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sabato 17 aprile 2010

Le notti Hip-hop che sconvolsero il mondo


di Militant A Assalti Frontali
“La libertà è una strada percorsa poche volte dalla moltitudine”. Questa frase stampata sulla copertina del disco bomba dei Public Enemy, “It take a nation of million to hold us back” (ci vuole una nazione di milioni di persone per riportarci indietro), chiuse la prima era dell’hip-hop. Era la fine degli anni ’80. Il rap veniva da un periodo d’oro di creatività enorme. Nei ghetti malfamati e in rovina si era prodotta un’atmosfera di libertà artistica e di sperimentazione assoluta che aveva permesso la nascita di un linguaggio così esaltante che il mondo intero si voltò a guardare in quella direzione. Tutto si svolgeva nei parchi, all’aperto, o nei cortili dei project. Feste gratuite, ogni settimana, con allacci abusivi dei gruppi elettronici alla rete elettrica, in una eccitazione costante. Dopo alcuni omicidi c’era una tregua tra le gang di New York, decisa nel corso di un’assemblea ripresa anche nel film “I guerrieri della notte”, e ora i colori delle gang non avevano più importanza. L’elemento di distinzione divenne quello dello stile. Le feste erano celebrazioni dove esibire il proprio stile e lì si decideva chi fosse il più abile a mettere i dischi o a ballare o a parlare al microfono e a diventare quindi la “celebrità del ghetto”. I valori erano quelli che Afrika Bambaataa cantava nei suoi pezzi: Peace, Unity, Love and Fun. Lui aveva partecipato alla famosa assemblea della tregua e sapeva cosa significavano quelle parole. Non giravano soldi. Nessuno ancora concepiva che ci potesse essere qualcuno disposto a pagare per vedere un Dj o un rapper all’opera, quando ogni settimana questi si esibiva gratuitamente nel suo quartiere. Il primo rap in Italia nacque sotto l’influenza di quel periodo e di quello spirito. Io personalmente mi innamorai di quelle originarie radici dell’hip-hop e iniziai così a fare rap. Oggi molti mi domandano di rievocare quei tempi e nell’ultima settimana sono stato invitato a due conferenze sulla cultura hip-hop, una a Rimini e l’altra a Pisa, all’università, dove era presente anche Pippo “U.Net” Pipitone, senza dubbio uno dei più accreditati studiosi e conoscitori del genere nel mondo. Sono incontri organizzati dai centri sociali e dai movimenti universitari nati dall’onda che si interrogano sui linguaggi delle nuove generazioni precarie. I ventenni di oggi, venuti al mondo nell’89, crescono nel rap a modo loro, ma vogliono sapere. E c’è un grande attivismo locale. A Milano, a Reggio Emilia, a Empoli, a Roma, dentro i centri sociali nascono laboratori hip-hop che rievocano quello spirito comunitario e democratico. Non è ancora roba che riesce a entrare nelle radio (e chissà se mai ci entrerà), ma i ragazzi mi dicono che la più grande emozione per loro è sentire i pezzi che hanno appena registrato nei sound system durante le iniziative in piazza, come il primo marzo in occasione dello sciopero dei migranti. E questo mi ricorda certe cose dei giorni pionieri. Negli incontri si discute del ruolo della droga, del ruolo delle donne nei testi, del significato che ha fare politica oggi. Ognuno è figlio del proprio tempo, ma se il movimento nutrirà nuove rime, anche il rap spingerà ancora il movimento.

da GlobalProject

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