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giovedì 14 ottobre 2010

Verità sull’uccisione in carcere di Aldo Bianzino


Muore in carcere dopo l'arresto per marijuana. Giallo a Perugia

(Il Manifesto, 23 ottobre 2007)

di Emanuele Giordana e Tiziana Guerrisi

Una domenica come un’altra un uomo di 44 anni viene trovato morto nel carcere di Perugia. C’è stato trasferito due notti prima, venerdì 12 ottobre, dopo che la polizia lo ha arrestato con la sua compagna. Gli avrebbero trovato in casa, la famiglia di Aldo Bianzino abita nella campagna di Città di Castello, una piccola piantagione con diversi fusti di marijuana.I due vengono trasferiti a Perugia e da lì al carcere. Sabato il legale d’ufficio incontra Aldo alle 14 e riferisce a Roberta, la compagna, che Bianzino sta bene e si preoccupa per lei. Ma la mattina seguente Daniela, un’amica di famiglia, viene avvisata di correre la carcere in tutta fretta. "C’è un problema", le dicono. Il problema è che Aldo non respira più e Roberta, in evidente stato di choc, non ha nemmeno potuto vedere il suo corpo.

Le indagini autoptiche (ancora in corso) cominciano a confermare, qualche giorno dopo, quel che tutti già pensano nella piccola comunità di amici di Aldo e Roberta. Le voci raccolte dalla stampa locale parlano di lesioni massive al cervello e all’addome, forse, un paio di costole rotte anche se all’esterno il corpo di Aldo non evidenzierebbe ematomi o contusioni. Ce n’è abbastanza però per far saltare la prima lettura del decesso, liquidato come un problema cardiaco.

La storia di Aldo Bianzino ha contorni dunque che è poco definire oscuri e la procura di Perugia ha deciso di aprire un’indagine sul decesso affidata nelle mani dello stesso pubblico ministero, il magistrato Giuseppe Petrazzini, titolare dell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Aldo e di Roberta. Che sta aspettando i risultati definitivi dell’autopsia.

Tutto comincia dieci giorni fa. Aldo è nella sua casa di Capanne, una frazione di Pietralunga, poco distante da Città di Castello, quando uomini della squadra mobile della cittadina umbra perquisiscono giardino e casa e lo portano in carcere a Perugia con l’accusa di detenzione illegale di stupefacenti. Accuse pesanti: nella conferenza stampa delle forze dell’ordine si parla di 110 piantine di hashish, una metà in giardino e una parte già raccolta, insieme a 15 involucri contenenti erba. Rivelazioni che lasciano increduli quanti conoscevano Aldo da tempo e che non ritengono possibile che l’uomo coltivasse hashish per poi rivenderlo.

Bianzino avrebbe dovuto incontrare il gip che segue le indagini il lunedì successivo per la conferma dell’arresto. Ma all’appuntamento col gip non arriva. E non è chiaro se in cella fosse solo o in compagnia di un altro detenuto. "Ufficialmente era solo - dice l’avvocato incaricato dalla famiglia Massimo Zaganelli - perché la procedura richiede l’isolamento prima dell’incontro col gip".

Sulla salute dei due indagati al momento dell’arresto Zaganelli non ha dubbi: "Furono portati in carcere in perfetta salute e durante il viaggio non fu torto loro un capello". I dubbi iniziano dopo: "Per quel che sappiamo il decesso è riconducibile a un trauma ma non a un trauma accidentale" che rimanda quindi "alla responsabilità di terzi". L’avvocato resta prudente: "Non è bene in questi casi fare due più due quattro e abbiamo piena fiducia nella magistratura che, ne siamo certi, sta facendo il suo lavoro".

Lavoro intanto che aspetta i risultati definitivi delle prove autoptiche sulla materia cerebrale di Aldo: l’entità cioè del trauma al cervello. La famiglia non potrà rivedere il corpo di Aldo prima di fine settimana. Il mistero per giorni è rimasto confinato nelle cronache locali dei pochi giornali che, come la Nazione, hanno provato a ricostruire la storia di Bianzino.

E sono molti gli interrogativi al momento senza risposta considerando che, dal giorno della conferenza stampa della polizia, non sono state rilasciate dichiarazioni ufficiali e ancora resta ancora da chiarire se, al momento della morte, Bianzino fosse solo nella cella dove è stato trovato. Nella frazione di Pietralunga il clima è sempre più teso e il dolore degli amici si mischia allo sgomento della famiglia che resta ancora in attesa di potere vedere la salma.

Nel frattempo amici e parenti si stanno adoperando per assicurare a Aldo una cerimonia funebre che però non ha ancora una data certa. Ma la notizia è circolata rapidamente tra gli amici di Aldo, molti dei quali vicini all’esperienza spirituale maturata da Bianzino attraverso la filosofia indiana e una lunga frequentazione con una comunità allargata di amici incontrata nel suo percorso interiore.

Un aiuto gradito visto che sono molte le persone vicine a Roberta a lamentare una scarsa solidarietà in paese, forse anche per le abitudini diverse di un uomo che da tempi aveva scelto una vita appartata e basata sulla meditazione. I radicali e gli anti proibizionisti locali però si sono già mossi. E così il sindaco di Pietralunga Luca Sborzacchi. E del caso si sta occupando anche l’osservatorio che fa capo a Heidi Giuliani

da informa-azione

La vita di Aldro


“… ma nessuno purtroppo pagherà per ciò che ci hanno fatto, perché questa è l’Italia.” - Patrizia Moretti Aldrovandi

di Marco Rigamo
Per la nostra missione di pace in Afghanistan – quella per cui il ministro il ministro La Russa chiede che i caccia di pace Amx siano armati di intelligenti bombe di pace – lo Stato spende circa 56 milioni al mese, più di 3 miliardi finora per sedere al lucroso tavolo dell’Esportazione Bellica della Democrazia. Facile perciò intuire la soddisfazione della Ragioneria dello Stato relativamente ai poco meno di due milioni investiti per far sì che la famiglia di Federico Aldrovandi rinunci a costituirsi parte civile nei processi ancora aperti. Quattrini spesi bene se si pensa alla sentenza del 6 luglio dello scorso anno: quel ragazzo non era deceduto pochi minuti dopo il suo fermo in ragione di un malore dovuto all’assunzione di stupefacenti, ma perché massacrato di botte da quatto agenti della polizia di Stato, riconosciuti colpevoli di eccesso colposo in omicidio colposo assieme ad altri tre colleghi condannati per il depistaggio delle indagini. Il linguaggio giuridico ci dice che non volevano ammazzarlo, ma "solo" colpirlo con estrema violenza sulla testa, alle braccia, tra le gambe. Per molti minuti. Poi, purtroppo, è morto.
La vita di Aldro vale più o meno il budget di un giorno di presenza militare in terra Afgana. Un giorno di guerra in meno. Il conto, o almeno questo conto, è chiuso.
Questo conto chiude con le responsabilità processuali dello Stato per un contatto che avviene a Ferrara alle 5,47 del 25 settembre 2005 tra un ragazzo appena tornato da un sabato sera a Bologna e l'equipaggio di una volante della polizia di Stato, tre uomini e una donna, che alle 6,10 chiama il 118: otto minuti dopo l'ambulanza lo trova cadavere, a terra, ammanettato. Per il suo cellulare che, dopo aver più volte squillato a vuoto, è impugnato da un uomo che al padre spiega che stanno facendo accertamenti su un portatile trovato per strada. Per lo scarno annuncio dato alla famiglia alle 11 di mattina. Per le menzogne sul suo aver assunto qualcosa che gli ha fatto male, sul comportamento autolesionistico, sulla testa sbattuta contro il muro, sul malore fatale. Per aver dipinto lui e i suoi amici come dei "drogati". Per le intimidazioni da loro subite in questura. Per le pressioni esercitate sulla stampa locale. Per le ferite lacero contuse alla testa, lo schiacciamento dello scroto, i lividi da compressione sul collo, le ecchimosi ovunque, la felpa e il giubbino inzuppati di sangue. Per il manganello spezzato contro il suo corpo. Per le indagini assegnate agli stessi protagonisti del pestaggio. Per il procuratore e il questore che escludono categoricamente le percosse ancora prima del risultato dell'autopsia, a lungo rimandata. Per il fatto che nessuno sia stato rimosso dal proprio incarico.
Questo conto riguarda la vita di un ragazzo come tanti che 18 anni li aveva compiuti due mesi prima, non aveva ancora la patente, studiava da perito elettrotecnico, suonava il clarinetto, faceva sport, salutista, bravo in matematica, impegnato in un progetto con Asl e scuola per la prevenzione delle tossicodipendenze. Che il sabato sera spesso andava a Bologna perché lì ci sono i locali, la musica, i centri sociali. Come aveva fatto anche quella volta. Questo conto riporta con forza l'attenzione su tutti quelli che sono ancora aperti. Riguarda tutto ciò che dalle giornate di Genova 2001 in avanti ancora permane non risolto sul terreno dell'abuso della forza da parte delle nostre polizie e su quello dell'esercizio delle libertà individuali e collettive. Riguarda la politica di criminalizzazione della circolazione delle sostanze stupefacenti e di chi ne fa uso e la sua chiave di controllo sociale. Riguarda la cultura di un "diritto di polizia" in ragione del quale i nomi Aldrovandi, Sandri, Cucchi sono solo gli ultimi di un lunghissimo elenco che ha radici antiche. Riguarda quel comandante della polizia penitenziaria secondo il quale "il negro si massacra di sotto, non in sezione". Riguarda Canterini che fresco di condanna promette ai suoi "ragazzi" di indossare ancora il casco assieme a loro. Riguarda tutti quelli che sono ancora lì. Riguarda quella petizione in basso a destra in home di questo sito e quanti non vi hanno ancora aderito. Riguarda noi.

da GlobalProject

La verità nascosta

È da tanti anni, prima di molti altri, persino degli stessi giudici, avvocati e addetti ai lavori, che ho scoperto che in Italia esiste “La Pena di Morte Viva”.
È da tanti anni che parlo e scrivo che la pena dell’ergastolo ostativo è peggio, più dolorosa è più lunga della pena di morte;
che è una pena di morte al rallentatore;
che ti ammazza, lasciandoti vivo, tutti i giorni sempre un po’ di più;
che in Italia ci sono giovani ergastolani che al momento del loro arresto erano adolescenti, che invecchieranno e moriranno in carcere;
che solo in Italia, in nessun altro Paese in Europa, esiste la pena dell’ergastolo ostativo, una pena che non finirà mai se non collabori con la giustizia o se al tuo posto non ci metti qualche altro;
che la pena dell’ergastolo va contro la legge di Dio e digli uomini, contro l’art. 27 della Costituzione, che dice “Le pene devo tendere alla rieducazione”, e alla Convenzione della Corte europea.
Ora, queste cose non le dico solo più io.
Ora queste cose vengono dette anche dalla Magistratura di Sorveglianza: in Italia esiste una pena che non finisce mai, esiste “La Pena di Morte Viva”, l’ergastolo ostativo.
Nella rivista Ristretti Orizzonti anno 12, numero 3 maggio-giugno 2010 pag. 34 leggo che Paolo Canevelli, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia rilascia questa dichiarazione:

(...) Per finire, e qui mi allaccio ai progetti di riforma del Codice penale, non so se i tempi sono maturi, ma anche una riflessione sull'ergastolo forse bisognerà pure farla, perché l'ergastolo, è vero che ha all'interno dell'Ordinamento dei correttivi possibili, con le misure come la liberazione condizionale e altro, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l'ergastolo, tutti per reati ostativi, e sono praticamente persone condannate a morire in carcere.
Anche su questo, forse, una qualche iniziativa cauta di apertura credo che vada presa, perché non possiamo, in un sistema costituzionale che prevede la rieducazione, che prevede il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, lasciare questa pena perpetua, che per certe categorie di autori di reato è assolutamente certa, nel senso che non ci sono spazi possibili per diverse vie di uscita.
(Roma 28 maggio 2010, intervento al Convegno Carceri 2010: il limite penale ed il senso di umanità).


Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto
Ottobre 2010