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lunedì 28 giugno 2010

Psicologia da pagliacci


di Augusto Illuminati

«Un problema psicologico». Questo era la crisi per Berlusconi, questo è la disfatta sudafricana per Lippi. Stessa faccia, stessa razza. Mai come adesso il fallimento politico è una metafora di quello sportivo (e viceversa, ma quella sarebbe banale).

Con la crisi, un Berlusconi non ce lo possiamo più permettere. Faticosamente il ceto dirigente italiano se ne sta rendendo conto e opera con cautela per sganciarsene.

Dal momento, però, che non sa come uscire dalla crisi –un limite comune a tutti gli attori strategici europei– non riesce a decidere né i tempi né i modi del ricambio. Cerca tuttavia di apprestarne gli strumenti tecnici e ideologici, con il grosso problema di non aver ancora trovata una leadership sostitutiva, per di più dopo anni di esasperata personalizzazione della politica: un logo servirebbe e come!
Dal momento, però, che non sa come uscire dalla crisi –un limite comune a tutti gli attori strategici europei– non riesce a decidere né i tempi né i modi del ricambio. Cerca tuttavia di apprestarne gli strumenti tecnici e ideologici, con il grosso problema di non aver ancora trovata una leadership sostitutiva, per di più dopo anni di esasperata personalizzazione della politica: un logo servirebbe e come!


Che Berlusconi, al momento in vacanza-premio, perda colpi è lampante: bloccato di fatto sulla legge per le intercettazioni, sputtanato sul legittimo impedimento dalla goffaggine di Brancher, silente sulla manovra economica (quando non scivoli in balle stratosferiche come l’Italia paese più ricco d’Europa o il presunto veto alla tassazione europea sulla finanza), oscurato all’inutile G8-G20 in Canada, incastrato fra Napolitano, Bossi e Fini sull’azione di governo e nel contempo impossibilitato a indire elezioni anticipate, il pagliaccio di Arcore cerca affannosamente un’occasione di rilancio che peraltro non arresterebbe il declino irreversibile della sua strategia politica e mediatica. Il quando della sua caduta è diventato meno rilevante del la configurazione del dopo Berlusconi. I concorrenti alla successione o i kingmakers sono decisamente più inquietanti del leader al tramonto. L’aria è quella sbrigativa del «dopo-Cristo» evocato da Marchionne in abbigliamento casual e ghigno decisionista, del Fini in kippà proclamante prioritaria la sicurezza di Israele, dell’uscita dal Novecento ideologico e scioperato cui aspirano Tremonti, Marcegaglia e Sacconi. Il contenuto: la rapida correzione dei conti pubblici a costo di frenare il Pil, una scelta di austerità piuttosto che di rilancio dello sviluppo –l’inverso della linea Usa e delle proposte di Soros e Krugman. Il tutto garantito dalla debolezza del mercato del lavoro causa disoccupazione. Per fortuna, ci sono troppi galli a cantare. Per di più con un contorno di polli starnazzanti, economisti rintronati, colonnelli aennini alla sbando, ladroni colti con il sorcio in bocca, giornalisti ahimé senza bavaglio, capezzoni in cerca del prossimo padrone.


Il contorno clownesco del “ricambio”, ben poco mutato rispetto all’èra berlusconiana, non deve offuscare la sostanziale pericolosità di un’operazione dei poteri forti che è economicamente dissennata quanto socialmente devastante. Senza contare gli effetti politici su forze di opposizione che, anch’esse prive di un leaader, anelano disperatamente a ritrovare un ruolo qualsiasi, a costo di rovinare ulteriormente il loro radicamento. Esse infatti non sembrano affatto prepararsi bene al nuovo round. Non ci soffermiamo tanto sul patetico annaspare del Pd intorno a scadenze parlamentari superficialmente ripensate (intercettazioni e riforma universitaria) e accadimenti quali Pomigliano, mancati oppure occasione di divisioni e pessime profezie, quanto su strategie che si vorrebbero più radicali e di base. In un vibrante articolo sul manifesto del 26 giugno Marco Revelli, con accenti quasi weberiani traccia un elogio nostalgico del confronto conflittuale “moderno” fra imprenditore produttivo e lavoratore fordista, depositari dell’innovazione schumpeteriana e della dignità di classe, che si rispettano a vicenda perché innanzi tutto rispettano se stessi. Che Marchionne svilisca l’epica industriale aggrappandosi ai quaquaraquà del sindacalismo giallo è probabile, ma l’intelligente resistenza di Pomigliano andrebbe forse letta non come baluardo residuale dell’etica del lavoro, piuttosto come aggressivo opportunismo post-fordista.

Di questo ha paura la Fiat, che non se la sente di affidare alle schiene ossequiose dei sindacati firmatari la «nuova Panda schiavi in mano» –secondo il beffardo cartello innalzato nello sciopero del 25 giugno. Non paventa il ritorno della modernità industriale, del Novecento keynesiano, dell’avanti-Cristo, magari del lavoro e persona, per dirla con Tronti, del rispetto dell’uomo e della promozione del lavoro, per dirla con il cardinal Bertone, ma della guerriglia materiale, dell’inaffidabilità che è il prezzo della precarizzazione, del declassamento sistemico delle competenze. Siamo tuffati nel mondo di Sacconi e Gelmini, del regresso ai lavori umili e all’apprendistato (lo stesso fanno in Cina con la forza lavoro intellettuale inoccupabile), ma allora ha ragione Sergio Bologna a gettar luce sul degrado dei rapporti di forza e, sì, della dignità umana che consegue, inavvertito da un paio di decenni, dalla flessibilizzazione del lavoro. Di qui deve partire la resistenza e sotto questa luce l’opportunismo di chi ha dosato i no e i sì a Pomigliano, gettando nel marasma Fiat, governo e krumiri senza prestarsi a fare da capro espiatorio, assume un inedito rilievo. La gestione del referendum in una fabbrica chiusa da due anni è stato un capolavoro, un prender di traverso la riorganizzazione del lavoro meno drammatico ma più efficace dell’arrampicarsi sui tetti o di gesti che si ha pudore a citare, come i suicidi di Telecom-France e della Foxconn di Shenzhen.


L’incomprensione di fondo che la Fiom ha trovato nella Cgil e nel Pd marca perfettamente la sua (non sempre consapevole) estraneità alla tradizione fordista-keynesiana e al conservatorismo politico di quelle organizzazioni e l’affinità virtuale con altre forme di lotta del precariato nei settori già prima non garantiti, nei servizi e soprattutto nella Scuola e nell’Università. Pomigliano –ripetiamolo– non è l’ultimo bagliore di un mitizzato Novecento, ma un momento ancora ambiguo di un’ondata di insorgenze contro la precarizzazione e il neo-liberismo che percorre tutto il mondo globalizzato. Contro la quale si allestisce la battaglia preventiva, in termini di unità nazionale, rigore e sacrifici, con cui i ceti dirigenti italiani vorrebbero uscire dalle secche del berlusconismo e della crisi.

da GlobalProject

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