ed ai suoi arbitri (illuminante sulla class-action negli USA il romanzo di Grisham “Il re dei torti”). Anche le riforme istituzionali che occupano l'agenda del governo Berlusconi, certe volte erroneamente ridotte ad una mera patologia italica, rientrano pienamente all'interno di una dinamica di governance che impone legificazione verso il basso e piena libertà di movimento verso l'alto. Le attività di negoziazione tipiche dei processi di governance, sono mediate o meno dalla legge a seconda degli attori che coinvolgono. La negoziazione tra le corporation è un'attività libera da maglie normative che produce assetti convenzionali condizionati esclusivamente dai poteri e dagli interessi messi in campo. Al contrario le attività di negoziazione che vengono sviluppate a livello sociale sono tutte in qualche maniera intermediate dalla legge ed i soggetti coinvolti nelle attività di negoziazione non sono mai alla pari: la legge sta sempre da una parte e quella parte riveste il ruolo di soggetto dominante.

Sono proprio i processi di legificazione che assolvono alla funzione di escludere a priori la possibilità di una negoziazione alla pari: se così non fosse la stessa attività di negoziazione finirebbe con l'attribuire alla realtà sociale con la quale il potere si trova a negoziare la condizione di soggetto autonomo di produzione normativa. Governance e processi statualizzati di legificazione sono, pertanto, espressione di una stessa realtà, costituiscono la modalità di governance che opera nella nostra contemporaneità e con la quale dobbiamo fare i conti. Una modalità che ci costringe a vivere una realtà a prima vista schizofrenica, all'interno della quale coesistono contemporaneamente due dimensioni: da un lato la crisi irreversibile dello Stato moderno e dall'altro, nonostante la crisi, lo Stato come nemico attuale e, addirittura, ancora più feroce. Si tratta, però, di un paradosso solo apparente. In realtà è proprio la crisi dello Stato e la sua progressiva perdita di autonomia e sovranità a ricondurre i processi di legificazione direttamente all'interno di quello stadio della governance dove lo Stato non è un mero strumento di polizia, come talvolta in maniera semplicistica è stato detto, ma un più complesso terminale legificativo di decisioni che materialmente si determinano come prodotto di processi globali: ovviamente legificare significa anche imporre, controllare e reprimere.

In un simile contesto risulta evidente l'impossibilità materiale (e, di conseguenza, il relativo assurdo teorico) di “recuperare” la dimensione statuale quale luogo di contrapposizione/bilanciamento/contenimento dei dispositivi globali di governance: lo Stato è già sussunto nella governance, ne è parte e sopravvive nella misura in cui e fintanto che le sue attività di legificazione (ed i relativi apparati di controllo) risultano necessarie. Stato e governance non sono espressione di due realtà diverse né, tantomeno, di due realtà contrapposte: al contrario, lo Stato quale spazio reale di legificazione (intesa nell'accezione di attività complessa come sopra specificato), è oggi spazio primario della governance, elemento costitutivo della sua azione e condizione necessaria alla materiale estrinsecazione dei suoi processi. Ma se la dimensione statuale è, almeno in questa fase, spazio primario e necessario della governance, ciò significa che tale dimensione configura anche lo spazio primario e necessario di collocazione delle azioni di contrasto e delle pratiche di resistenza. In un simile contesto gli elementi di crisi dello Stato, comunque presenti e strutturali, non vanno arginati ma, al contrario, approfonditi ed allargati fino a coinvolgere la stessa legittimazione dello Stato a legificare, ad imporre assetti normativi e relative sanzioni per chi non “ottempera”.

La partita che abbiamo difronte si gioca principalmente su questo piano, sul rapporto tra l'imposizione della legge, come fonte normativa unica ed assoluta, e l'insorgere di altre fonti del diritto che rivendicano la propria legittimità non in nome di un inesistente diritto consuetudinario ma in ragione di una prassi attuale, di un autonomo potere decisionale che nasce come unica soluzione di rivendicazioni inevitabilmente e metodicamente disattese. D'altra parte il tema dell'indipendenza, nonostante la sua indubbia complessità ancora tutta da indagare, in ultima analisi ci costringe a misurarci proprio su questo terreno, sui percorsi di de-legificazione delle nostre vite e delle nostre relazioni e sulla costruzione di nuove autonome fonti del diritto che non sono espressione né di una tradizione né di una consuetudine ma di un progetto che si materializza nei conflitti. Si tratta di un terreno dove l'apparente paradosso di cui abbiamo sopra parlato si esprime ai suoi massimi livelli: crisi dello Stato moderno da un lato e, ciononostante, Stato come nemico attivo dall'altro ed anzi come nemico ancora più “puro” perchè ridimensionato nei margini di autonomia e sovranità spendibili in termini di mediazione.

- Beni comuni

Da questo punto di vista il tema dei beni comuni può rivestire un ruolo trainante se si considera che ogni ipotesi di “difesa dei beni comuni” comporta necessariamente un ragionamento sui modelli di gestione, sugli assetti giuridici e sui processi decisionali. Come è possibile collocare i beni comuni fuori dal paradigma giuridico economico e politico della proprietà, privata o statale che sia? Come possiamo uscire realmente dalla tenaglia Stato/Privato che per lungo tempo ha saturato ogni opzione ed ogni possibile prospettiva? Sono molti i contributi e le riflessioni che negli ultimi tempi hanno efficacemente iniziato ad analizzare le problematiche connesse a questi interrogativi. Nel rimandare all'ampio dibattito in corso, mi limito semplicemente a sottolineare due aspetti:

1) Intorno al tema dei beni comuni è possibile sperimentare proposte organizzative che attengono direttamente a modelli gestionari alternativi delle risorse. Per quanto riguarda l'acqua esistono ad esempio alcune interessanti sperimentazioni di controllo diretto da parte di (piccole) comunità sui servizi idrici. Anche se si tratta di sperimentazioni marginali sono comunque esempi importanti di trasformazione dell'elemento di resistenza da dinamica di reazione a dinamica di insediamento e, quindi, di costruzione. Di certo la questione non può essere affrontata con un approccio ideologico. L'insediamento di fonti di diritto autonome ed alternative e quindi, in sostanza, di nuovi ed autonomi luoghi decisionali, è un processo complesso, che sconta necessariamente tutte le contraddizioni e commistioni di un processo autenticamente materiale. Il concetto stesso di insediamento importa con sé l'idea di una fase transitoria, di un “andare verso” in cui si mescolano elementi di diversa natura e dove la linearità o è un'inutile astrazione oppure è la capacità di cogliere una dinamica generale che si sviluppa al di là dei passaggi particolari: assumere l'idea di transitionis nel suo significato originario di passaggio che finalizziamo ad una prospettiva, può forse aiutarci a recuperare una dimensione realistica, nel senso di materialmente producibile, delle nostre proposte. Da questo punto di vista dovremmo cercare di capire se è possibile in questa fase sul tema dei beni comuni elaborare proposte capaci di introdurre elementi innovativi utilizzando contemporaneamente dispositivi di amministrazione locale e forme giuridiche che, seppur già esistenti, si prestano ad essere forzati e trasformati. La territorializzazione degli assetti giuridici, anche se inizialmente attraverso l'utilizzo di formulazioni giuridiche pre-esistenti (nel caso dell'acqua ad esempio il recupero contro le Spa delle aziende speciali municipalizzate e consortili) apre comunque spazi di azione per una produzione normativa autonoma non solo perchè tali strutturazioni potrebbero essere ripensate in forma innovativa ma soprattutto perchè sarebbe lo stesso contrasto con i processi di privatizzazione e con i relativi assetti giuridici a determinarne o la soccombenza o la progressiva trasformazione in termini di autonomia normativa e decisionale.

2) Andando a Copenaghen, dove un pugno di persone avrebbe dovuto discutere nientemeno che del destino climatico del nostro pianeta, abbiamo detto che la precarietà non è un problema riducibile alle forme contrattuali del lavoro, ma una condizione complessiva di esistenza, è la dimensione contemporanea della nostra vita. Contro una simile precarietà, che coinvolge la nostra stessa sopravvivenza fisica, non c'è antidoto che non sia la riappropriazione tempestiva delle risorse necessarie alla vita. In questa prospettiva il tema dei beni comuni diventa fisiologicamente l'interfaccia conflittuale di questa terribile precarietà da terzo millennio, quel quantum di riappropriazione irrinunciabile che comprende non solo le risorse naturali, ma anche beni sociali tra cui il reddito, la sanità, l'istruzione. Il tema dei beni comuni, declinato nei termini di riappropriazione contro la precarietà generalizzata e misurato materialmente nei processi di costruzione organizzativa e normativa, può essere un luogo reale di sperimentazione di pratiche di indipendenza e di biodemocrazia.

- Biodemocrazia

Fino ad oggi il termine biodemocrazia è stato utilizzato poco e limitatamente alle problematiche relative alle bioteconologie ed al controllo dei codici genetici. Sarebbe interessante riflettere sulla possibilità di sottrarre il concetto di biodemocrazia ad un uso settorializzato e riduttivo per trasformarlo in un concetto che allude ad una prospettiva societaria e che rielabora le tematiche ecologiste all'interno di una visione più complessiva ed attuale. Il termine biodemocrazia può aiutarci ad uscire da una rappresentazione meramente “estremistica” della democrazia che inevitabilmente nel porsi come estremizzazione di un qualcosa presuppone che quel qualcosa già esista seppur in forma non estrema. La democrazia a cui possiamo e dobbiamo alludere oggi non è una “estremizzazione”, ma qualcosa di geneticamente diverso, la riappropriazione sul piano societario di una tensione che la “democrazia reale”, non nel senso di “vera” ma di storicamente realizzata, ha imprigionato nelle maglie delle proprie istituzioni e delle proprie leggi.

Il concetto di biodemocrazia contiene in sé l'idea di esodo definitivo ed irreversibile dalla “democrazia reale”, ripensa il futuro riappropriandosi della dimensione biopolitica della democrazia, che è nel contempo una dimensione originaria e contemporanea. E' una dimensione originaria perchè l'incessante tensione alla democrazia assoluta, alla libertà dallo sfruttamento e dall'etero-direzione delle nostre vite rappresenta probabilmente l'elemento biopolitico più “antico” presente nella storia dell'umanità, costantemente represso e tuttavia sempre vivo, costantemente catturato, mediato, trasfigurato e tuttavia sempre eccedente, capace di riemergere nelle forme più disparate. Ma nel contempo rimanda ad una dimensione biopolitica contemporanea che assume come dato portante del nostro tempo presente l'inscindibilità dell'idea di democrazia da quello di vita, una inscindibilità così profonda da vincolare ai processi di liberazione le stesse prospettive di sopravvivenza del genere umano. Tale inscindibilità non può che proiettarsi anche nel contesto delle prospettive societarie. Le stesse caratteristiche della produzione materiale ed immateriale, le dinamiche comunicative, la trasformazione genetica del rapporto tra prodotto/ produttore/e conoscenza, la dimensione globale delle relazioni che infrastrutturano la produzione inducono inevitabilmente ad un'idea di democrazia che rinuncia definitivamente alla velleità di costruire luoghi generali delle decisioni per approdare ad un'idea di democrazia come molteplici e dinamiche piattaforme decisionali, che modificano configurazione e composizione a seconda dell'oggetto del decidere, all'interno delle quali anche l'elemento territoriale è variabile perchè definito di volta in volta dal singolo specifico processo decisionale che lo coinvolge.

La biodemocrazia come allusione societaria nell'assumere come fondante l'inscindibilità dei processi decisionali dai processi vitali sceglie progettualmente di rinunciare all'idea che la legittimazione delle decisioni possa derivare dalla sua provenienza da un luogo formale e permanente e, cioè, dall'istituzione intesa come infrastruttura di una organizzazione politica generale della società. Ovviamente questo non significa rinunciare a decisioni di portata generale ma semplicemente che la portata generale delle decisioni è data dal contenuto e non dalla forma, dal convergere nella medesima opzione di più piattaforme decisionali. Ma al di là dei termini e dei concetti che riteniamo adeguati ad esprimere in forma socialmente veicolabile l'idea di nuove pratiche di democrazia, certamente il tema dei beni comuni così come quello dell'insediamento di autonome fonti normative ci impongono un'analisi attuale delle modifiche che sono intervenute nel campo istituzionale e delle dinamiche reali attraverso cui si producono ed istituzionalizzano le decisioni.

- Il campo istituzionale

Nonostante le molteplici riflessioni sulle modifiche in atto e sulla trasformazione delle dinamiche governamentali, nel contesto delle nostre attività l'approccio al campo istituzionale appare spesso quasi inalterato, come se i dispositivi di governance attenessero esclusivamente ad una dimensione globale che ci è esterna, mentre sul piano “interno” il più delle volte la dinamica istituzionale viene affrontata in una sorta di dimensione “consuetudinaria” che riproduce incessantemente uno schema istituzioni/potere/società/movimenti fondamentalmente vecchio e sostanzialmente “ortodosso”. A consolidare un simile approccio contribuisce in maniera determinante una interpretazione delle modifiche in atto negli assetti istituzionali del nostro Paese come mera patologia berlusconiana, come processo incidentale che può essere chiuso recuperando i precedenti equilibri istituzionali. Certamente esistono profonde specificità che differenziano l'esperienza italiana da quella di altri Paesi, specificità che dobbiamo assumere nel ragionamento senza appiattirle in una visione erroneamente omogenea delle dinamiche globali. Ma nonostante ciò resta il fatto che le modifiche in atto nel nostro Paese hanno un fondamento tutt'altro che incidentale e sono anch'esse il frutto dei dispositivi di governance che non sono né interni né esterni, ma semplicemente globali, adattati attraverso i processi di legificazione alle innumerevoli disomogeneità che caratterizzano l'attuale contesto globale.

Nella disomogeneità-Italia le dinamiche di governance hanno prodotto e continuano a produrre una modifica profonda del campo istituzionale. La ripartizione “classica” tra istituzioni/partiti/potere economico/società ecc... è profondamente scombinata ed i processi decisionali si determinano in una zona sempre più grigia, una inter-zona che trasgredisce profondamente a quella dinamica istituzionale novecentesca all'interno della quale si è formato il nostro “consuetudinario” approccio al campo istituzionale. Una inter-zona densa di intrecci, dove sono implicati persino attori inconsapevoli e dove l'epicentro delle movenze decisionali si colloca all'interno di una dinamica sostanzialmente lobbistica, anch'essa, però, profondamente modificata: le lobby fuoriescono dalla dinamica classica del “gruppo di pressione”, intervengono direttamente nei processi decisionali, assumono la gestione di funzioni pubbliche, prendono in appalto pezzi esternalizzati di istituzioni e con i projects financing espropriano le amministrazioni territoriali di funzioni vitali. Tale inter-zona è un prodotto fisiologico della governance e penetra nel sociale molto più di quanto fosse in grado di fare la vecchia dinamica istituzionale. Ma ancora una volta il problema non è guardarsi alle spalle ed auspicare il ritorno alle garanzie istituzionali di un “sano” liberalismo ma comprendere quali sono gli spazi di azione che la “zona grigia” produce. In primo luogo la “zona grigia” chiude definitivamente ed irreversibilmente qualsiasi ipotesi di approccio identitario e generalista al campo istituzionale.

Le liste “ideologiche” e le schede elettorali con la bandiera rossa, non sono più solo residuati storici, ma veri e propri corpi inermi lasciati ai bordi dell' “inter-zona”. Le dinamiche identitarie che pure sono riscontrabili all'interno di una formazione politica come la Lega sono in realtà espressione rivendicativa di una composizione socio-economica materialmente esistente e territorialmente strutturata ovvero l'esatto opposto di quelle aspirazioni identitarie tutte ideologiche, sostanzialmente “fideistiche”, basate sul nulla dell'oggi e sull'impossibilità di un domani già tragicamente passato. Ma inerme ai bordi della “zona grigia” rimane anche quell'approccio pur sempre di natura identitaria abituato a misurare il grado di radicalità dell'azione quale mero riflesso della separatezza dal campo istituzionale. Nel mantenere inalterata la nostra irriducibile anti-istituzionalità come fondamento irrinunciabile dell'agire rivoluzionario (è gratificante ogni tanto riesumare questa espressione), resta il problema di cosa significhi realmente anti-istituzionalità oggi, di come essa si esprime all'interno di quella “zona grigia” dei processi decisionali che non consente la pedissequa riproduzione della dinamica intraneità/estraneità che abbiamo conosciuto in passato. Quante volte la dinamica istituzionale assume attraverso l'attività di lobby sembianze nuove ed irriconoscibili? In certi casi persino i comitati di cittadini sorti intorno ad una specifica problematica diventano strumento di lobby e parte di un dato processo decisionale. In altri casi i comitati stessi diventano attori di un'azione di lobby che nasce intorno ad interessi particolari e che contrasta, anziché favorire, processi reali di trasformazione sociale. Il campo istituzionale reale è oggi un intreccio inestricabile dai confini labili sicuramente non coincidenti con quelli formali, capace di penetrare il corpo sociale attraverso la legittimazione politica e culturale delle dinamiche lobbistiche come processo ordinario di produzione delle decisioni.

E' possibile oggi dichiarare semplicemente la nostra estraneità alla “zona grigia”? Oppure è necessario capire, come sempre in un ragionamento volto a trarre dalla stessa realtà materiale gli strumenti per modificarla, se esistono gli spazi per produrre “vicende” di rovesciamento dell'attuale dinamica di produzione delle decisioni dove azioni reali di “social-lobbying” siano capaci di impattare la “zona grigia” e di costituire strumenti di resistenza attiva all'interno di quella incessante ed impari attività di negoziazione che la governance porta con sé? Quello che possiamo dire con certezza è che la battaglia sui beni comuni, l'insediamento di fonti normative autonome, la possibilità di sperimentare pratiche di indipendenza e di biodemocrazia sono tutti temi che ci costringono ad una visone realistica dei processi, che ci impongono di conseguire risultati veri, seppur intermedi, tutti elementi in assenza dei quali rischiamo ancora una volta di chiuderci in una declinazione meramente ideologica, mentre il pragmatismo sociale ci scavalca, magari usando senza problemi etici o teorici le nuove dinamiche istituzionali per preservare il proprio quartiere o le proprie scuole dall' “invasione degli extracomunitari”.

Paolo Cognini

Mi consenta…Non lo consento


di Doriana Goracci
Non è esatto: Berlusconi, non dice più “Mi consenta”. Entra e buca lo schermo, irrompe. “La sfida è ora. Bisogna scrivere insieme una nuova pagina condivisa della storia della nostra democrazia e della nostra Italia”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nel messaggio televisivo che verrà trasmesso in occasione della ricorrenza della Liberazione.Già stamattina aveva dichiarato: “Dopo 65 anni, la nostra missione è ora andare oltre quel compromesso”.

Si da il caso che alle 16:11 Piazza Duomo, manifestanti tentano di sfondare e arrivare al palco . In piazza Duomo a Milano, alcune centinaia di giovani hanno tentato di sfondare il cordone della polizia per raggiungere il palco, mentre sta ancora parlando il presidente della provincia, Guido Podestà, contestato per tutta la durata del suo discorso. I giovani mostrano dei cartelli con la scritta “No ai raduni nazifascisti”;
il riferimento è al patrocinio dato da un consiglio di zona di centrodestra ad un concerto nazifascista.Su Indymedia poche ore fa si poteva leggere in proposito: Fascisti a Milano” In preparazione raduno nazifascista con la copertura di settori del Pdl e della Lega .Per la prima volta le varie sigle dell’estremismo nero hanno messo da parte le loro rivalità e si sono uniti, da Forza Nuova a Casa Pound e Blocco studentesco, da Fiamma Tricolore ai nazi-skin di Lealtà ed Azione, dal movimento della Santanché ad alcuni settori della Lega vicini a Borghezio, passando per diversi esponenti politici milanesi del Pdl, tra cui anche Fidanza, Frassinetti e Jonghi Lavarini.A Milano si sta preparando un raduno nazifascista in grande stile con la copertura di settori del Pdl e finanche della Lega Nord. Il tutto inizierà domenica prossima al Cimitero Maggiore con una messa in onore di Mussolini e proseguirà con una settimana di iniziative che durerà dal 24 aprile al 1° Maggio”.Alle 18,06 Il centro sociale Cantiere, protagonista a Milano di una dura contestazione, esprime “rispetto” per l’associazione partigiani e per i reduci, ma chiede risposte all’Anpi per la presenza sul palco della manifestazione di oggi di “chi finanzia le iniziative dei nazifascisti”. I militanti hanno spiegato di riferirsi in particolare alla settimana di eventi della destra radicale “finanziata dagli enti locali milanesi” per ricordare il 35mo anniversario dell’uccisione del giovane missino Sergio Ramelli. “Vorremmo ci fosse rispetto anche per i giovani antifascisti milanesi – dicono quelli del Cantiere. Chiediamo ai partigiani risposte per averospitato sul palco chi finanzia oggi le attività dei nazifascisti”.

Quasi due mesi dalla lettera scritta da Andrea Buffa , si scusava con tutti perchè aveva suonato per dei fascisti in un Caffè scorretto di Parabiago, vicino Milano: Anpi e Pd consapevoli.

Provocazioni marginali come 4.000 manifesti con il duce?

Oggi 25 aprile 2010, a Palermo:”Rubati centinaia di messaggi, disegni, lettere che, negli anni, sono stati lasciati sotto l’albero Falcone a Palermo. L’albero è diventato simbolo della lotta alla mafia. Portate via anche le foto del magistrato ucciso da cosa nostra nel ‘92, dell’agente di scorta Rocco Di Cillo, assassinato insieme agli altri poliziotti e alla moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e un lenzuolo bianco con scritto ‘le vostre idee camminano sulle nostre gambe’.”

In compenso di niente, si apprende che”L’amministrazione comunale di Catania ha disertato la cerimonia che si è tenuta nel chiostro di piazza Duomo per la celebrazione del 25 aprile promossa dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia” e alla quale “hanno partecipato 2.500 persone”. Lo rende noto l’Anpi, esprimendo “disapprovazione e indignazione”. “Un atto – prosegue l’Anpi – che offende la memoria dei 35 partigiani catanesi, tra i tanti, che hanno immolato la propria vita nella lotta contro i nazifascisti”. “Questa mattina, a parte la presenza di due vigili urbani, erano assenti i rappresentanti della Giunta e anche il presidente del consiglio comunale”
Era del 23 aprile la notizia che “Gli extracomunitari che vogliano aprire un negozio devono prima aver superato un esame d’ italiano: è quanto chiede la Lega, attraverso un emendamento al decreto legge incentivi, affidando alle Regioni il potere di introdurre i nuovi paletti”.

Spegnete le televisioni, accendete il cervello e la Memoria, cercate Altre InformAzioni, sfogliamo la pagina di storia di Radio Alice e della Libera InformAzione.Le nostre idee camminano con il cuore e il pensiero: sappiamo tradurre i messaggi della violenza da stato.

Abbiamo anche noi un nostro Banditore che dice Attenzione Attenzione.

Leggere senza fretta, lavorare con lentezza.Fare Rete.

di Doriana Goracci da Reset-Italia



lunedì 26 aprile 2010

"Sulla Resistenza romana e sulle vicende di via Rasella si sono dette troppe sciocchezze. Anche a sinistra"

di Rosario Bentivegna
Un "revisionismo" mistificatore e falso ha colpito soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza . Qui la fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto significative manifestazioni perfino su "L’Unità" di Furio Colombo, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi cara a tutti gli attendisti, e cioè che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen "fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere" (a parte lo spazio dato nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di "città aperta" di Roma, con un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante)
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre, ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini Spampanato e Guglielmotti, o dello "storico" Giorgio Pisanò, cantore dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena "guerra fredda", dei Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.

Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F., costretti ad avere quella "tessera del pane", solo 200.000 - il 5% - si iscrissero al P.F.R.).

I romani e la rete di solidarietà

I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei fascisti, isolati e "schizzati".

Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di "intelligence", anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei partigiani e della gente di Roma.

Dice Renzo De Felice: ("Il Rosso e il Nero", pag. 60): "Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fù la "difesa di se stessi", sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio di origine di una scelta opportunistica", che, aggiungo, ha aperto lo spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.

In quei terribili nove mesi Roma - anche per ragioni geografiche (eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) - è stata all'avanguardia (politica e militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi soldati impegnati sul fronte.

I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma "una città esplosiva", come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che subì alla fine della guerra.

Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.

Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.

Il costo della lotta partigiana

Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e dei civili ben 17 furono le donne.

Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che "città aperta"!); fame e miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l'uso delle biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 "polizie", tedesche e italiane, pubbliche e "private"!), gli assassinii compiuti a freddo nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80 fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta.....più la strage del Quadraro: su 700 cittadini deportati ne sono tornati solo 300!... più la strage degli ebrei , circa duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120....

I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735, oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei limiti di quel periodo, in nessun’altra città d'Italia.

Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si vendicò manifestando la sua brutale ferocia.

Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.

Roma era una "città esplosiva", e la non lontana esperienza di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già sperimentati.

La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di diffusione capillare che è difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il Centro Militare Clandestino dei "badogliani", ma anche piccole o piccolissime, che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.

Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.

Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro Portelli nel suo splendido libro "L’Ordine è stato eseguito" ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari.

Guerra di liberazione nazionale

La nostra è stata una "guerra di liberazione nazionale", la guerra di tutti gli italiani per la libertà e per la democrazia: furono i collaborazionisti dell'invasore che cercarono di trasformarla in guerra civile, ma ci riuscirono solo in parte perché la grande maggioranza degli italiani li respinse insieme ai loro protettori e padroni nazisti.

Del resto anche i dirigenti politici e militari di Salò, ma anche i tedeschi, sapevano molto bene come stavano le cose, altrimenti le feroci rappresaglie messe in atto nelle città, e quelle ancor più feroci e indiscriminate compiute sui monti e nelle campagne non avrebbero avuto motivo contro una popolazione schierata in qualche consistente misura dalla loro parte.

Due canzoni, una delle brigate nere e una delle brigate partigiane, ricordano in modo emblematico il clima in cui vivevamo: "Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera" cantavano i fascisti; e dall'altra parte: "Ogni contrada è patria di un ribelle / ogni donna a lui dona un sospiro" cantavano i partigiani.

Basti ricordare, per chi c'era, l'atmosfera di cupo infinito silenzio della nostra città, delle nostre contrade, deserte nei mesi dell'occupazione, e l'esplosione improvvisa di gioia, affollata, urlata, felice, che accolse le forze militari anglo-americane.

Eppure è sempre più frequente che la nostra guerra di liberazione venga ricordata come guerra civile.
Fa parte di una delle brecce che il revanscismo fascista è riuscito ad aprire nella memoria corrente...

- di Rosario Bentivegna da Indymedia

Lui ormai la chiama "festa della libertà"

E Liberazione fu


Nonostante le polemiche che da anni fanno da corollario al 25 aprile, moltissime persone hanno partecipato al corteo milanese per ricordare il passato e dire no al fascismo

Anche quest’anno è arrivato il 25 aprile, la festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, e come sempre le celebrazioni si sono svolte tra le polemiche. Da un lato quanti cercano di sminuire il valore di questa giornata e il ruolo dei partigiani, dall’altro quelli che tentano di impadronirsi di questa ricorrenza, trasformandola in appannaggio di una sola parte politica.
A porre fine a queste sterili polemiche di partito, ulteriore segnale dell’allontanamento della politica dalla vita della gente, ci hanno pensato le migliaia di persone che sono scese in piazza questo pomeriggio per partecipare al corteo, organizzato nella città di Milano, una delle ultime città a essere liberata dal nazi-fascismo. Il serpentone umano che ha animato la manifestazione è molto vario. Ci sono i partigiani dell’Anpi (associazione nazionale partigiani d'Italia) , i reduci, Emergency, i centri sociali, le bandiere di diversi schieramenti politici e infine anziani, ragazzi, bambini. Obiettivo comune ricordare il passato e rendere omaggio a quanti hanno lottato contro il fascismo.

Sul palco, allestito in piazza Duomo, si alternano i reduci, i partigiani, i lavoratori dell’Eutelia e le istituzioni di Milano rappresentate dal sindaco della città, Letizia Moratti, e dal presidente della Provincia, Giulio Podestà. Ed è proprio l’intervento di quest’ultimo al centro delle tensioni. Mentre il presidente della Provincia tiene il suo discorso, alcuni dei presenti iniziano a fischiare, fino all’arrivo in piazza Duomo del carro de Il Cantiere, centro sociale milanese. La musica e i megafoni coprono l’intervento di Podestà. “Abbiamo deciso di fare questo gesto – spiega Rossella de Il Cantiere – perché volevamo sottolineare la contraddizione della presenza di Podestà a questa manifestazione. L’uno e il due maggio si svolgerà a Milano un raduno di nazifascisti, patrocinato dalla Provincia. Anche il Comune di Milano, in un primo momento, appariva tra i patrocinatori, ma poi si è tirato indietro. Noi vogliamo sottolineare le similitudini tra il passato fascista e questo governo. Esprimiamo, invece, il rispetto più totale per chi è stato deportato o ha fatto il partigiano e ci appelliamo a queste persone perché ci aiutino a mantenere vivo il diritto di manifestare apertamente la propria opinione e a riconoscere il fascismo istituzionale”.

Il gesto del centro sociale ha diviso la folla. A molti è sembrato eccessivo, forte, poco democratico, mentre per altri si è trattato di una semplice protesta. Al di là della polemica, le testimonianze più belle restano quelle dei protagonisti, di coloro che hanno vissuto il 25 aprile del 1945 e che hanno contribuito a liberare l’Italia dalla dittatura.

PeaceRepoter ha intervistato Annunziata Cesani, partigiana in Emilia Romagna, membro della 36’ Brigata Garibaldi. “Chi ha vissuto il 25 aprile del ’45 – dice la donna – vive un momento particolare in questa giornata, perché ben conosce che questa data segnò la fine di vent’anni di dittatura, di stenti, di enormi privazioni per la maggior parte degli italiani e l’apertura di un momento nuovo. All’epoca si era consapevoli del grande contributo dato dai partigiani alla Liberazione e questo ci dava fiducia e speranza di conoscere un mondo migliore. Noi partigiani abbiamo vissuto grandi conquiste, ne comprendiamo la portata, ma sappiamo che ciò che è stato ottenuto, va difeso, perché si rischia di tornare indietro. Ci preoccupa l’intenzione espressa dal capo del governo italiano di voler modificare la Costituzione, perché questa Carta non può essere modificata in meglio. In questo 25 aprile va rinnovato l’impegno a difendere la Costituzione”. La ex partigiana è affaticata nel fisico dalla giornata, complice il caldo, ma lo spirito e la sincerità sono ancora quelli della combattente. “Non mi sono piaciuti i fischi e le contestazioni alla Moratti e a Podestà – conclude la donna -. La Resistenza non l’hanno fatta solo i comunisti, c’erano tante anime”.

di Benedetta Guerriero da PeaceReporter

È morto Paul Schaefer, nazista, torturatore, pedofilo.


Quando muore una persona, qualunque persona, di solito la cosa che si dice è «poverino», anche se non lo conoscevamo. Insomma viene fuori sempre qualche buon sentimento. Ma stavolta? La persona che è morta e di cui parlo aveva 88 anni e si chiamava Paul Schaefer. Da giovane era stato un nazista convinto, in Germania. Di quelli che credevano davvero alla razza superiore, allo sterminio degli abrei e a tutte quelle nefandezze lì. Finita la guerra, era rimasto in patria: in fondo era solo un caporale, chi poteva avercela con lui? Solo che Paul Schaefer non era uno come tanti: scappò dalla Germania inseguito da un mandato di cattura pr imprecisati reati sessuali. Quali reati lo si intuì qualche anno dopo: nel 1961 Schafer fondò in Cile, dove era scappato, una sorta di comune che si chiamava Comunidad Dignitad e dove radunò 300 famiglie di origine tedesca. Lì, l’ex caporale nazista violentò negli anni una ventina di bambini.

In Cile qualche anno ci fu il colpo di stato. Augusto Pinochet non ci pensò due volte ad arruolare tra i suoi un eminente nazista assassino. E così gli diede incarichi i speciali nella lotta contro l’opposizione. Sappiamo cosa intendeva Pinochet per lotta all’opposizione. Così Paul Schaefer, nazita e pedofilo, si potè dedicare al suo passatempo preferito: torturare la gente. Finita la dittatura in Cile, morto il suo protettore, Schaefer si diede alla clandestinità Lo arrestò l’Interpol, in Argentina, nel 2005. Nel 2006, estradato in Cile, venne condannato a 20 anni di carcere per 25 reati.

Paul Schaefer era ra nazista, torturatore, pedofilo. È morto. A qualcuno dispaice?

http://www.kronaka.it

da Indymedia

sabato 24 aprile 2010

25 aprile: il fiore del partigiano


Anniversario della liberazione

Il circolo di nardò di ‘sinistra ecologia libertà’ invita cittadini partiti e associazioni a ricordare la liberazione e celebrare la resistenza e i suoi valori.



NARDO' – p.za Salandra 25 aprile – ore11.30

venerdì 23 aprile 2010

IL MITO DELL’ “UNIVERSALITA’” DEI DIRITTI UMANI…

“IMPERIALISMO” O “PLURALISMO” CULTURALE (E MORALE)?

QUAL’E’ FONDAMENTO PER I DIRITTI DELL’UOMO?

di Gaspare Serra
La “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948 (cd. Dudu) enuncia una lunga serie di diritti umani senza mai indicarne, però, il fondamento ultimo (o la ragion d’essere).
Perché mai, allora, riconoscere tali diritti come “universali” (spettanti all’intera Umanità)?
Dove traggono fondamento i “presunti” caratteri distintivi dei diritti umani (ossia il loro essere “fondamentali”, “universali”, “inviolabili” e “indivisibili”)?

DIO COME FONDAMENTO DEI DIRITTI UMANI?
Alison Renteln, nell’opera “International Human Rights”, distinse tre possibili fondamenti dei diritti umani:
1- l’autorità divina;
2- la legge di natura;
3- e la ratifica internazionale dei trattati (ossia l’accordo o “consenso” degli Stati).

Molti autori così, tra cui Michael Perry, rintracciarono il fondamento dei diritti umani direttamente in Dio: solo pensando agli uomini come opera di Dio (e, per ciò stesso, “sacri”) vi sarebbero ragioni per credere nell’“universalità” e nell’“inderogabilità” di tali diritti, volti a proteggere proprio la dignità di tale essere sacro.

In tale ottica non stupisce più di tanto leggere nella “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America” (del 4 luglio 1776) quanto segue: “Reputiamo di per sé evidentissime le seguenti verità:
1- che tutti gli uomini sono stati creati uguali;
2- che il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili;
3- e che tra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.
Ancor oggi, del resto, nel Preambolo della “Carta araba dei diritti dell’uomo” (adottata dal Consiglio della Lega degli Stati Arabi il 15 settembre 1994, ma non ancora in vigore) si legge: “premessa la fede della Nazione Araba nella Dignità dell’uomo, sin da quando Allah l’ha onorata...”.
Nella “Dichiarazione del Cairo” (approvata dalla XIX Conferenza islamica dei ministri degli esteri), inoltre, si afferma che:
1- il fondamento dei diritti umani (definiti “comandamenti divini vincolanti, ex art. 2 e 10) si trova nella religione islamica;
2- e i diritti umani possono essere esercitati solo in conformità alla “sharia” (ex art. 2, 7, 12, 16, 19 e 22).

Il limite principale di questa tesi, però, è quello:
1- da un lato, di condurre a una sorta di “idolatria dei diritti umani” (fatti coincidere, per lo più, con i principali valori condivisi dalle tre grandi religioni monoteiste e creazioniste del mondo);
2- dall’altro, di far perdere di validità universale gli stessi (risultando difficile che diritti strettamente legati ad una specifica e parziale visione religiosa possano rivolgersi all’intera umanità!).
Il pericolo maggiore, dunque, è quello:
1- di considerare i diritti umani come una sorta di “nuova religione dell’umanità”;
2- e di trasformare la loro difesa in una sorta di “neo-crociata”, possibile foriera di contrapposizioni ideologiche, di manifestazioni di intolleranza e di conflitti tra civiltà!

LA LEGGE DI NATURA COME FONDAMENTO DEI DIRITTI UMANI?

Le principali teorie sulla fondazione dei diritti dell’uomo si basano, allora, sull’idea dell’esistenza di una “legge naturale”, di cui i diritti umani rappresenterebbero un’espressione, un elemento “intrinseco”.
Tali teorie (di matrice “occidentale” e “giusnaturalista”) propugnano l’idea dell’esistenza di un “nucleo essenziale” di diritti e libertà che apparterrebbero all’uomo in quanto tale, prescindendo:
- sia dalla credenza o meno nell’esistenza di un Dio e nel creazionismo;
- sia dall’esistenza o meno di un dato diritto positivo (dunque, dalla volontà degli Stati).
I “diritti umani”, così, diverrebbero sinonimo di “diritti naturali”, concetto di origine ben più antica: furono i filosofi greci (Aristotele e gli stoici su tutti) ad affermare per primi l’esistenza di un “diritto naturale” come insieme di norme di comportamento la cui essenza l’uomo ricava dallo studio delle leggi naturali (cd. “giusnaturalismo”).
Immanuel Kant, nelle opere “Fondazione della metafisica dei costumi” (1785) e “Metafisica dei costumi” (1797), in un’ottica più razionalistica e moderna, individuò nella “dignità della persona” (o “dignitas”) il fondamento ultimo del riconoscimento universale dei diritti umani.
La dignità dell’uomo consisterebbe in un “valore intrinseco assoluto” che imporrebbe a tutti gli altri esseri umani il rispetto sia della propria persona che della persona altrui: “il rispetto che ho per gli altri -scrive Kant- è il riconoscimento della dignità che è negli altri”.

Il limite principale delle teorie giusnaturaliste, però, è:
1- in primo luogo, l’assoluta incontrovertibilità di ogni assunzione metafisica. Questa, infatti, presupporrebbero una definizione univoca almeno dei concetti di legge di natura, di natura umana e di dignità della persona, definizione ancor oggi problematica da realizzare a livello universale;
2- in secondo, il rischio di trasformare i diritti umani in una sorta di comandamenti di una “nuova religione laica”!

NESSUN “FONDAMENTO ASSOLUTO” E’ POSSIBILE PER I DIRITTI DELL’UOMO!

Date queste premesse, molti autori giungono a negare alcun fondamento “metafisico” (o “assoluto”) dei diritti dell’uomo!
Nell’opera “Una ragionevole apologia dei diritti umani” (Feltrinelli, Milano, 2003) Michael Ignatieff sostiene che i diritti umani non possono essere considerati come un’espressione normativa della natura umana: in un certo senso, anzi, sono contro natura!
La moralità umana e i diritti umani, infatti, rappresenterebbero un tentativo di correggere e contrastare le tendenze naturali che abbiamo scoperto in quanto esseri umani: “non c’è niente di sacro negli esseri umani -sostiene Ignatief-, niente a cui spetti di diritto venerazione o rispetto incondizionato”.

Secondo Norberto Bobbio i diritti dell’uomo nascono gradualmente in un contesto storico ben determinato, attraverso “lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri”.
Definire certi diritti naturali, fondamentali, inalienabili o inviolabili significa, dunque, usare “formule del linguaggio persuasivo” che possono avere la funzione pratica di dare maggior forza retorica a un documento politico, ma che “non hanno nessun valore teorico”.
Ogni ricerca di fondamento assoluto, dunque, è infondata!
Come è possibile, del resto, trovare un fondamento assoluto in diritti:
- di cui non si ha una nozione precisa (la stessa espressione “diritti dell’uomo” è di per sé molto vaga)
- e così eterogenei e in conflitto tra loro (essendo molti in concorrenza, ad esempio il diritto a non essere torturati e quello alla sicurezza)?
Due diritti antinomici, infatti, non possano avere un fondamento assoluto: un diritto e il suo opposto non possono essere entrambi inconfutabili!

I diritti umani, inoltre, rappresentano una “classe variabile”, ovvero mutano nel tempo assieme alle condizioni storiche.
Diritti considerati assoluti nel passato (come la proprietà nella Dichiarazione francese del 1789) sono stati assai limitati dalle dichiarazioni contemporanee, a dimostrazione dell’inesistenza di diritti per loro natura “fondamentali”.
Allo stesso modo, nel futuro potrebbero essere ritenuti fondamentali diritti (come quello all’ambiente o alla vita animale) che tali oggi non sono!
Ciò, dunque, rende difficile rintracciare un “fondamento assoluto” in diritti storicamente “relativi”!

IL “CONSENSO DEGLI STATI” UNICO FONDAMENTO DEI DIRITTI UMANI

Secondo autori come Bobbio o Ignitieff, in conclusione, l’unico fondamento possibile per i diritti umani è quello “storico” (e politico) del “consenso” tra i principali soggetti della Comunità internazionale, ossia gli Stati (manifestato attraverso la ratifica di trattati internazionali, nella specie sui diritti dell’uomo).
Sostiene Ignatieff: occorre “smettere di pensare che i diritti umani siano delle specie di briscole” al di sopra della politica oppure “il credo universale di una società globalizzata, o una religione secolare” e, piuttosto, bisognerebbe interrogarsi su ciò a cui servono tali diritti.
I diritti umani vanno ridotti a mere norme giuridiche: non devono essere considerati una religione bensì il tentativo di indicare i valori e i disvalori che tutti gli Stati dovrebbero assumere come criteri nella loro azione.
Riconoscere un fondamento “consensualistico” ai diritti umani, però, comporta inevitabilmente la rinuncia a ogni pretesa di “universalità” degli stessi (essendo il loro fondamento legato alle esigenze ed agli interessi degli Stati, per loro natura mutevoli).
Ed è questo l’aspetto più delicato e rivoluzionario, ma pragmatico e realistico, di questa prospettiva.

“UNIVERSALITA’” DEI DIRITTI UMANI: COSTRUZIONE DI UN MITO…

Il diritto internazionale, dalla Dudu in avanti, ha sempre ribadito il carattere “universale” dei diritti umani.
Questi diritti, dunque:
a- si rivolgerebbero all’intera Umanità (che dovrebbe beneficiare degli stessi);
b- e imporrebbero agli Stati precisi parametri di valutazione della legittimità internazionale della propria condotta (questi, nell’esercizio dei propri poteri sovrani, dovrebbero garantire la non ingerenza statale nell’esercizio individuale di tali diritti).
Ma ha davvero senso parlare di “universalità” dei diritti dell’uomo?
Quanto è “reale” (o, meglio, “possibile”) questa pretesa “universalità”?
Questi parametri di condotta per gli Stati, in altri termini, sono interpretati e applicati uniformemente in ogni parte del mondo?

Profonde e radicate appaiono, piuttosto, le differenze nell’interpretazione e nell’attuazione dei diritti umani nel mondo.

Da un punto di vista filosofico:
a- mentre l’Occidente è legato ad una concezione “giusnaturalistica” dei diritti umani, in base alla quale questi sono connaturati alla persona umana e prescindono dalle leggi statuali (ogni Stato è tenuto al loro rispetto e lo Stato che li viola può legittimamente essere contestato dai suoi cittadini);
b- i paesi di tradizione socialista (la Cina su tutti) sono legati a una concezione più “statalista” dei diritti dell’uomo, ritenuti esistenti solo nella misura in cui riconosciuti da leggi dello Stato (non preesistendo allo stesso, ogni Stato sarebbe sovrano sia nel definirli sia eventualmente nel limitarli o circoscriverli in ragione di interessi pubblici o superindividuali).

Da un punto di vista politico:
a- mentre in Occidente si tende a privilegiare i diritti civili e politici, rivendicati originariamente come risposta allo strapotere dello Stato assoluto;
b- nei paesi in via di sviluppo si presta per evidenti ragioni maggiore attenzione ai diritti economici, sociali e culturali, ritenuti intrinsecamente primari rispetto a quelli civili e politici (il diritto a nutrirsi, al lavoro ed alla casa sono per loro natura prioritari rispetto al diritto al voto ed alle libertà personali).

Da un punto di vista religioso:
a- mentre nei paesi cristiani il rispetto della persona è un principio cardine dello Stato di diritto;
b- in molti paesi islamici (e tendenzialmente teocratici), invece, è il rispetto dei principi religiosi (della “sharia”) precondizione essenziale per il rispetto della persona. Solo un buon fedele musulmano, in pratica, può legittimamente vantare per sé tali diritti!
Ciò spiega perché nella “Dichiarazione del Cairo” (approvata dalla XIX Conferenza islamica dei ministri degli esteri) si afferma che il fondamento dei diritti umani va individuato nella religione islamica, alla luce della quale vanno interpretati i diritti umani.

Tali differenti visioni dei diritti dell’uomo spingono a ritenere un “mito” parlare di “universalità” di tali diritti: l’universalità non si è affatto realizzata e, tutt’al più, può porsi come un possibile traguardo futuro!

La pretesa di “uniformare” universalmente le culture dei diritti umani, piuttosto, può nascondere in sé seri pericoli, quali il rischio di trasformare la difesa di tali diritti (ricordiamo, di matrice “occidentale” e “giusnaturalistica”):
a. in una forma di “imperialismo culturale” con cui ambire ad imporre nel mondo una sola cultura e morale (come in una sorta di “tirannia di una maggioranza etica”);
b. e in un pretesto utile finanche per giustificare il ricorso alla guerra (o, più in generale, all’uso della forza) come strumento di difesa dei diritti umani ovunque siano minacciati e di esportazione del modello di libertà e democrazia occidentale in ogni parte del mondo (sorvolando sul fatto che è la guerra in sé a rappresentare la più grande violazione della dignità umana!).

Il vizio originario della dottrina occidentale dei diritti umani, del resto, è che essa poggia le propria fondamenta ideologiche su una Carta, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, tutt’altro che espressione di valori “universali”, bensì palesemente messaggera di una visione etica e culturale prettamente occidentale.
I diritti sanciti nella Dudu, difatti, hanno un’indiscussa matrice cristiana e illuministica, trovando in S. Paolo e in alcuni filosofi europei gli immaginari precursori ideali.
La Dichiarazione del ’48 rappresenta, anzi, proprio il prodotto dell’“individualismo liberale” (solo in parte mitigato da qualche influenza sovietica), non a caso frutto del lavoro di un Comitato incaricato di redigere il testo della Carta composto prevalentemente da rappresentanti di paesi occidentali (molti stati del mondo, così, non essendo ancora nemmeno stati costituiti all’epoca, non hanno partecipato a tali lavori).
Per questo il professore Andrea Rigon arrivò a definire i diritti umani sanciti nella Dudu “un regalo della cristianità e della razionalità illuminista al mondo”!
La Dudu, in conclusione, non rappresenta valori comuni mondiali bensì costituisce “una dichiarazione monista che si auto-eleva a legge universale, sebbene sia l’espressione di una limitata parte dell’umanità”, concluse Rigon.

Come può, dunque, rappresentare un “ethos globale” una Carta, più che rispettosa della pluralità di culture e dei popoli, sorta da un compromesso raggiunto tra poche potenze mondiali (Stati Uniti, Europa e Urss)?

L’ “UNIVERSALISMO MINIMALISTA” UNICA ALTERNATIVA ALL’UNIVERSALITA’ ASSOLUTA DEI DIRITTI UMANI

Una ragionevole alternativa sia all’universalità assoluta dei diritti umani sia al contrapposto “relativismo etico globale” appare la teoria dell’“universalismo minimalista”, prospettata da Michael Ignatieff (direttore del “Carr Center of Human Rights Policy” di Harvard).
Di fronte ad una Comunità internazionale irrimediabilmente divisa sul terreno dei diritti umani (incapace di fornire una definizione universalmente condivisa dei diritti umani), Ignatieff propone la rinuncia ad ogni pretesa universalistica in nome della ricerca comune di un “consenso politico minimo” intorno ad alcuni diritti umani essenziali più universalmente possibile condivisibili.
Lo studioso americano suggerisce di superare l’empasse attuale ricercando alcuni minimi ed essenziali punti di convergenza della Comunità internazionali nel rispetto delle specificità storico-culturali dei vari Paesi.
Ridotti “all’essenza”, infatti, i diritti dell’uomo cesserebbero di rappresentare presso le culture diverse dalla nostra un’intrusione “neoimperialista”: un’imposizione dello stile di vita, dei valori e della visione del mondo tipicamente occidentale.
I diritti umani assumerebbero un carattere meno “imperiale” se diventassero più “politici”, se fossero percepiti non come un linguaggio per proclamare “verità assolute” bensì come uno strumento per la soluzione dei conflitti e la tutela degli individui dagli abusi di potere.
Questo “nucleo ristretto” di principi e precetti minimi individuati dagli Stati, risulterebbe universalmente condiviso se al contempo:
a- compatibile con un’ampia varietà di modi di vivere e di pensare (col “pluralismo” cui abbiamo fatto cenno);
b- senza, al contempo, rinunciare a apprestare una tutela ai fondamenti essenziali della dignità umana ovunque nel mondo.
Più concretamente, risponderebbero a questi requisiti solo quei diritti che si limitassero a definire “libertà da” (ovvero “libertà negative”, a protezione della capacità d’azione dell’individuo) senza indicare “libertà di” (ovvero “libertà positive”).
Filtrare la “quintessenza occidentale” della teoria dei diritti dell’uomo può rappresentare l’unico compromesso possibile per superare le divisioni tra le diverse Civiltà senza per questo giungere ad alcuno “scontro di Civiltà”!
Lo sforzo apprezzabile dell’universalismo minimalista è quello di tentare di conciliare:
a. l’universalità dei diritti umani;
b. con l’ineliminabile “pluralismo culturale e morale” che contraddistingue la Comunità internazionale.
Ignatieff, infatti, non abbandona affatto la prospettiva universalistica, indicata però solo come un traguardo possibile.

Quali sarebbero questi “valori universalmente condivisi”?
Tale nucleo essenziale dei diritti umani potrebbe pacificamente farsi coincidere con le più gravi violazioni dei diritti dell’uomo, su cui ampio e unanime è la condanna internazionale, quali:
1- il genocidio;
2- la discriminazione razziale (in specie, l’apartheid);
3- la tortura e i trattamenti inumani o degradanti;
4- e il mancato riconoscimento del diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Intorno a questi valori sarebbe possibile formare un accordo tendenzialmente tra tutti gli stati del mondo.
Nulla impedirebbe, inoltre, la maturazione nel tempo (a cui possono contribuire, al contempo, processi sia di “regionalizzazione” che di “settorializzazione” dei diritti umani) di una convergenza sul riconoscimento su scala universale di un nucleo sempre più ampio di diritti, quali quello alla vita, all’alimentazione, all’accesso all’acqua, alla protezione sanitaria, alla sicurezza, alla libertà di manifestazione del pensiero o alla partecipazione dei cittadini alle scelte dei propri governi tramite libere elezioni…
Da tali premesse, il filosofo Alessandro Ferrara è arrivato a proporre una Seconda Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la quale risponda pienamente alla funzione di identificare quei pochissimi diritti “genuinamente fondamentali”, formulati in un “linguaggio neutrale” rispettoso delle diversità culturali tra i popoli.
Un traguardo forse ancora troppo prematuro e ambizioso per essere perseguito, ma verso il quale -c’è da scommettere- la Comunità internazionale prima o poi dovrà rivolgersi…


Gaspare Serra
(Università degli Studi di Palermo - Giurisprudenza):
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Blog “Spazio Libero”:
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XIV Festival Pianistico di Spoleto 2010 in carcere

Eros e Thanatos.
Amore e morte nella letteratura e nella Musica.

20 aprile 2010, nella casa di reclusione di Maiano s’è svolta una giornata della XIV edizione del Festival Pianistico di Spoleto.
In carcere si ha tanto tempo ed è un peccato che normalmente tutto questo sia sprecato.
Oggi non è accaduto.
Oggi ai cattivi è stata data la possibilità di essere umani.
È difficile per delle persone che vivono da dieci, venti, trenta anni chiusi in una cella riuscire a essere ancora umani.
Eppure oggi ci sono riusciti.
Oggi ad alcuni di noi è stata data la possibilità di esistere.
Giovanni T., Giovani S., Pino, Salvatore, Francesco, Carmelo, Giuseppe, Andrea e Girolamo sono stati le voci narranti di brani di letteratura d’amore e morte.
Accompagnati con il pianoforte da Laura, Filippo ed Egidio.
La musica ha trasformato la nostra rabbia e il nostro dolore in pensieri d’amore.
L’amore è la cosa che manca di più in carcere, ma i cattivi non hanno ancora perso l’abitudine ad amare e a essere amati.
Oggi i “cattivi” si sono commossi.
Molti di noi non potranno mai più essere felici.
Eppure continuiamo ad amare e a credere nell’amore.
Oggi ci siamo sentiti meno soli, meno uomini ombra e meno cattivi.
Oggi ci siamo sentiti ancora amati dal mondo che c’è fuori dal muro di cinta.
Ma domani sarà un giorno uguale a ieri e diverso da oggi.
Poi abbiamo interpretato anche parole di morte perché il carcere è soprattutto e anche un mondo di morte.
La morte è la migliore amica del detenuto e dell’ergastolano.
-Le nostre carceri sono quelle dove si muore di più. (Fonte: L’Unità giovedì 15 aprile 2010).
Con l’augurio che Thanatos esca fuori dai nostri cuori e dalle nostre celle, i detenuti e gli ergastolani in lotta per la vita del carcere di Spoleto ringraziano gli organizzatori del Festival Pianistico di Spoleto 2010, soprattutto l’organizzatrice interna Eleonora, le due docenti di lettere Daniela Masciotti, Luciana Santirosi e il personale della casa di Reclusione di Spoleto.

Carcere Spoleto 20/04/2010

Gino Strada attacca Il Giornale e Libero: "Spazzatura"

giovedì 22 aprile 2010

25 Aprile Taranto - Mobilitazione generale presso la Rotonda del Lungomare


A 65 anni dalla Liberazione dell'Italia dal nazifascismo, movimenti, associazioni cittadine e studentesche, sindacati, collettivi, partiti e giovanili, lanciano una giornata di mobilitazione per il 25 Aprile, che si terrà presso la Rotonda del lungomare dalle ore 11.00 alle 21.00. Dirsi antifascisti, oggi non è un gesto o un atto retorico di chi non vuole superare steccati ideologici. Essere antifascisti oggi significa affermare con chiarezza e forza l'opposizione radicale ai fascismi striscianti che in Europa e in Italia sono sempre più presenti e che qualcuno ignora o finge di non vedere. Razzismo, omofobia, repressione, censura sono tutti sinonimi della parola fascismo e che compongono le politiche e gli atteggiamenti del Governo Berlusconi. L'antifascismo è un valore delle nostre organizzazioni, un valore non come atto solo di memoria storica, ma una pratica che vive nella quotidianità delle nostre pratiche, partendo dagli atti di resistenza, dai presidi culturali costruiti contro l'ondata sottoculturale che i gruppi neofascisti, attraverso un becero populismo, tentano di portare all'interno dei luoghi della formazione.

Quest'anno la giornata del 25 aprile, deve acquisire un valore centrale nell'azione politica delle nostre Organizzazioni all'interno delle scuole, dell’università, della città. Bisogna andare oltre l’autocelebrazione.

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un graduale ma crescente attacco all'esperienza straordinaria della Resistenza, ed ai valori che essa rappresenta: un'offensiva scagliata su più fronti e su differenti livelli. Un attacco frontale alle azioni partigiane e ai partigiani stessi che hanno liberato il Paese. Sul piano ideale, d'altro canto, assistiamo ad una offensiva frontale verso gli ideali e i valori di cui le donne e gli uomini che presero parte alla Resistenza si fecero portatori, e di cui la Carta Costituzionale rappresenta la sintesi perfetta; ideali di libertà, uguaglianza, giustizia sociale e rispetto dell'altro da sé, che vengono oggi messi in discussione non solo da chi si proclama apertamente fascista, ma anche, in maniera più subdola e strisciante, da personaggi che gravitano in partiti e che governano il paese.



La nostra lotta deve vivere nelle scuole, nelle università e nelle piazza innanzitutto di un lavoro culturale che scardini le logiche della forza, dell’individualismo e del pensiero semplice. Un antifascismo quindi che si batta per la difesa dei valori della Costituzione, della partecipazione, della libertà di espressione contro ogni repressione e violenza.

Rilanciamo questi valori nelle scuole e nella società tutta; scegliamo di reagire con forza e determinazione a chi ripropone oggi l’odio, la violenza e la volontà di sopraffazione sconfitti 65 anni fa. La Resistenza oggi la si difende rifacendola, difendendo e lottando per conquistare la cosa per cui si sono battuti i partigiani: la dignità. Lo si fa in piazza e per strada, nei luoghi della formazione e nelle città, cercando di rimettere le nostre vele sulla rotta dei venti della Storia.

Sindacato Studentesco LINK Taranto
Uds Unione degli Studenti Taranto
Cloro Rosso CSOA
Palestra Popolare Mustakì Taranto
Coperativa Owen
Radio Popolare Salento
ANPI
Arci
Libera
Simbiosi Moderne
Sud in Movimento
Sinistra Critica
Sinistra Ecologia Libertà
Partito dei Comunisti Italiani
Rifondazione Comunista
Giovani Democratici Taranto

da GrandeSalento.org