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lunedì 6 settembre 2010

Richiesta d’asilo

Claudio Rossi Marcelli
Quando ho visto il numero sul display del telefono mi è preso il batticuore. “Hello?” “Hello, this is madame Joneau, from the jardin d’enfance”. “Oh, good morning madame… ehm, no, i mean, good evening, or maybe it’s still afternoon, yeah, good afternoon…”. Di fronte alla mia totale perdita di controllo la preside dell’asilo, che parlava con forte accento francese, ha sorriso e mi ha detto trionfante: “You can breathe again, monsieur Rossi Marcelli: your girls are in”.

La scena ricordava il momento culminante di un reality show. La preside-presentatrice ha aperto la busta e ha annunciato la decisione del pubblico sovrano: le mie figlie avrebbero potuto frequentare la sua scuola bilingue. E con quella telefonata io ho capito cosa si prova a vincere il Grande Fratello.

Poche settimane fa ho spiegato che, per mettere da parte una piccola fortuna, basta venire a fare le pulizie illegalmente in Svizzera. Oggi posso rivelare che aprire un asilo privato a Ginevra è la strada migliore per diventare miliardari.

Ce ne sono pochissimi, tutti costosi, tutti schiacciati da interminabili liste d’attesa, e anche quando sei tra i pochi eletti che ci entrano, l’offerta didattica si muove sulle tre ore al giorno per tre o quattro giorni alla settimana. Di pranzo neanche a parlarne.

A rigor del vero va detto che esistono anche gli asili nido comunali, ma entrarci è ancora più difficile che in Italia, quindi noi non ci abbiamo neanche provato.

Il jardin d’enfance di madame Joneau è uno dei più richiesti di Ginevra, soprattutto dagli stranieri, perché è un asilo bilingue inglese e francese.

Io lo avevo già chiamato da Roma mesi fa, e mi era stato detto che per quest’anno c’era già una lunga lista d’attesa. Ma arrivato a Ginevra, durante un pietoso porta a porta in cui chiedevo asilo a tutti gli asili della città, mi sono ritrovato anche lì.

Miss Mackenzie, la gelida amministratrice inglese, mi ripete quello che mi ha detto al telefono, ma io chiedo di riempire comunque un modulo per la richiesta d’iscrizione. Dopo averlo compilato seduto su un piccolo banco giallo, lo riconsegno a Miss Mackenzie. Lei lo scorre velocemente per vedere se ho risposto a tutto, finché arriva a un punto in cui, visibilmente turbata, dice: “Oh, oh, wait a minute here…”.

Ho capito subito la situazione e le ho detto che mi ero dimenticato di dirle che nella nostra famiglia siamo due papà. “No, no, it’s not that”, mi ha detto lei senza neanche staccare gli occhi dal foglio. “Is this the company where your partner works?”, mi ha chiesto indicandomi la casella “professione” di Manlio. Sì, sì, è proprio quella, perché? “We have a coprorate agreement with them. Your daugthers are now on top of our waiting list”.

Insomma, che eravamo due papà non le fregava nulla. L’importante era l’azienda. Saltavamo immediatamente in cima alla lista d’attesa grazie alla multinazionale per cui lavora il mio compagno. Che grande paese la Svizzera.

In realtà poi c’è voluta un’estate intera per riuscire a ottenere quei due posti tanto agognati, e io ho chiamato e bussato alla porta dell’asilo talmente tante volte che alla fine, durante la famosa telefonata finale con la preside, mi sono dovuto scusare per la mia insistenza.

“No need to apologize, monsieur Rossi Marcelli”, mi ha detto lei con un accento sempre più francese, “You did a good job”. Sentire Madame Joneau che mi faceva i complimenti mi ha fatto venire voglia di piangere e di abbracciarla, di ringraziare Alessia Marcuzzi e tutta la redazione del programma e di dedicare la mia vittoria al pubblico a casa, che mi ha seguìto, che mi ha votato e che ha capito che io sono vero.

Il giorno seguente, dopo aver ritrovato un certo autocontrollo, mi sono letto con calma la lettera di benvenuto che mi aveva inviato Miss Mackenzie.

I nuovi compagni di asilo delle mie figlie si chiamano: Toko, Federico, Martin S., Sophie, Louis, Martin der G., Aliénor, Artiom, Antonio, Sofia, Daniel, Uon, India e Lilia. Insomma, una specie di Assemblea generale dell’Onu in miniatura. E pensare che, solo pochi mesi fa, litigavo con la scuola materna di Roma che voleva imporci l’ora di religione.

da Internazionale

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