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sabato 20 febbraio 2010

Maierato, il paese chiuso per frana


di Carlo Lania
Acqua e luce li hanno riattaccati, ma la montagna fa ancora paura. Maierato è un paese vuoto, rubato ai suoi abitanti dalle tonnellate di fango e terra che lunedì si sono portate via mezza collina. Oggi il sindaco Sergio Rizzo e il prefetto di Vibo Valentia Luisa Latella incontreranno alla scuola allievi di polizia, dove hanno trovato rifugio, gli abitanti del paese. Se tutto va bene, se i monitoraggi compiuti dai tecnici della Protezione civile avranno dato risultati positivi, è possibile che nei prossimi giorni almeno una parte di loro potrà fare rientro a casa.
«Sì è possibile, ma dobbiamo essere prudenti e non agire di fretta», fredda gli animi Silvio Greco, assessore all'Ambiente delle Regione Calabria. La prudenza è d'obbligo in questo piccolo centro di 2300 abitanti a soli otto chilometri da Vibo. A suggerirla c'è più di un motivo.

«Strani avvallamenti a monte»
A partire dai due bacini d'acqua creati dal fango e che adesso i tecnici dovranno trovare il modo di far defluire prima che, infiltrandosi nel terreno sotto le abitazioni, possa eventualmente provocare nuovi crolli, che questa volta non riguarderebbero, come è avvenuto lunedì, una parte del territorio comunale praticamente priva di case, ma direttamente il centro del paese. Un'operazione di drenaggio che va compiuta anche a monte di Maierato, in modo da evitare che le future piogge possano pesare sulla collina. Ma non è tutto. Sorvolando con un elicottero della forestale l'area interessata dalla frana, i geologi inviati da Greco hanno visto anche dell'altro: «Sembra che ci siano degli avvallamenti strani a monte del paese - spiega l'assessore - Voglio capire di che si tratta prima di decidere che tutto va bene. Per questo non bisogna avere fretta».
Chi di sicuro vuole certezze è Sergio Rizzo, il sindaco di Maierato. Se la frana non ha fatto vittime lo si deve anche a lui e alla prontezza con cui lunedì si è mosso per far sgomberare prima le poche case che si trovavano sotto la collina e subito dopo l'intero paese. O quasi. Ieri durante una perlustrazione per le strade deserte di Maierato, la Digos di Vibo Valentia si è accorta infatti che una donna anziana e suo figlio erano riusciti a sfuggire ai controlli chiudendosi in casa. Una scelta dovuta al fatto che la donna malata avrebbe avuto problemi a curarsi davanti ai suoi concittadini. E' bastata una piccola trattativa e la promessa di una sistemazione adeguata perché tutti e due accettassero di farsi portare via con un'ambulanza.

Le promesse di Bertolaso
Cartine alla mano, Rizzo ha controllato con i tecnici del comune che tutte le possibili zone a rischio venissero individuate. I tecnici della Provincia hanno installato tre rilevatori utili per segnalare eventuali nuovi movimenti del fronte franoso che verranno tenuti d'occhio dai vigili del fiuoco e dai tecnici dell'Arpacal, l'Agenzia regionale per la protezione ambientale. Il tutto in attesa che a Roma si sbrighino a trovare i soldi necessari per mettere in sicurezza l'intero territorio calabrese. Martedì da queste parti si è fatto vedere anche Guido Bertolaso. Il capo della Protezione civile ha sorvolato l'area in elicottero prima di chiudersi in prefettura con il presidente della Regione Agazio Loiero e i tutti i sindaci calabresi. E a loro ha promesso di sbloccare i fondi che aspettano da più di un anno. «Il terremoto dell'Aquila ci ha inghiottito e ha impedito che le promesse fatte venissero mantenute», ha spiegato giustificando la mancata assegnazione dei finanziamenti garantiti per far fronte ai danni provocati dal maltempo nel dicembre 2008 e gennaio febbraio 2009.

Pioggia di soldi sul Ponte
Soldi che, ha promesso Bertolaso, adesso verranno sbloccati in poche settimane. Un discorso che però ha lasciato i sindaci calabresi con l'amaro in bocca. La cifra stanziata, qualche milione di euro per l'intera Regione, basta infatti appena per coprire le urgenze, come spiega sempre Greco che cita uno studio del Cnr secondo cui per mettere in sicurezza l'intero territorio regionale servirebbe un miliardo di euro l'anno per dieci anni. «Capisce che siamo ben lontani dalle reali necessità», dice sconsolato.
Sì perché il dramma calabrese si può riassumere così: mentre il governo pensa al Ponte sullo Stretto (con un tempismo perfetto il ministro Matteoli era qui pochi giorni fa a propagandare l'opera), nel frattempo «la Calabria frana», per usare le parole di Loiero.
Il polso della situazione lo dà Legambiente. A novembre l'associazione ha riassunto in un dossier un monitoraggio compiuto tra i comuni calabresi sul rischio idrogeologico.

Un rischio comune
I risultati fanno paura: tutti i 409 comuni sono stati classificati a rischio geologico dal ministero dell'Ambiente. Di questi 57 sono a rischio frana, 2 a rischio alluvione e 350 a rischio sia di frana che di alluvione. Il che vuol dire abitazioni costruite in aree golenali, in prossimità degli alvei e in aree a rischio frana (lo ha dichiarato l'85% dei comuni), ma anche fabbriche (il 61% dei comuni) interi quartieri edificati in zone a rischio (45% dei comuni) insieme a strutture ricettive turistiche (il 27%). Il dramma di Soverato non sembra davvero aver insegnato niente. «Di fronte a questa situazione si investono 5 miliardi di euro per fare il Ponte sullo Stretto. E' chiaro invece che la prima opera pubblica che va fatta è la messa in sicurezza del territorio», denuncia Franco Saragò, della segreteria regionale di Legambiente.

La programmazione non c'è
«La Calabria paga decenni e decenni di sfruttamento selvaggio del territorio, oltre a una formazione geologica particolarmente delicata», spiega con amarezza Enzo Insardà, il vicesindaco di Vibo Valentia. «Anni in cui questa regione è stata saccheggiata con case costruite abusivamente sugli alvei dei fiumi, senza neanche i collegamenti con le fogne e in questo modo si è contribuito al dissesto idrogeologico». Il risultato è che ogni anno c'è un'emergenza. La stessa Vibo ne paga le conseguenze. Una strada del centro, via Boccioni, è chiusa perché costruita su un costone che sta franando. Per aggiustarla servirebbero 1,5 milioni di euro che non ci sono. Le piogge dei giorni scorsi hanno invece provocato una frana che ha ostruito il fiume sotto la frazione Piscopio, mettendo a rischio il centro abitato. A Triparni, invece, sempre la pioggia ha fatto scendere di un metro sotto il livello stradale la piazzetta che si affaccia sul mare. «Non riusciamo a fare una programmazione definitiva per la messa in sicurezza del territorio e senza lo Stato non lo puoi fare - prosegue Insardà - Il governo non può lasciare le Regioni sole ad affrontare un problema come questo». Con Roma se la prende anche Greco: «La tutela del territorio è di competenza del governo, che invece pensa al Ponte e al nucleare. Ma il governo non può essere strabico e trattatare la Sicilia e l'Abruzzo in maniera diversa da tutte le altre Regioni. Noi qui in Calabria siamo stati abbandonati».

da Il Manifesto

Ancora minacce a Giulio Cavalli. E il rischio del silenzio


di Pietro Orsatti
Mi sto fumando una sigaretta sul balcone quando mi arriva un sms. “Un’altro proiettile, questa volta in via Lepontina.Ormai sto diventando un collezionista”. Mittente Giulio Cavalli. Continuano questi piccoli uomini senza coraggio, che siano mafiosazzi fatti e punciuti o emigranti di qualche ‘ndrina appassionati di cotolette panate e panettoni invece che di ‘nduia. Continuano a cercare di spaventare un giullare scomodo e testimone spietato di questo nostro Paese allo sfacelo. A quanta gente rompe le scatole Cavalli con le sue civilissime e oscenamente vere giullarate?La lista è davvero impressionante. Stiddari, picciotti, mezzi boss da operetta o pericolosissimi professionisti dell’intimidazione. O ancora peggio, invidiosi mestatori e imitatori del basso ventre politicante da provincia lumbard spaventati dalla tremenda nudità di questo ragazzo diventato uomo raccontando da un palcoscenico questa Italia dal ventre gonfio di affarucoli e inciuci.
Giù al nord la mafia non esiste, non c’è. Roba da terrun. Ma se il terrun porta sghei? E tanti, poi. Ai soldi non si chiede la certificazione antimafia. I soldi per quest’italietta crepuscolare non hanno peccato.
Questa sera avrei voluto scrivere di Achille Toro e del sottosegretario Cosentino. Avevo già tutti i miei appunti pronti sulla scrivania. Poi m’è venuta voglia di fumare una sigaretta in balcone. E il bip del cellulare. E eccomi qui a scrivere delle minacce a Giulio. Ancora una volta. Mentre tiro giù queste righe mi rendo conto che a tutti gli effetti scrivendo dell’ennesima intimidazione ricevuta dal mio amico, sto scrivendo di questo Paese, di come è ridotto, di come è stato stuprato da decenni di conflitti di interesse talmente diffusi da essere passati da sistema a prassi. Una prassi che non può essere incrinata da persone come Giulio che ne svelano la vera grottesca natura.
E c’è di peggio. Ci stiamo facendo l’abitudine. Alle minacce a Giulio e agli affaristi, ai servitori infedeli dello Stato, ai politici collusi con le mafie, ai premier che oggi promulgano regolamenti elettorali che se applicati a tempo debito avrebbero reso impossibile la loro candidatura.
Io non ci voglio fare l’abitudine a questo schifo. Voglio vivere in un Paese che possa sentire mio. Che sento profondameente mio. Come lo sente suo Giulio. E quei tanti invisibili che stanotte andranno a letto senza sentire i “ma va… ma va.. ma va” di Ghedini e neppure le banalità del Festival in onda sulla rete ammiraglia di Raiset.
Non ci sia silenzio. Non ci sia abitudine. Non oggi, non ora.

da AntimafiaDuemila

Tra razzismo di stato e razzismo democratico


Riflessioni verso il 1° Marzo

di Luca Manunza*
Il razzismo in primo luogo, rappresenta il modo in cui,

nell’ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione,

è stato infine possibile introdurre una separazione,

quella tra cio che deve vivere e ciò che deve morire.

M. Foucault –Bisogna difendere la società-

Il cammino intrapreso alcuni mesi fa dai collettivi francesi verso “La journèe sans migrés” del prossimo primo marzo,la sua costruzione e la sua riproposizione in Italia nello specifico, da l’occasione di aprire un lungo e denso dibattito sulle “storie-migranti” dei due Paesi.

La loro se pur minima messa a confronto in qualche modo esprime lo stato dell’arte dei due Paesi Comunitari rispetto alla gestione governamentale del fenomeno migratorio.

Non è un caso, infatti, che in Francia sia stata scelta collettivamente la “soluzione” della “giornata senza migranti: ventiquattro ore senza di noi”, in chiave di sciopero, mentre in Italia si decideva di adottare un’inevitabile mutazione: “in una giornata di mobilitazione collettiva sul tema migrazioni, evitando di chiamarla e intenderla come sciopero, perché lo sciopero dei migranti qui in Italia non è possibile, i problemi che hanno i migranti francesi sono differenti dai nostri, è la loro posizione che gli permette di scioperare, se lo facessimo anche qui sarebbe un controsenso”, diceva Jon qualche settimana fa durante una delle assemblee organizzative tenutasi a Castel Volturno. Jon, in rappresentanza del tavolo migranti napoletano spiega bene la sua posizione: “in Francia le migrazioni hanno conosciuto percorsi differenti dai nostri e le loro battaglie, sono iniziate molti anni fa, la nostra è una lotta nuova, e poi lo sciopero lo fa chi ha un lavoro riconosciuto”. Leggendo il manifesto stilato dalle varie realtà territoriali francesi, il dibattito principale verte verso una critica alla annosa questione “identità nazionale” e “cultura”, proprio i due elementi cardine del discorso razzista oggi quanto mai visibile in svariate forme.

In Italia il dibattito è ancora aperto. La spinta verso la ricerca di una piattaforma collettiva di mobilitazione migrante in Italia è aperta da tempo, e sicuramente l’indignazione sui “fatti di Rosarno” , per quanto propulsiva rischia –a mio avviso- di non farci leggere in maniera analitico - pratica la se pur parziale situazione in merito a temi quali integrazione, razzismi, cultura, diversità e governo delle migrazioni. La migratologia e in agguato, e i presupposto culturali e scientifici per il suo fondamento ci sono tutti, sono le belle parole che devono qui far riflettere.

Accanto al primo aspetto rilevante “la dilagante manifestazione di razzismi” in Italia, si riapre come hanno recentemente osservato i vari relatori del seminario organizzati Uninomade, l’annoso tema delle mobilità umane, tema cruciale che lega i processi migratori alla formazione di vita associata degli esseri umani. Nel più dei casi, la letteratura a carattere storico politico articola i propri discorsi, trattando il tema delle mobilità umane
come fenomeni connessi a cause prettamente “strutturali”o raramente “politiche”. Letture tatticamente semplificate che tendono a caratterizzare il migrante come viandante, povero, bancarellaro, in conformità a semplici caratteristiche economiche, oppure cosa assai più rara, come migrante politico in fuga da guerre e persecuzioni.

E’ qui che il processo migratorio deve adeguarsi al pensiero di stato, ed è qui che la maggioranza dei migranti si trova già preventivamente assegnato a delle categorie già socialmente condivise nel paese d’arrivo. Ma c’è spesso chi rifiuta il posto assegnato, Rosarno ne è un esempio, Castel Volturno e le rivolte sulla Domiziana ne sono in qualche modo uno specchio.

Un rifiuto letto come deviante, al pari di chi non vuole dichiarare la propria identità, […]o di chi accumula “alias”, cioè il soggetto non tollerabile dalle autorità dello stato perché on previsto dalla norma che nomina, classifica, disciplina, “normalizza””. Ed è proprio sotto questa categorizzazione in devianza di “gesti politici” totali anch’essi, che si può intravedere la maglia dei razzismi, e provare a rileggerli in quanto tali, non cambiandone nome.

In tutto questo gioco di ruoli, il processo di destrutturalizzazion-e sociale e politica neo-liberale –che concede alcune libertà per poi subito dopo negarne altre- oltre a provocare l’escalation del sicuritarismo, attraverso una politica dell’inclusione fondata sull’esclusione, calmiera spesso i movimenti di cittadini migranti e non mobilitati verso la riappropriazione dei diritti di cittadinanza reali e totali, attraverso concessioni e piccole ipotetiche vittorie, in grado di rallentare i processi di cambiamento. La così detta formazione di vita associata citata in precedenza, s’incrocia ormai da decenni con la gestione di chi questa vita spesso la forma. Bisogna difendere la società rimane probabilmente ancora l’ordine strategico adottato dai governi per la gestione del “fatto sociale totale”.

Una piccola panoramica europea ne racconta le formule più o meno articolate: il modello tedesco del lavoratore ospite, quello anglosassone del melting pot , quello francese dell’assimilazionismo, o quello italiano, dato da un mix dei vari modelli. Pratiche positive dicono in molti, l’interculturalismo ad esempio in Italia è stato per anni utilizzato nelle agende politiche come soluzione ed è stato baluardo spesso anche dei movimenti.

Sono molte però le ricerche e le esperienze in merito, che mettono in luce come la definizione dei modelli e delle varie teorie forgiate dal “pensiero di stato”corrispondano –nonostante la loro post-modernità- al paradigma tradizionale di una sociologia etnocentrica, che rinvia al mito del positivistico “dell’integrazione sociale forgiato in base allo sviluppo dello stato-nazione della società industriale”.Il primo marzo appare un’occasione per ridiscutere i temi delle migrazioni, del lavoro e della crisi che racchiude a quanto pare, il primo marzo significa probabilmente confrontarsi nuovamente con il reale protagonismo dei migranti qui in Italia, troppo posti avvolte a margine anche da chi racconta di sposarne le loro vertenze. Il primo marzo sarà l’inizio forse di una rivoluzione? Speriamo di sì, e speriamo allo stesso tempo che nessun colore, compreso il giallo possa appannarla.

* Membro dell' URIT
“Unità di Ricerca sulle Topografie sociali”
Dipartimento di Sociolgia generale dell'Università degi Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli

da GlobalProject