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lunedì 28 febbraio 2011

NARDO' :presidio dei lavoratori delle cooperative All Service ed Italian Job

Prosegue la battaglia per gli ex lavoratori della "nardò technical center" ; per gli amici di Facebook: "sfruttati dalla nardò technical center"!



Martedì 1 marzo in via Capruzzi in coincidenza con il Consiglio Regionale si terrà un presidio dei lavoratori delle cooperative All Service ed Italian Job e contestuale richiesta di incontro con la Vice Presidente Dott.ssa Capone

La vicenda di questi lavoratori è una vera e propria odissea. Essi lavoravano presso la pista di Nardò in qualità di collaudatori, lavoro pericolosissimo e sottopagato (4 euro all'ora) per condurre auto a 300 all'ora nelle condizioni più estreme e con turni massacranti.

La paga così bassa è dovuta al fatto di con cooperative che in realtà altro non sono che l'interfaccia della Nardò Technical Center che gestisce la pista di Nardò. Tanto è vero che il core business della N.T.C., ovvero collaudare le auto, è in realtà svolto per l'80% dai dipendenti delle cooperative.

Nel 2009 con decisione unilaterale mette in cassa integrazione i propri dipendenti e rompe l'appalto con le cooperative (nonostante fosse fino al 2011).

Qui inizia il dramma per questi lavoratori in quanto quelli della All Service vanno in cassa integrazione in deroga e quelli della Italian Job rimangono senza reddito.

A ciò va aggiunto che grazie ad un indegno accordo sindacale si stabilisce che chi vuole lavorare (perchè le lavorazioni continuano...) può farlo solo con l'interinale e a discrezione aziendale (della N.T.C.) con l'immaginabile ricattabilità dei lavoratori.

A ciò si aggiunga che la N.T.C. ha goduto di un finanziamento pubblico regionale di circa 9 milioni di euro in contraccambio di sviluppo industriale comprese nuove assunzioni dirette!

Ancora più grave è il fatto che la transhe finale del finanziamento pubblico è stato erogato dopo che la N.T.C. aveva dihiarato la crisi e messo in cassa integrazione i propri diretti e buttao a mare i lavoratori delle cooperative.

I lavoratori delle cooperative nel 2010 si sono rivolte ai Cobas e da allora è iniziato un percorso di denunce interrogazioni parlmentari. e di incontri e tavoli tecnico istituzionali con la Provincia di Lecce, con la Regione Puglia e la taks force regionale.

Nonostante le palesi distorsioni presenti in questa vicenda a fronte delle stesse gli incontri si sono rivelati vere e proprie prese in giro per questi lavoratori ed addirittura ultimamente si è assistito al fatto che i delegati, da parte della Vice Presidente Regionale Dott.ssa Capone alla risoluzione della vicenda, si negano.

A questo punto i lavoratori stanchi ed esasperati saranno in presidio MARTEDI' 1 MARZO e porranno in essere tutte le forme di lotta necessarie per la risoluzione della loro situazione: si ricorda a tutte/i che oramai sono all'esasperazione totale e senza la possibilità si sostenere sè stessi e le prorpie famiglie.

Ciò grazie anche alla politica dello struzzo che le istituzioni della Provincia di Lecce e della Regione Puglia hanno praticato su questa vicenda.

Con l'occasione del presidio si invitano tutti i mass-media ad intervenire per ascoltare dalla viva voce dei lavoratori non solo quanto siano esasperati, ma quante prepotenze gli stessi hanno dovuto subire, quanto "strana" sia tutta questa vicenda e le coperture politiche trasversali di cui gode chi ha causato questa situazione , che oggi continua a fare profitti altissimi tenendo chi sta lavorando completamente sotto scacco.

A martedì 1 marzo ore 9,30. per Cobas Lavoro Privato/Confederazione Cobas Salvatore Stasi

sabato 26 febbraio 2011

QUI E' L'INFERNO PIU' TOTALE













I GATTI MEZZI - MA LORO SONO AVANTI



I GATTI MEZZI - MA LORO SONO AVANTI

Questa ‘anzone parla, dello stato amerïano
in tutto ir su’ ‘omplesso, di fenomeno mondano
ne parla in uno stile, non propio gentile
ma che siano de’ ridïoli, è ‘r men che si può dire.

Ma loro sono avanti, sono andati sulla Luna
ma di tende dell’indiani, ‘un ce n’è rimasta una
Ma loro sono avanti, sïuri della sòrte
di chi aspetta per dell’anni, la pena di morte.

Sedie elettrïe, fucilazione, anco l’impiccagione
è roba da non credici, pare un firme di Leone
cianno ponti, grattacieli, miraoli d’archittetti
poi danno le pistole, in mano anch’ a’ bimbetti

fitness, streccing e bodibirding, sono temi a loro cari
ma vai a cercà’ le fïe ‘n Amerïa, trovi solo dei maiali
mangian’ senape e mostarda, pollo fritto e marmellata
‘un si pone ‘r paragone, cor mi’ pane e soppressata

ma loro sono avanti, in tutti ‘vanti ‘ampi
l’Amerïa ‘r paradiso, dell’attori e de’ ‘antanti
coll’effetti digitali, ir Titànic e ‘ vadrini
e noi che siamo ‘ndietro, con Totò e con Fellini.

Ma loro sono avanti, ma chi è dietro di sïuro
per la legge naturale, glielo pòr buttà’ ner culo.

venerdì 25 febbraio 2011

Perché non metti in cella un altro al posto tuo?

Un ergastolano ostativo, un “Uomo Ombra” risponde a questa domanda sulla rubrica di posta Diretta che tiene sul sito www.informacarcere.it

Caro Carmelo,
come forse con molti che ti scrivono, non ci conosciamo. Per essere ancora più precisi, non vi conosco, voi ergastolani. Mi reputo un ragazzo maturo per la mia età (ho quasi 23 anni), ma mai mi ero fermato a riflettere sulla tua battaglia. Anche per me chi era in carcere era qualcuno che entrava in un mondo parallelo, un mondo che non mi riguardava. Il pensiero che forse ho fatto più vicino al carcere, era quello di vederci dentro il "nostro" Presidente del Consiglio.
Mi è stato regalato il tuo libro, "L'assassino dei sogni" per un evento particolare, che magari un giorno ti racconterò e ho aspettato un anno per leggerlo, nonostante nel solo 2010 abbia letto quasi 70 libri. Mi sono quindi doppiamente vergognato alla sua chiusura. Non sapevo niente di chi era in carcere e non avevo mai pensato a cosa fosse l'ergastolo.
Mi reputo un giustizialista e l'unico punto della tua vita che non capisco è perché tu non voglia scambiare l'aiuto allo stato con la possibilità di poter riabbracciare la tua Lupa e la vostra prole. Spero di non apparire arrogante, ma te lo chiedo davvero in tutta sincerità. Da tutte le tue storie traspare in maniera cristallina l'amore verso di loro e qualsiasi sia la tua motivazione per non voler fare questo scambio, mi pare troppo piccola rispetto alla grandezza dell'altro sentimento. Prendo anche atto del fatto che sicuramente hai già fatto questo pensiero nella tua testa e se quindi continui a sostenere questa tua scelta, hai sicuramente anche la risposta al mio quesito, che vorrei sottolineare non essere mosso dalla curiosità, ma dal fatto che mi farebbe piacere che tu potessi tornare a vivere con la tua famiglia.
Riguardo a ciò che hai fatto, che ti è stato fatto, per me è roba vecchia. E non dico per dire. Io penso che una persona dopo 20 anni non possa assolutamente essere considerata la stessa. Resta un fatto che hai tolto la vita ad un'altra persona, ma ribadisco che nessuno ormai ce la porterà indietro e perderne un'altra che è ancora viva è uno spreco e forse un'appropriazione indebita. Sono ateo e quindi neanche ti farò discorsi come "solo Dio può giudicare un uomo" o cazzate del genere. I carceri esistono perché l'uomo deve in qualche modo autoregolamentarsi e sono convinto che vicino a tua figlia forse non avresti voluto neanche tu il Carmelo di 20 anni fa, che era stato capace di uccidere.
Oggi, io, Alberto, essere umano, ti perdono, per quel che vale. Per me hai già scontato la tua pena e sono sicuro che mai più faresti un qualcosa che ti porterebbe di nuovo dentro l'Assassino. Quindi per me dovresti essere libero di poter vivere il resto della tua vita da uomo libero.
Questo però resta il mio parere e per quanto possa farti piacere, serve a poco. Io adesso sarò impegnato per un po' di tempo in maniera molto intensiva, ma ti prometto che proverò ad aiutarti con i mezzi e la forza che ho.
Non ho voglia di rileggere quello che ho scritto, perché forse finirei per trovarmi un po' patetico ed eliminare qualcosa che ho scritto e che in questi istanti è partito dal cuore. Ti chiedo quindi scusa se ho detto qualcosa che ti ha offeso. Non so bene come funzioni questa corrispondenza e neanche con che modalità tu mi possa rispondere.
Non sei solo.
Un ululato.

Risposta di Carmelo Musumeci

Ciao Alberto,
fra noi c’è un detto, il carcere non si augura neppure al peggior nemico, quindi come potrei mandarci un amico che si è rifatto una vita, che si è sposato, che ha dei figli e che lavora onestamente?
Chi ama la propria compagna rispetta anche la donna degli altri.
Chi ama i propri figli ama anche i figli degli altri.
Chi ama la propria libertà ama ancora di più la libertà degli altri.
Alberto, non penso di essere un criminale io, ma penso che sia più vigliacco e criminale lo Stato che dopo venti anni di carcere, per farmi uscire, mi chiede di mettere in cella un altro al posto mio.
Alberto, l’ho detto tante volte, molti ergastolani sono colpevoli di non essere riusciti a farsi ammazzare perché in certi ambienti criminali sia i vivi che i morti cercavano di ammazzarsi l’uno con l’altro.
Alberto, io non sono stato condannato per morti innocenti e non basta essere morti per diventare innocenti, come non dovrebbe bastare essere riusciti a sopravvivere per diventare colpevoli per sempre.
Alberto, io in carcere non ci metterei nessuno, ci potrebbero essere tanti modi per scontare una pena, come per esempio lavorare in un Pronto Soccorso come volontario o spazzare le strade della propria città.
Alberto, è difficile diventare persone migliori chiusi in una cella tutto il giorno senza fare nulla, senza nessun futuro e senza speranza.
In questo modo anche il peggior criminale diventa innocente e voi là fuori diventate tutti colpevoli.
Alberto, da un paio di giorni mi hanno di nuovo respinto la semilibertà perché non collaboro con la giustizia: i buoni mi fanno ancora più paura dei cattivi.
Alberto, i buoni mi fanno sempre più paura e incomincio a provare tanta pena per loro perché probabilmente sono più infelici di me se odiano a tal punto le persone che sbagliano da tenerle murate vive per tutta la vita.
Alberto, molti ergastolani che hanno l’ergastolo ostativo, senza nessuna possibilità di uscire, se non parlano come ai tempi dell’Inquisizione, o non rinunciano a difendere la loro innocenza, moriranno in carcere.
Alberto, buoni o cattivi, ogni uomo è l’uno e l’altro.
Il mio cuore da uomo ombra ti sorride.

Carmelo
Spoleto, 03/02/2011


Ciao Carmelo

la tua risposta ha fatto di colpo diventare la mia domanda stupida. Non avevo minimamente preso in considerazione la questione da quel punto di vista. Son però contento di avertelo chiesto comunque.
Onestamente rimango spiazzato dall'ingiustizia della giustizia e sono sempre più convinto che tutto ciò accade a causa dell'indifferenza. E' facile battersi per una donna, per un uomo o per un'idea nobile, ma a nessuno importa di battersi per chi si trova in carcere. Ora come ora non saprei davvero come aiutarti, ma le tue risposte sono state illuminanti e mi hanno colpito.
Da oggi toglierò il tuo libro dalla mia libreria e lo metterò in un posto che tutti i giorni mi ricorderà di te, così che possa condividere almeno una piccola parte della tua sofferenza. Una piccola parte sufficiente però a ricordarmi che tu sei ancora lì e che quindi c'è ancora del lavoro da fare.
Per quanto possa sembrar difficile, io adesso ti capisco un po' e la tua causa è diventata anche mia e proverò a fare qualcosa.
Grazie ancora della risposta che mi hai dato e se ti va, scrivimi. Io farò lo stesso. Mi piace sapere. Più so e più precise potranno essere le mie martellate su quelle mura.

Sono con te!
Alberto

Sabato 26 febbraio dalle 18 alle 21, presidio contro la peste religiosa

Mostra, volantini e chi più ne ha più ne metta. ogni autorità e ogni morale sono un divieto alla libertà

Corte dei cicala, lecce
Anarchici

Cattiva coscienza

La prigione per vilipendio ha le sue radici in una sorta di feroce tassazione del turpiloquio,e da solo questo reato dimostra come la musa della società italiana, dell’establishment,della classe dirigente sia la purulenta, incarognita, inciprignita cattiva coscienza.
Giorgio Manganelli

Vilipendere, in sé, è cosa gradevole. Non tanto perché significa «offendere, disprezzare in modo grave e manifesto», quanto perché esso è atto rivolto esclusivamente «verso persone, istituzioni o cose espressamente tutelate dalla legge». Se la legge, o per meglio dire chi la emana, ha sentito il bisogno di tutelarsi in questo modo, è evidente che si rende benissimo conto di essere detestato, disprezzato, odiato… e l’odio è sentimento nobile, quando indirizzato contro coloro che riteniamo nemici della libertà e, in quanto tali, nostri nemici.
Tra le persone tutelate per legge dal reato di vilipendio c’è il Papa. Non un Papa preciso, bensì IL Papa, qualunque esso sia, il che significa che i legislatori ritengono la figura del Pontefice come ispiratrice di disprezzo e odio. Non a torto.
Tra coloro che hanno manifestato pubblicamente questo disprezzo nei confronti del Papa – di Joseph Ratzinger, nel caso specifico – ci sono anche cinque anarchici, irriducibili nemici di qualunque autorità, compresa quella religiosa, che per tale motivo sono finiti sotto processo proprio in questi giorni, appunto con la contestazione del reato di “vilipendio a ministro di culo”. Pardon, “di culto”. Tutto è accaduto per l’invito a lanciare freccette su una foto di Ratzinger, invito rivolto ai passanti nel corso di una iniziativa antireligiosa tenuta per le strade di Lecce alcuni mesi or sono. E già qui si pone un dubbio di non poco conto: il Papa è tutelato solo in quanto persona fisica o anche nella sua immagine incorporea? Faccenda evidentemente giuridica, che non mette conto trattare in questa sede… Altri potrebbero sollevare dubbi di incostituzionalità: è possibile impedire ad alcuni individui di esprimere la propria idea su chicchessia, in una democrazia che garantisce la libertà di pensiero e di parola? Faccenda, questa, che riguarda ogni sincero democratico, ma che ancora una volta a noi interessa poco.
A nostro avviso qui si tratta di una questione di libertà, e affinché questa possa esprimersi compiutamente e totalmente bisognerebbe farla finita con ogni autorità: da quella religiosa che vuole affermare i suoi dogmi e la sua morale, imponendo cosa fare della nostra vita, della nostra morte e della nostra sessualità, a quella statale che interviene tramite la polizia ad impedire l’espressione di odio nei confronti del Papa e tramite la magistratura a perseguire coloro che quell’odio hanno espresso.
Di fronte a tutto ciò, ne siamo certi, chiunque abbia a cuore la libertà vorrebbe urlare che il Papa, la polizia che lo difende e la magistratura che intenta i processi sono tutto una merda. Ma, evidentemente, la legge che ci governa non permette simili affermazioni quindi no, noi non lo diremo… Diremo anzi che il Papa è un sant’uomo, la polizia tutela i deboli e la magistratura è giusta ed equa, e tutti costoro non si devono vilipendere: per ragioni, ovviamente, che il reato di vilipendio ci vieta di spiegare minutamente…

Alcuni devoti del Porcus Domini

giovedì 24 febbraio 2011

Rosso sangue, il futuro della Libia


Uno stato in frantumi e le infiltrazioni del fondamentalismo islamico sono il vero incubo dell'Occidente ancora incapace di fermare il massacro in corso

La guerra civile in atto con il caos che ne consegue lascia poco spazio a previsioni su futuri scenari politici. Il primo obiettivo, adesso, è fermare il massacro della spietata repressione libica ordinata da Muammar Gheddafi, il cui folle discorso non ha fatto che aggravare la situazione. Il leone ferito è uscito allo scoperto e la rabbia cieca del dittatore rischia, con tutta probabilità, di cancellare, polverizzare la nazione libica fondata su delicati equilibri di natura tribale-clanistica.

Il grande incubo europeo, ancor prima che lo sbarco di centinaia di migliaia di disperati sulle sponde del Vecchio Continente, è la "balcanizzazione" della Libia con la conseguente costituzione di un emirato islamico in Cirenaica, ai confini con l'Egitto. Lo stesso Muammar Gheddafi, ieri, ha fatto leva sulla questione del fondamentalismo islamico, non si sa se per terrorizzare di più l'Occidente o la popolazione libica cui è stata paventata un'occupazione degli Stati Uniti sul modello afgano e iracheno.

È solo retorica strategica o si tratta di un pericolo reale? Khaled Fouad Allam, docente di Islamistica e Sociologia del mondo musulmano - interpellato da PeaceReporter - ritiene che la minaccia sia concreta, sebbene vi sia anche una strumentalizzazione di fondo da parte di Ue, Italia e dello stesso Gheddafi. Secondo il professore Allam, gruppi di integralisti - anche della cintura sub sahariana - non aspetterebbero altro: approfitterebbero subito per infilarsi tra le macerie di una Libia in frantumi e costituire uno stato regolato dalla Sharia, la legge coranica.
Il panorama libico è completamente diverso da quello tunisino o egiziano dove esiste una discreta articolazione politica, una rete di associazioni per i diritti umani e soprattutto un esercito (addestrato dagli Stati Uniti) capace di guidare una fase di transizione. In Libia, non è individuabile un personaggio di caratura internazionale che possa prendere in mano un processo di rifondazione e l'esercito - come spiega Allam - è costruito su base etnica, su linee tribali. È molto probabile che assisteremo dunque a profonde spaccature anche all'interno della compagine militare con due o più eserciti che si faranno la guerra.

L'Unione Europea ha molte responsabilità per non essere stata in grado di prevedere gli eventi di queste settimane. La totale assenza di una politica europea è, per Fouad Allam, il sancito fallimento della Dichiarazione di Barcellona (27-28 novembre 1995) e di diciassette anni di una falsa cooperazione. Bruxelles dovrebbe fare i conti con questo fallimento e avviare una "Conferenza Euroaraba" se davvero tiene alla pacificazione di quella parte di mondo.

Il futuro prossimo del popolo libico è rosso. Rosso sangue: "Questa rivolta è cominciata con il sangue - ci dice il professore Allam - e molto sangue scorrerà ancora. Dopo la rivoluzione arriva sempre il terrore".

di Nicola Sessa da PeaceReporter

Libia: 1.500 corpi ripescati dal mare in 10 anni

da FortressEurope
L'Espresso la settimana scorsa ha dedicato un servizio della corrispondente da Tripoli, Francesca Spinola, a una spinosissima questione: quanti sono i naufragi fantasma avvenuti negli ultimi dieci anni sotto costa libica sulla rotta per Lampedusa, senza che nessuno ne abbia mai saputo niente? Quanti sono i giovani morti davanti alle coste libiche? E che fine hanno fatto i corpi ributtati a riva dal mare? Le notizie fanno rabbrividire. Secondo fonti attendibili citate da Francesca, dal 2005 i morti davanti alle coste libiche sarebbero almeno 1.500. Di cui 500 seppelliti nel vecchio cimitero cattolico di Hammanji e altri 800 ancora conservati negli obitori degli ospedali di Tripoli. Di seguito tutti i dettagli della notizia.


Libia, mattanza in spiaggia
tratto da l'Espresso
di Francesca Spinola
TRIPOLI - 21 febbraio 2011- Con l'assalto di massa a Lampedusa il Mar Mediterraneo è tornato a inghiottire corpi. I più fortunati, circa 4 mila in 4 giorni, ce l'hanno fatta. Altri hanno seguito lo stesso destino di quelle migliaia di uomini e donne che nel corso degli anni, tentando di conquistare via mare l'Europa, sono annegati. Gli ultimi sono morti lo scorso 12 febbraio, quando un barcone carico di migranti è affondato nelle acque antistanti Girgis, in Tunisia, dove un giovane è annegato e uno è disperso e il 13 febbraio quando, dopo uno speronamento di una motovedetta tunisina, un barcone è affondato facendo 29 morti. Sono anche loro "vittime della frontiera" e si aggiungono a quelle che negli anni hanno trasformato il Mediterraneo in un grande cimitero a cielo aperto.

I naufragi peggiori si sono registrati nel Canale di Sicilia, in particolare nelle acque territoriali libiche. Si pensava che fosse il mare a custodire la maggior parte dei cadaveri. E invece, grazie al contributo di numerosi testimoni, emerge un'altra verità che il governo del colonnello Muhammar Gheddafi ha cercato di occultare. A causa del flusso delle correnti, molti corpi vengono rigettati sulle spiagge libiche: negli ultimi dieci anni ne sono stati recuperati circa 1.500 di cui almeno 500 seppelliti in un cimitero non islamico di Tripoli conosciuto con il nome storico di "Hammangi" e circa 800 sono ancora in attesa di riconoscimento negli obitori della città.

Una vicenda tenuta segreta da un regime che si rifiuta di riconoscere la presenza di rifugiati nel Paese e sostiene che esistono solo immigrati clandestini, dunque irregolari. È appena stata varata una legge per punire il traffico di migranti ma che non fornisce loro nessuna protezione.
Ad Hammangi, fra l'area italiana e quella anglosassone, in una striscia di terra di nessuno gestita dalla "shabia" (la circoscrizione), il governo libico, porta alcuni degli africani che ritrova morti nel deserto ("In totale circa 1.500 l'anno", dicono dall'Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni) e i corpi dei clandestini africani rigettati dai flutti sulle spiagge.


Si tratta per lo più di cadaveri ritrovati nell'area di Tripoli, nelle zone di Janzur, Gargaresch, Suk Juma, Abuslim, Taruna, a giudicare da quanto si legge sulle piccole lapidi sopra alle tombe in cemento. "Quando vengono a seppellirli, c'è sempre un funzionario della Procura che con carte alla mano, certificato di morte e di sepoltura, presenzia alla cerimonia", spiega un impiegato della circoscrizione. "Tutto è registrato, il luogo e la data del ritrovamento, il motivo presunto della morte, il tempo trascorso in obitorio e infine la data dell'interramento", conferma Bruno Dalmasso, italiano da sempre in Libia, che si è occupato della riqualificazione della sezione italiana di Hammangi.

Anche un giovane poliziotto dell'Ufficio relazioni esterne che preferisce l'anonimato conferma la procedura e sottolinea che "tutto avviene a spese del governo libico. I corpi sono seppelliti ad Hammangi perché si presume che queste persone siano di altre religioni: la cattolica, l'ortodossa, l'anglicana. I non islamici non possono essere seppelliti con i musulmani, così a volte per capire l'appartenenza religiosa si guarda alla circoncisione".

"Sono tutti senza documenti", spiega sbrigativo un altro funzionario governativo che nel passato era distaccato alla sicurezza dell'obitorio del Tripoli Medical Center. "Portano con sé solo qualche foto tessera nel caso trovino come regolarizzarsi. L'Obitorio è così pieno di cadaveri che non c'è posto per i nostri morti. Per legge li dobbiamo tenere circa tre anni in frigo così da rendere possibili eventuali riconoscimenti". Lo spettacolo che descrive è raccapricciante: "I corpi rigettati dal mare sono mangiati dai pesci. Ne ho visti alcuni senza piedi, altri senza faccia, uno aveva metà del corpo, un altro gli arti inferiori ripuliti dalla carne".

Nel 2007, suor Sheryl, una religiosa della Chiesa di San Francesco a Dahara, entrò nell'Obitorio del Tripoli Medical Center per accompagnare una clandestina in cerca del marito. Ricorda adesso: "Non sono riuscita a dormire per una settimana. I corpi erano ovunque e il mare li aveva gonfiati e trasfigurati. Erano lì da almeno due anni".

Il fotovoltaico su terre agricole? - Nasce nel novese il comitato per la Frascheta

Il Comitato per la Frascheta nasce dall’esigenza di un gruppo di cittadini di porre un freno alla speculazione economica che rischia di cambiare irreversibilmente – ed in peggio – il volto della nostra zona.
La zona meridionale della Frascheta, nelle immediate vicinanze di Novi Ligure, è un contesto che, nonostante i dissennati tentativi dell’uomo di utilizzarlo a proprio esclusivo tornaconto per svilupparvi i business dei rifiuti, delle cave e delle grandi industrie, ha resistito nel tempo conservando le peculiarità della tipica campagna novese. Fino ad ora, grazie al vincolo paesaggistico e all’opera di controllo e tutela della Regione Piemonte e della Sovrintentenza ai Beni Culturali e del Paesaggio, la zona è riuscita a rispettare le sue caratteristiche originarie, mantenendo i valori della tradizione. È un patrimonio fruibile a tutti, nelle immediate vicinanze di Novi, e come dimostrano i numerosi frequentatori, una delle mete preferite per le passeggiate.Ci troviamo a dover difendere il patrimonio ambientale locale, eredità di secoli di saggia agricoltura, dalla speculazione definitiva di chi intende costruire non palazzi o capannoni, ma distese di pannelli fotovoltaici, sottraendo grandi porzioni di terreno fertile per votarlo, in maniera pressochè permanente, all’industria energetica. Ciò è possibile, secondo i promotori di tali progetti, nonostante esista un vincolo paesaggistico che per trent’anni ha impedito insediamenti industriali in quella che era una zona ad unica vocazione agricola ed un decreto ministeriale (D.M. 10/9/2010) che biasima chiaramente l’attuazione di impianti estensivi ed impattanti.
A scanso di equivoci, affinchè non ci venga affibbiata l’etichetta dei soliti bastian contrari, nimby, antiprogressisti è necessario chiarire che non siamo contro la produzione di energia da fonti rinnovabili quali il fotovoltaico o l’eolico, ma riteniamo necessario che vengano posti specifici vincoli legislativi alla proliferazione di tali impianti. E’ sbagliato permettere che si ricoprano di pannelli suoli vergini quando si potrebbe prima utilizzare la grande eccedenza di capannoni, parcheggi, discariche, zone industriali dismesse che si trova sul nostro territorio. E’ inaccettabile che questa politica energetica miope sia attuata perchè semplicemente più remunerativa della corretta prassi, indicata da noi come dal legislatore a livello nazionale.
Bisogna purtroppo prendere atto del fatto che le amministrazioni locali, a prescindere dall’orientamento politico, sono ancora nella nostra esperienza colpevolmente sorde ad osservazioni oggettive e documentate. Non colgono la necessità di politiche pubbliche lungimiranti in ambito energetico e ambientale, non guardano al pericolo che rappresenta la rincorsa ad effimeri incentivi economici di breve periodo rispetto alla tutela di un patrimonio unico ed insostituibile. Ci indigniamo di fronte al dubbio – inconfessabile ma purtroppo non reprimibile – che questo comportamento sia frutto di un ritorno economico di qualche tipo, anche se a fronte di una situazione di nota difficoltà finanziaria degli enti locali che di certo le bellezze ambientali e paesaggistiche italiane non hanno contribuito a generare ma al contrario hanno sempre contribuito a sanare.
Come dato di fatto abbiamo la presenza sul territorio di due impianti di una certa dimensione alle porte di Novi e altri tre ancora più grandi in fase di autorizzazione, nel raggio di un paio di chilometri. E non è che l’inizio: sul territorio provinciale si contano a decine le domande presentate per un totale di centinaia di ettari di territorio sottratto alla produzione agricola. La corrente situazione di “far west” continuerà fintanto che nelle opportune sedi istituzionali non saranno presi gli adeguati provvedimenti di pianificazione legislativa territoriale.
A voi lettori chiediamo di unirvi a noi in questa battaglia a difesa dei beni comuni. Ci rallegriamo di essere in buona compagnia, ultimamente, a chiedere che si usi lungimiranza e buonsenso, specie da parte degli enti locali, sulle autorizzazioni a costruire questo tipo di impianti. Le fonti energetiche rinnovabili rappresentano una speranza per un futuro sviluppo economico, industriale e sociale sostenibile, lontano dai combustibili fossili, in armonia con l’ambiente e chi lo vive, a garanzia della salute propria e dei propri figli. E proprio perchè non vogliamo che questa rimanga pura retorica, dobbiamo vigilare che questa rivoluzione verde, potenzialmente utilissima per il paese contribuisca fedelmente ed efficacemente al fabbisogno ed alle esigenze della collettività, con un adeguato ritorno per gli investitori, ma senza – come troppo spesso avvenuto in passato – speculazioni di breve periodo ad appannaggio di pochi, spregiudicati, imprenditori.
Per una Frascheta libera, verde e pulita, fermiamo il consumo di territorio.

Comitato per la Frascheta

da GlobalProject

Dietro le quinte della crisi: bassi salari e finanziamenti pubblici


Viaggio nelle delocalizzazioni: da Fiat a Geox, passando per Bialetti e Golden lady, le imprese in fuga dall’Italia alla ricerca dei salari più bassi e dei finanziamenti statali. La colonizzazione dell’est europeo e il caso Geox, ovvero, produzione all’estero, bassi salari e il falso mito del made in Italy.

www.rebusmagazine.org
La natura delle delocalizzazioni produttive e la loro articolazione recente in Italia (vedi “la fabbrica cambia sede: la frontiera è ad oriente”), si innestano pienamente nei processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale che hanno caratterizzato la recente, ed ancora in corso, crisi internazionale. In tempi di crisi infatti, più che in tempi di crescita, le imprese tendono ad acquisire dei vantaggi in termini di produttività e di costi e la delocalizzazione produttiva risponde proprio a questa esigenza attraverso il trasferimento degli stabilimenti nei paesi in cui il costo della manodopera è più basso e maggiori sono gli incentivi alla produzione sotto forma di finanziamenti ed agevolazioni fiscali.Tuttavia, nel guardare alla delocalizzazione va innanzitutto tenuto conto che si tratta di un fenomeno strettamente connesso al tendenziale processo di internazionalizzazione del capitale e di concentrazione industriale. Da un lato, infatti, è necessaria un dimensione minima per poter effettuare il trasferimento degli impianti, cosa che limita il fenomeno per lo più alle grandi imprese (benchè esso si stia diffondendo anche tra quelle di media grandezza), dall’altro la delocalizzazione è funzionale alla ristrutturazione industriale e può accompagnarsi ad accordi di partnership o fusione.
Nelle fasi di crisi entrambi i processi subiscono di norma una accelerazione. Il perché è evidente: le imprese incapaci di reagire, per struttura produttiva, alla riduzione della domanda vengono espulse dal sistema e le imprese rimaste sfruttano il momento per consolidarsi attraverso fusioni ed acquisizioni tentando di acquisire ulteriori quote di mercato. Il patto Fiat-Chrysler ne è un tipico esempio.

È a tutti noto che le imprese europee subiscono con crescente difficoltà la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, Cina ed India in primo luogo, che si è progressivamente aggiunta a quella esercitata dal capitale nordamericano. A fronte di questa pressione le imprese europee hanno reagito già in passato delocalizzando al di fuori dei confini europei e, più organicamente, sfruttando i processi di allargamento dell’Europa. Anzi, si potrebbe più correttamente dire che l’allargamento dell’Unione risponde in maniera diretta alle esigenze dell’industria europea in termini di competizione e si accompagna ad una serie di incentivi alla concentrazione oltre che a politiche monetarie comunitarie ritagliate su misura. L’apertura dei mercati e la privatizzazione di settori strategici adottate unanimemente da tutti i paesi membri hanno agevolato la concentrazione del capitale nel centro economico dell’Europa. Inoltre, l’allargamento ha garantito alle grandi imprese la possibilità di accedere a mercati dei fattori meno costosi, attraverso la delocalizzazione produttiva, e di ottenere nuovi mercati di sbocco per i prodotti finali.

L’ingresso nell’Unione degli stati dell’est è stato generalmente presentato come una straordinaria opportunità: agli evidenti benefici per i capitali tedeschi, francesi o italiani si sarebbero accompagnate maggiori opportunità di attrazione dei capitali esteri da parte dei nuovi entranti e dunque nuove opportunità di sviluppo. In realtà, il processo di allargamento , combinato ai processi delocalizzativi, ha generato un progressivo appiattimento verso il basso dei livelli salariali per via dell’accresciuta competizione sul mercato del lavoro ed un peggioramento complessivo della solidità economica dei paesi periferici.

Tralasciando gli evidenti vantaggi a favore dell’impresa, che si sostanziano non tanto nella riduzione del costo del lavoro quanto, piuttosto, nell’accesso a finanziamenti e prestiti pubblici ed agevolazioni fiscali, la delocalizzazione, se interpretata alla luce delle politiche comunitarie, non si traduce certo in un operazione vantaggiosa nei confronti del paese ricevente. Senza dubbio, Il Paese che ‘perde’ l’impianto subisce un incremento della disoccupazione e realisticamente una riduzione in termini di reddito complessivo anche per via della perdita del cosiddetto ‘indotto’, cioè dell’insieme di attività economiche presenti nel territorio connesse alla presenza dell’impianto principale. Per il paese che ottiene l’impianto, la delocalizzazione si traduce in un investimento che è rappresentabile, contabilmente, come un flusso di risorse in entrata. Tuttavia, tali risorse restano in gran parte a disposizione dell’impresa essenzialmente sotto forma di profitti e di capitale fisico anche per via il regime di tassazione agevolato. Dunque, per il paese ricevente, l’effetto più evidente è la maggiore domanda di beni generata dall’aumento dell’occupazione che si traduce, soprattutto, in un incremento delle importazioni. Ciò dipende dal fatto che le politiche di moderazione salariale, adottate dai paesi centrali ed in particolare dalla Germania, garantiscono la maggiore competitività delle imprese provenienti dal centro. Il risultato dunque, in termini di conti con l’estero finisce per essere sostanzialmente nullo. Al peggioramento dei conti con l’estero i paesi riceventi possono ormai reagire quasi esclusivamente attraverso una compressione della spesa pubblica ed una riduzione dei salari, così incrementando ulteriormente la competizione nel mercato del lavoro europeo, favorita dalla tendenziale compressione del ruolo dei sindacati.La crisi mondiale ha acuito in parte questi processi. All’ulteriore e plausibile allargamento in favore della Turchia, l’Unione accompagna una stretta su spesa pubblica e salari e, d’altra parte, la ristrutturazione del capitale a livello europeo e mondiale subisce un’accelerazione.

Se i casi Omsa e Bialetti rispondono alle classiche logiche di disinvestimento tipiche dei processi delocalizzativi, il caso Fiat risulta emblematico: Marchionne ha impresso una svolta nelle strategie di localizzazione la cui dinamica appare ora in tutta la sua chiarezza. Da una parte l’accordo con Chrysler ha permesso al Lingotto di ottenere finanziamenti da parte del governo statunitense per penetrare il mercato americano, acquisire (o farsi acquisire da) l’impresa statunitense e mantenere gli impianti sulla base di condizioni non dissimili a quelle approvate a Pomigliano e Mirafiori. Dall’altro, in seguito all’indebolimento del ruolo delle autorità di politica economica ed alla competizione tra Stati per l’acquisizione del capitale estero, la Fiat e con essa le altre grandi imprese possono avviare una fase di contrattazione perenne fondata sul continuo ricatto occupazionale. Da Tichy e Mirafiori a Pomigliano, i lavoratori saranno esposti dalla competizione reciproca al rischio probabile di una ulteriore spirale deflazionistica in termini salariali. L’immagine romantica dell’impresa ‘costretta’ al trasferimento e al licenziamento di massa, per continuare a produrre, non è adeguata a raffigurare una FIAT in cui il peso delle attività finanziare è ormai strategicamente preponderante rispetto alla produzione di veicoli e in cui i lavoratori assumono ormai la funzione di ostaggi a tempo indeterminato.

www.rebusmagazine.org

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da Indymedia

mercoledì 23 febbraio 2011

Si finge nazi per vendicare la famiglia Dopo 4 anni scopre l'SS che la sterminò

BERLINO - Per vendicare la sua famiglia sterminata dai nazisti, per quattro anni si è trasformato in uno di loro. Ha mangiato con loro, ne è diventato amico, si è vestito come loro e ha urlato i loro slogan. Lo storico americano ebreo Mark Gould, 43 anni, si è finto neonazi per smascherare l'aguzzino delle SS che aveva ucciso 28 membri della sua famiglia. Zii, cugini, nonni, il suo passato e parte del suo futuro. Ma la storia della vendetta Gould l'ha poi raccontata al quotidiano di Amburgo, la Bild.Dopo averne seguito le tracce, dagli Stati Uniti Gould aveva deciso di trasferirsi in Germania nel 2006. Voleva denunciare la responsabilità nella Shoah di Bernhard Frank, 97 anni, ex Obersturmbannführer di Hitler, che negli anni aveva continuato a praticare indisturbato come 'dottore' e che dalla fine della guerra, viveva tranquillamente in Assia. Gould ne aveva ricostruito il passato, seguito la vita quotidiana, la professione. Frank non era stato un nazista qualsiasi, ma l'ultimo comandante dell'Obersalzberg, il nido dell'aquila sulle Alpi bavaresi, residenza di vacanza di Hitler.

Era stato soprattutto il braccio destro di Heinrich Himmler, capo delle SS che mise in atto la soluzione finale decisa dal Führer. La vendetta di Gould ha cominciato a prendere forma quattro anni fa. Una volta arrivato in Germania aveva iniziato a partecipare a numerose manifestazioni di veterani delle SS in Germania dove era riuscito ad avvicinare Frank. Lentamente l'aveva portato a confidarsi e a intrattenere
un rapporto epistolare con lui.

Era stata la sua firma in una di queste lettere a confermargli che fosse proprio l'uomo che cercava: "Era la stessa apposta sotto l'ordine del 28 luglio 1941 di sterminare gli ebrei", ha raccontato Gould alla Bild. "Se la popolazione è inferiore dal punto di vista umano o della razza, bisogna fucilarli tutti", era il testo del messaggio con il quale Frank ordinò di sterminare la popolazione civile della Bielorussia.

In questi quattro anni, lentamente, Gould è riuscito a parlare con Frank anche di quell'ordine. L'ex Obersturmbannfuehrer gli aveva risposto così: "Non c'è niente da criticare, poiché gli ebrei hanno oppresso i tedeschi e con questo si sono scavati la loro fossa". Poco dopo che lo storico americano ha citato a Frank tutti i nomi dei suoi familiari, sterminati su suo ordine. Un appello agghiacciante di morte. "Sei un mio amico o un mio nemico?", gli ha risposto l'ex SS. Non ha mai avuto altra risposta, se non l'elenco di quei 28 nomi.

La Bild ha appreso da ambienti giudiziari che le autorità americane e la polizia regionale di Wiesbaden hanno aperto un fascicolo su Bernhard Frank, in vista di una possibile incriminazione.

da Antifa.org

Berlusconi complice di Gheddafi, se ne vadano entrambi!


da Indymedia di Dada Viruz Project
Che i tiranni lascino mal volentieri il potere è cosa ben risaputa ma quanto sta avvenendo in Libia è qualcosa di terrificante che supera l’iimaginazione. La rezione del colonnello Gheddaffi ha superato di gran lunga quella degli altri despoti della regione, Mubarak e Ben Alì. Il regime libico, infatti, non si è limitato a mandare contro i manifestanti una polizia brutale come è avvenuto in Tunisia ed Egitto ma ha ordinato a veri e propri mercenari stranieri di sparare sulla folla. Gli oppositori del colonnello corrotto e razzista sono stati colpiti da colpi di mortaio, da scariche di mitragliatrici da veri e propri bombardamenti avvenuti da aerei ed elicotteri. Il volto più brutale dello stato, quello terrorista, si è manifestato al mondo intero. Gheddaffi da anni gode dell’appoggio del governo Italiano che lo ha riabilitato agli occhi del mondo. Il ministro degli esteri Franco frattini e il rais di casa nostra Silvio Berlusconi, in più di un’occasione hanno pateticamente elogiato il “nuovo corso” di Gheddaffi.I capitalisti italiani, Eni in testa, hanno fatto affari con questo signore e i suoi clan. Gheddaffi però non è solo un uomo dal passato oscuro, un uomo d’affari senza scrupoli è il cane da guardia della Fortezza Europa nel Mediterraneo. Nei deserti libici migliaia e migliaia di Africani sono morti di stenti o uccisi torturati dagli sgherri del colonnello libico per impedire che questi migranti raggiungessero l’Europa come più volte richiesto dai ministri Roberto Maroni e Franco Frattini. La crudeltà e la ferocia che il regime libico ha usato contro gli africani oggi la usa contro il suo stesso popolo. Si tratta di crimini contro l’umanità che meritano una condanna netta e non le parole balbettate di un governo quello italiano che ha venduto armi alla Libia e che è stato complice in tutto e per tutto di molte delle gesta criminali di Gheddaffi. Non dimentichiamo quante volte le navi libiche hanno sparato sui barconi carichi di migranti. Fino a poche ore fa Franco Frattini, il peggiore ministro degli esteri che la Repubblica iItaliana abbia mai avuto, auspicava una riconciliazione tra le parti. Di quali parti vada parlando non lo capiamo. Da una parte c’è un popolo stufo di 42 anni di violenze e sopprusi dall’altra una casta di privilegiati e impuniti che sostiene un feroce dittatore. Il servo sciocco, Emilio Fede, che conduce l’illegale TG4, illegale stando alle sentenze europee, è arrivato a dire: “Gheddaffi riuscirà a fermare i rivoltosi e a tenere in mano la situazione, ce la farà”. Le simpatie del viscido Emilio Fede per il colonnello libico, forse non sono dovute solo al fatto che i due hanno stili di vita simili ma piuttosto al fatto che l’economia italiana è legata a doppio filo con il tiranno di Tripoli. Tantissimi sono i trattati che i due paesi hanno firmato su petrolio, GAS, armi, immigrati e tanto altro ancora. Di fronte alle prese di distanze, tardive, degli altri paesei europei il governo italiano ha continuato a balbettare.
“Noi vogliamo sostenere il processo democratico – ha affermato il titolare della Farnesina – ma non dobbiamo dire ‘questo è il nostro modello europeo, prendetelo’. Non sarebbe rispettoso dell’indipendenza del popolo, della sua ownership”. Questa dichiarazione puzza di opportunismo e ipocrisia. Perchè tali preoccupazioni, il governo italiano, non le aveva quando partecipava alla guerre d’aggressione contro Afghanistan e Iraq. Allora si diceva in modo banale che: “si andava ad esportare la democrazia”. Oggi, infatti, Iraq e Afghanistan sono esempi di alta democrazia? Verrebbe da riderci sopra se non si ci fosse la tragedia di un’umanità violentata dalle logiche più perverse del potere politico, economico e militare. A fare dell’ironia, e forse non troppa, ci ha pensato un giornale “bolscevico” come il New York Times che ha scritto sulle sue pagine:”Andare con giovani marocchine è il contributo italiano alla Rivoluzione araba.” L’Italia paese con la testa in Europa e il sedere in Medio Orienta è stata totalmente incapace di comprendere cosa accadeva. Ancora una volta la classe dirigente italiana ha preso parte al sacco di risorse. Le masse arabe sanno bene quali sono le responsabilità dell’Europa e dell’Italia nelle vicende dei loro paesi. Cosi mentre in Egitto escono canzoni che prendono in giro il Rais italiano per le arci note vicende del “Bunga Bunga”, A Tripoli i manifestanti gridano: “A morte Gheddaffi a morte Berlusconi” e a Malta dove molti libici si sono rifugiati c’è stata una contestazione davanti all’ambasciata italiana. E’ evidente che tutti hanno ancora negli occhi le immagini di Berlusconi che bacia le mani a Gheddaffi.
Di fronte a questo genocidio solo i complici e i vigliacchi possono rimanere in silenzio. Esprimiamo totale solidarietà alle masse arabe in lotta. Il modo più concreto di aiutarle è fare come loro e cacciare Berlusconi, Frattini, Maroni e gli altri squallidi personaggi che ci governano. Mandiamoli tutti via costruendo una grande mobilitazione di massa.

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Di ritorno dall'Algeria - Intervista a Giuliana Sgrena



da GlobalProject
A Padova per un incontro, organizzato dall'AssoPace in collaborazione con il circolo del Manifesto, Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, di ritorno dall'Algeria racconta cosa sta succedendo nei paesi arabi.

Prima di passare a tratteggiare i dati in comune delle rivolte che si stanno succedendo in tutta l'area del mediterraneo, Giuliana Sgrena si sofferma sull'attuale drammatica situazione in Libia.
"La tolleranza avuta nei confronti di Gheddafi è una responsabilità del governo italiano e dell'Europa, per questo è necessaria la più ampia mobilitazione contro la repressione di questi giorni.
Possiamo chiamare vere rivoluzioni quelle che hanno attraversato Egitto e Tunisia perchè si è trattato dell'avvio di un cambiamento radicale, di cui gli effetti sono in corso.
A partire dall'improvviso scoppio della rivolta in Tunisia è partito un effetto domino che sta continuando anche se in ogni realtà con aspetti particolari. Nessuno di questi paesi si salva, ovunque ci sono le condizioni per ribellarsi. E' come quando cadde il muro di Berlino, i cambiamenti saranno profondi e sono destinati a coinvolgere anche noi, le nostre frontiere.
Si tratta di movimenti spontanei in cui si intrecciano il ruolo di internet e dei social-network con esperienze più strutturate come ad esempio in Tunisia con il ruolo che ha avuto la base sindacale.
Si tratta di movimenti in cui la spontaneità si confronta con la ricerca di nuove forme associative, come nel caso del dibattitto molto duro ed ampio che sta attraversando ad esempio in Algeria il Coordinamento Nazionale per il Cambiamento e la Democrazia.
Si tratta di rivolte laiche ben diverse dal passato, che saldano rivendicazioni sociali e rivendicazioni politiche. C'è una forte denuncia della necessità della redistribuzione delle ricchezze accumulate e la rabbia per ceti politici e famiglie di potere che hanno accapparrato in maniera corrotto quanto prodotto nei vari stati.
Le risorse di questi paesi sono state sfruttate a vantaggio di pochi, gli accordi siglati con l'Europa per frenare le migrazioni sono serviti solo a garantire la sicurezza delle frontiere, le imprese che si sono installate in loco hanno delocalizzato la produzione per utilizzare mano d'opera a basso costo.
Di fronte all'attuale situazione c'è stata un'assenza totale dell'Europa e questa constatazione è percepita con evidenza. C'è anche una percezione positiva , forse anche illusoria, delle prese di posizione di Obama.
Abbiamo fatto guerre in nome dell'imposizione della democrazia ed ora non sosteniamo dei popoli in lotta per la democrazia: questo dimostra che l'Europa non esiste.
Di fronte ai legami che l'Italia ha con la Libia, con l'Algeria non possiamo essere silenziosi e complici."
Nel rispondere alle domande e agli interventi dal pubblico Giuliana Sgrega ha poi sottolineato come sia necessario mobilitarsi per garantire l'accoglienza e l'apertura delle frontiere per chi intende arrivare in Europa.
Ha poi puntualizzato come sia ovviamente impossibile tracciare con chiarezza totale gli scenari futuri nei singoli paesi, il ruolo che con le rispettive differenze ha giocato e può avere l'esercito, il percorso che si potrà costruire per dare vita a nuovi modelli sociali che non per forza devono rinchiudersi nella scelta di strade già indicate come, ad esempio, molti commentatori individuano nel cosidetto modello turco.
Rispondendo ad una domanda sull'insieme del continente africano, Giuliana Sgrena ha risposto che ancora non possiamo dire quanto quello che sta succedendo peserà sul resto dell'Africa, dove peraltro già stanno crescendo le proteste contro regimi autoritari e corrotti.
"Di certo l'onda che attraversa i paesi arabi si inserisce all'interno della dimensione della crisi globale ed in questo senso il rifiuto della precarietà sociale non solo economica ma della stessa vita, tratteggia anche la vicinanza con la nostra stessa condizione anche in Europa
La forte partecipazioni di giovani e di donne è un tratto comune di quanto sta avvenendo così come l'epoca che si apre ha sancito la fine del "nazionalismo arabo", così come si era strutturato in sistema di potere negli ultimi decenni.
C'è un futuro che si sta costruendo e che ha bisogno del nostro appoggio."
A cura dell'Associazione Ya Basta

martedì 22 febbraio 2011

lunedì 21 febbraio 2011

CLAUDIA RAHO.....UNA PERSONA NORMALE

C.Raho 19feb11 from L'Oraweb on Vimeo.

Il ruggito di Gheddafi


Gheddafi minaccia l'Europa: niente interferenze o stop alla cooperazione per la gestione dei flussi migratori

La fiera non gradisce essere disturbata mentre consuma il suo pasto. Muammar Gheddafi, come Saturno, sta divorando centinaia dei suoi figli e ruggisce per mettere a tacere le lamentele mosse da Francia e Ue (per bocca della signora Ashton) perché si ponga fine alle violenze. Il messaggio fatto recapitare a Bruxelles è chiaro: se l'Unione Europea non cesserà di sostenere le rivolte in Libia, Tripoli smetterà di fare il poliziotto di frontiera per Bruxelles.

Il Colonello sa dove colpire, conosce le ipocrisie della politica: sa che ciò che si teme di più da questa sponda del Mediterraneo è l'incubo dell'invasione dei migranti, la paura dei barbari. Basta un colpo di frusta, basta che Gheddafi decida di allargare le maglie dei controlli, per far sì che l'Europa sia sommersa e vada in tilt.Il governo italiano non ha fatto misteri: la più grande preoccupazione non deriva dalla frustrazione dei diritti umani e della legittima aspirazione di libertà, ma dalla possibilità che questa rivolta, come quella tunisina ed egiziana possa fare aumentare il numero degli sbarchi sulle coste d'Italia. Di un'Italia pavida ché forse si è resa conto in ritardo di aver firmato più di un patto con il diavolo: difatti, il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, ha affermato che bisogna "evitare ingerenze per tutelare i nostri interessi economici; nella vicenda libica occorre un grande senso dell'equilibrio". Forse si pecca di scarsa confidenza con la Realpolitik, ma non è che questo "senso dell'equilibrio", magari, tornava più utile al momento della scelta del partner strategico? Certo, adesso Cicchitto ha ragione, adesso ci vuole grande senso dell'equilibrio per tenere in piedi i patti con il diavolo. Sappiamo tutti che la Libia - attraverso un fondo sovrano e la Banca centrale - detiene il 6,7 per cento di Unicredit, sappiamo delle commesse di Impregilo, degli importantissimi investimenti di Eni in Libia (25 miliardi di euro) e anche della fetta che si è accaparrata Finmeccanica mediante la controllata Selex Sistemi Integrati. Possiamo immaginare quante altre scatole finanziarie siano contenute da queste più grosse e, forse, solo lontanamente riusciremmo a prefigurarci le conseguenze del regime libico che va in frantumi. Probabilmente - si spera - gli amministratori delegati e i grandi finanzieri italiani avranno già calcolato il rischio paese legato a doppio filo al dittatore libico.

Nel buio dell'informazione, le notizie continuano ad arrivare a pezzi, frammenti che da soli bastano a restituire un quadro orripilante. Nella cronaca di questa rivoluzione criptata, gli ultimi racconti parlano di bambini rimasti uccisi sotto sventagliate di mitra lanciate indiscriminatamente dall'altezza di un elicottero; in uno scenario di guerra - che possiamo solo immaginare, poiché non ci sono fotografie o video cui aggrapparci - le forze di sicurezza hanno usato contro la folla lanciarazzi Rpg. E ancora, si racconta di assalti ai palazzi governativi, di spari contro le case e contro la gente in fuga, di mercenari (pagati dal regime 12 mila dollari per ogni uomo ucciso) catturati o impiccati dai manifestanti. Alcune fonti mediche riferiscono di 285 morti solo a Bengasi, Human Rights Watch (Hrw), invece, presenta un bilancio di 173 vittime in tutto il paese - un ridimensionamento che certo non indurrebbe all'ottimismo.

Gli utopisti digitali - così, il senatore Maurizio Gasparri (Pdl) ha etichettato i giovani "illusi" che stanno morendo in Libia e in tutto il Medioriente - aspettano di capire quale sia il numero delle vittime bastevole a intaccare la Realpolitik, che - almeno in Italia - nei confronti del Colonnello Muammar Gheddafi si pratica con la politica (colpevole) dell'accondiscendenza.

di Nicola Sessa da PeaceReporter

Primo giorno occupazione Puzzle a Roma



Roma,19 Febbraio 2011

Roma - Vostra la speculazione, nostro il nuovo welfare!

nasce PUZZLE: Welfare in progress..


Questa mattina abbiamo liberato dalla rendita un immobile di via Monte Meta, al Tufello, in passato sede di alcuni uffici del Municipio IV. Lo stabile, di proprietà comunale, è finito nel risiko delle lobby elettorali di Alemanno e del suo sodale Bonelli che, nonostante un progetto di autorecupero abitativo di appena tre anni fa, intende cambiarne la destinazione d'uso e regalare gli spazi a qualche associazione “fidata”. Una vergogna che avviene in un territorio martire della speculazione, segnato dall'abbandono di spazi pubblici e privati di grande pregio storico, culturale e archittettonico.

Siamo studenti e studentesse della Sapienza, precari metropolitani, cittadini di questo quartiere, stanchi di pagare una crisi economica che assume le forme del saccheggio del territorio, del taglio dei servizi, della precarietà, della guerra all'autodeterminazione delle donne, dell'assenza di un welfare in grado di garantire tutele per tutti e tutte.

Davanti a questa crisi devastante, il Campidoglio prosegue l'opera di demolizione delle politiche sociali e culturali, assecondando le pretese della rendita immobiliare e finanziaria. Una giunta segnata dalla corruzione e dal clientelismo, che usa la paura e l'insicurezza per scatenare la guerra tra poveri. Abbiamo ancora negli occhi le immagini dei quattro bambini rom uccisi pochi giorni fa dall'indifferenza delle istituzioni.
Questo non è un paese per giovani: studenti e precari vivono sulla propria pelle l'intermittenza di reddito, la frustrazione di lavori sottopagati e non garantiti, una formazione sempre più dequalificata e senza prospettive. In questa città, un posto letto in affitto costa 400 euro al mese, le case dello studente sono inaccessibili e, tanto per non farci mancare nulla, ha chiuso i battenti anche l'ultimo ostello della gioventù.
A questa destra arrogante rispondiamo liberando spazi e immaginando una idea alternativa di welfare e di città: uno studentato autogestito, un progetto di autoformazione, laboratori di produzione musicale e multimediale.
Vogliamo praticare un percorso "comune" di autogoverno, come "comuni" sono le lotte contro il modello Marchionne e la “riforma” Gelmini, due modelli di precarizzazione selvaggia che hanno trovato una straordinaria resistenza nella società, testimoniate dalle grandi mobilitazioni di questo inverno. Nelle strade di Roma il 14 e il 22 dicembre, nelle scuole e nelle università di tutta Italia, fino alle lotte di Mirafiori, abbiamo imparato a essere UNITI CONTRO LA CRISI.
Vogliamo ridisegnare dal basso la nostra città, da troppo tempo ostaggio dei poteri forti e di una politica che è solo strumento di corruzione. E lo facciamo nei giorni della ridicola kermesse degli Stati Generali di Alemanno, in cui il sindaco proverà a rilanciare l'immagine della città dopo tre anni di politiche fallimentari.
La città è un bene comune! Tutt@ in piazza, alle 15 corteo da piazza Vittorio.

Laboratorio PUZZLE
...welfare in progress
Via Monte Meta 21, Tufello
da Repubblica.it
Galleria Fotografica Eidon Press
da Libera tv
da GlobalProject

Ricordare per giudicare: il caso Battisti, la disinformazione brasiliana e la menzogna italiana

di Franco Piperno da GlobalProject.info
Partiamo da alcuni fatti, per poi, attraverso l’esercizio del dubbio, pervenire ad una certezza che si conclude con un “caveat”.

Primo fatto. Battisti è stato condannato dai magistrati milanesi, oltre trenta anni fa, per gravissimi reati; in particolare la sentenza definitiva gli addebita quattro omicidi. Per due di questi crimini è ritenuto responsabile morale. Lui si proclama innocente. L’autorità politica del Brasile, paese retto da un regime considerato ”democratico” dalla diplomazia occidentale, gli ha accordato lo status di emigrato in considerazione della natura politica dei delitti di cui è accusato e delle vicende successive che lo hanno coinvolto; in altre parole, il governo brasiliano ha giudicato che lo svolgimento dei processi negli anni settanta, quando erano in vigore le ”leggi speciali contro il terrorismo”, abbia gravemente risentito delle procedure emergenziali adottate dallo stato italiano per far fronte ad una rivolta sociale, una “insorgenza di massa”, senza precedenti nella storia del paese.

Secondo fatto. Questo giudizio negativo non è certo una sorpresa, una inattesa ed irresponsabile offesa alla dignità del nostro paese dovuta alla cattiva conoscenza della storia italiana, in particolare di quella più recente. Infatti, in questi trenta anni, è accaduto più volte che delle richieste d’estradizione, avanzate dalla nostra magistratura per delitti riferiti agli “anni di piombo”, siano state formalmente respinte, dall’autorità straniera, con motivazioni del tutto analoghe a quelle formulate, qualche settimana fa, dal brasiliano presidente uscente Lula do Silva. E’ accaduto così per il Canada, la Svizzera, la Germania, la Gran Bretagna, la Svezia, il Nicaragua, l’Argentina,il Giappone per non parlare della solita Francia. La possibilità, che le autorità di tutti questi paesi difettino di giudizio e scarseggino d’informazioni sul nostro paese, è poco probabile. Più probabile appare, al contrario, che vi sia nel sistema politico italiano una coazione a ritrovare le sue origini, una sorda volontà di continuare a legittimarsi sulla repressione dei moti rivoluzionari degli anni settanta; o, per dirla con la vulgata mediatica, sul merito di aver salvato la repubblica democratica dal terrorismo rosso-- omettendo, forse per modestia, quello di aver potentemente contribuito a generarlo. Sicché, qualsiasi episodio che getti dubbi sulle misure liberticide adottate in quegli anni, o anche solo sulle sentenze giudiziarie di quel periodo, viene vissuto dal ceto politico con emozione trasversale, non priva d’isteria, maggioranza ed opposizione insieme; quasi si fosse in presenza di un subdolo attentato alla credibilità del potere. Insomma, sarà il presidente Lula a sbagliare giudizio sulla tragedia italiana degli anni settanta o il presidente Napolitano a rimuovere inconsapevole le gesta del compagno Pecchioli ,ministro ombra di polizia e attore protagonista in quella tragedia?

Terzo fatto. Risulta paradossale che il presidente del consiglio ed il ministro di giustizia si lamentino della scarsa considerazione in cui è tenuta la nostra magistratura presso le autorità brasiliane, quando entrambi, all’unisono e quotidianamente, denunciano la”malattia italiana”, l’uso politico della giustizia da parte dei giudici. Dopotutto, può darsi che Lula legga, di tanto in tanto, il “Giornale” di famiglia o ascolti il notiziario del TG1... Forse Berlusconi e Alfano credono, in buona fede va da sé, che questo stravolgimento del ruolo dell’ordine giudiziario, questa malattia istituzionale sia stata contratta solo recentemente, quando lo stesso Berlusconi, Previti e dell’Utri sono rimasti impigliati nella rete. Forse, sembrano credere, negli anni settanta la situazione era diversa, allora sì che la magistratura era affidabile ed imparziale ed i giudici non si candidavano a deputati. Purtroppo possiamo testimoniare, alcuni tra noi per diretta esperienza, che non era cosi, il vizio è vecchio per non dire antico. Anzi, a vero dire, i metodi giudiziari erano certo più sommari e crudeli allora che oggi; e la stampa, tutta la stampa, al minimo, mentiva per omissione. Dobbiamo tuttavia, a questo proposito, per onestà intellettuale, notare che, allora, non si trattò solo di pulsioni forcaiole di un buon numero di giudici quanto della pochezza del potere politico che incapace di mediare, di svolgere il suo ruolo, finì col trattare quell’aspro scontro sociale come un problema d’ordine pubblico, affidandone la soluzione, attraverso la legislazione d’emergenza, a polizia e magistratura. Questa delega è ancora in vigore oggi, in questa seconda repubblica allo stato nascente, quando si rievocano, per un motivo od un altro, quegli anni; e questo con ragione proprio perché la seconda repubblica è una conseguenza non tanto della scomparsa della Unione sovietica e ancor meno della corruzione di tangentopoli, che continua più vigorosa di prima; ma piuttosto, l’insurrezione armata di studenti ed operai la ha generata nel senso di provocare, per così dire,la rottura del ramo e la scoperta del verme: l’emersione nella coscienza collettiva del paese della consapevolezza sulla vera natura delle istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza, quel grondare di lacrime e sangue scatenato dalle leggi liberticide e dalla licenza d’uccidere conferita alla macchina repressiva dello stato.

Il dubbio. Noi nutriamo più di un dubbio sulle sentenze imperniate attorno al nebuloso strumento giuridico della responsabilità morale - e questo vale per Battisti come per Sofri, per quanto grande possa essere la differenza di spessore intellettuale ed umano tra i due. Infatti, a sostegno della ragionevolezza delle nostre perplessità, potremmo sciorinare qui centinaia e centinaia di casi d’ordinaria iniquità accaduti in quegli anni, quando la responsabilità morale veniva irrorata con una certa generosità a destra e a manca; e di conseguenza, la “migliore parte” del paese, oltre cinquemila giovani e meno giovani, ha conosciuto l’esilio, il carcere, la tortura, in decine di casi la morte; giunta qualche volta perfino nella forma bizzarra del “malore attivo”, per defenestrazione dai piani alti della Questura durante un interrogatorio di polizia, come a Milano; o in modo vile, esecuzione sommaria mentre ancora il sonno del primo mattino rendeva inermi, come a Genova. A noi appare evidente che la responsabilità morale è una circostanza difficile da accertare; e averne sollecitato l’uso ha suonato come un ordine di servizio impartito all’apparato repressivo perché menasse fendenti nel mucchio, ne colpisse cento pur di educarne uno. Per inciso, l’analogo della “responsabilità morale” degli anni settanta è, ai nostri giorni, il reato di “associazione esterna” alla mafia, fattispecie di recente apparizione nella giurisprudenza ma sconosciuta ai codici - anche in questo caso, l’indeterminazione intrinseca del reato, congiunta all’uso del carcere speciale, consente alla repressione di esercitarsi non tanto sui criminali quanto di terrorizzare il tessuto sociale nel quale la criminalità trova il nutrimento delle sue radici, alimenta un consenso che proviene dalla appartenenza alla stessa cultura.

La certezza. Ma supponiamo pure che i processi ai quali è stato sottoposto Battisti si siano celebrati nella rigorosa osservanza delle garanzie che la legge ordinaria assicura all’imputato; e che le prove offerte dall’accusa siano risultate di una evidenza lampante - il che è, appunto, contro fattuale o almeno del tutto improbabile che sia avvenuto. Anche così resta un argomento forte a favore di Battisti; nel senso che, malgrado i crimini commessi, conviene che sia restituito alla vita civile o almeno lasciato in pace, coi suoi turbamenti e rimorsi, nel paese che ha deciso di accoglierlo. Questo argomento proviene a perpendicolo dalla Carta Costituzionale, tanto spesso retoricamente invocata e troppe volte tradita. Nella nostra legge fondamentale l’espiazione della pena non è concepita come primitiva afflizione del reo volta a lenire l’irreparabile dolore ed il comprensibile rancore delle vittime, dei familiari e dei loro amici. Piuttosto, la funzione civile della privazione della libertà, e delle altre sanzioni accessorie, è quella di redimere il colpevole; in modo che la fine della pena coincida con la realizzazione del suo fine e l’espiazione si concluda con il recupero di un essere umano alla comunità degli uomini. Sicché ci sembra di poter concludere che, secondo la carta fondante della repubblica nella quale ci è capitato di vivere, Battisti ha terminato il suo periodo d’espiazione; infatti, negli ultimi trenta anni, vivendo ora in un paese ora in un altro, non ne ha mai violato le consuetudini e le leggi; inoltre, i suoi libri, con il loro discreto successo, attestano che il processo di reinserimento nella vita civile si è già positivamente concluso. Per altro, come già notato, le sentenze contro Battisti comportano addirittura più ergastoli; e solo il clima giustizialista, che avvelena il dibattito italiano sul tema, può spiegare l’oblio in cui è caduta la voce, ragionevole ed appassionata, di quei giuristi democratici che da tempo avanzano pesanti dubbi sulla coerenza di tale pena con lo spirito e la lettera dell’ordinamento costituzionale. Sicché, quello che la nostra migliore tradizione giuridica non riesce ad accettare, difficilmente potrebbe essere condiviso dalle autorità di un paese, come il Brasile, dove l’ergastolo è sconosciuto - per inciso, occorrerà pur dirlo, questa pena è considerata in molte parti del mondo un'eccezione disumana, anche se, proprio da noi, sembra essersi dileguato il senso della sua intrinseca ed inutile crudeltà. Insomma, per concludere su questo punto, la richiesta italiana di estradare un condannato all’ergastolo da un paese dove il “fine pena mai” è ritenuto una “tortura giuridicamente legittimata” risulta con ogni evidenza irricevibile. Eppure, in Italia, i mezzi di comunicazione pressoché unanimemente non solo ritengono che l’estradizione sia dovuta, ma giudicano un'offesa alla dignità nazionale il fatto che il Brasile non si sia ancora risolto a concederla.

Rispetto e pietà. Va da sé che la nostra analisi del caso Battisti non può ignorare la tragica sofferenza alla quale sono state consegnate - qualche volta, occorre pur dirlo, per caso, per fuoco amico - le vittime ed i loro parenti. Ma poiché il male inferto non è reversibile, l’unica possibilità di riscattarlo è trarre partito da esso, insomma imparare dagli errori, per quanto tragici possano essere. Questo vuol dire che il solo rispetto che dobbiamo alle vittime è di ricostruire la comune verità racchiusa negli anni di piombo, quel formidabile periodo quando v’è stata un'insorgenza di massa contro gli aspetti tirannici del potere, le sue menzogne e ipocrisie. Non v’è verità comune se viene negata o peggio rimossa la qualità di quella esperienza, la inebriante passione civile che ha portato centinaia di migliaia di giovani e meno giovani a prendere la parola in pubblico, a togliersi le umilianti maschere di suddito per divenire cittadini attivi, protagonisti del loro destino, artefici della loro realizzazione. Anche se questo ha comportato, come è accaduto altre volte nella storia, che si arrecasse e si ricevesse distruzione e morte. Dire la verità vuol dire prima di tutto respingere la riduzione blasfema dell’insorgenza di massa a pratica terroristica, del ribelle a deviante criminale. Solo a partire dal riconoscimento del fatto che in Italia, negli anni settanta c’è stata una piccola guerra civile; e, come in tutte le guerre civili, tanto le vittime che i carnefici stavano da una parte e dall’altra; solo a questa condizione, è possibile intravedere un percorso di verità, di crescita interiore del nostro paese che lo porti a liberarsi dal senso di colpa che lo opprime. Infatti, che in Italia il potere politico sia posseduto da una coazione a ripetere la pubblica menzogna risulta evidente dall’uso cinico del sentimento di pietà verso le vittime, quelle addebitabili agli insorti - sentimento che viene deformato e rappresentato impudicamente nella forma di rivendicazione teatralizzata; e, ad un tempo, dal silenzio, rotto solo per propalare calunnie, dentro il quale viene sigillato il dolore per le altre vittime, cadute sotto il fuoco dei tutori dell’ordine quando non per mano dei mercenari della reazione - questi ultimi intenti , in quegli anni, più o meno segretamente, all’eversione della repubblica, mentre oggi siedono meritatamente sugli scanni del parlamento repubblicano.

Caveat. Il caso Battisti, proprio perché non si può dire che il suo protagonista meriti il titolo d’eroe, è l’occasione, il tempo giusto per fare i conti pubblicamente col passato , strappando la verità al futuro. Ed è per questo che noi, consapevoli delle responsabilità che ci assumiamo, concludiamo ricordando - agli smemorati eredi del ceto politico degli anni settanta, alti funzionari della repressione, ex-mercenari - un antico dictum magnogreco che risuona come un appello ed un avvertimento insieme: “solo se rispetteranno l’onore e gli Dei dei vinti i vincitori saranno salvi”.

MarijuanaMan: in arrivo il primo super-eroe reggae


Cosa succederebbe se si provasse a fondere la cultura e la filosofia della musica reggae con le avventure di un supereroe? La risposta prova a darla una star della musica internazionale, nonché attivista sociale, del calibro di Ziggy Marley con il suo Marijuanaman.

Il personaggio ideato dal musicista giamaicano sarà un nobile campione venuto da un altro pianeta per portare all’umanità un importante messaggio e, allo stesso tempo, salvare il suo mondo. “Rappresenta la speranza nel futuro… la speranza che tutti noi faremo tutto il possibile per salvare il nostro pianeta”: così Marley sintetizza l’ispirazione di questo graphic novel fuori dagli schemi, che, a suo dire “non sarà il fumetto che vi aspettate!”.Ai testi e ai disegni ci saranno rispettivamente Joe Casey e Jim Mahfood, due autori che si conoscono da diversi anni e che ascoltano le canzoni di Marley da ancora più tempo. “Il progetto perfetto per noi, in quanto Ziggy ci ha dato un grande soggetto su cui scervellarci”, dichiara Casey ,“questo lavoro va oltre il concetto di fumetto…è un’esperienza”.

L'artista reggae è stato coinvolto in ogni singola parte dell’opera, dato il suo stretto legame col personaggio, ma allo stesso tempo disegnatore e sceneggiatore sono stati lasciati liberi di utilizzare il proprio stile e le proprie idee.

Questo graphic novel, unico nel suo genere, uscirà negli Stai Uniti ad aprile.

di Giovanni Fabris da Indymedia

venerdì 18 febbraio 2011

Caro Nichi non sono d'accordo


di Luca Casarini

L’uscita con cui Nichi Vendola ipotizza forma e conduzione di quella che viene definita “alleanza democratica” contro Berlusconi, mi trova in profondo disaccordo. Voglio comunicarne le ragioni per tentare di aprire un dibattito politico vero non solo con Nichi, ma anche con coloro che guardano queste cose in maniera diversa: quelli che stanno dentro i partiti della sinistra, o li votano, ma percepiscono tutti i limiti che essi incarnano e quelli che ne stanno fuori, convinti che il cambiamento passi solo attraverso un rifiuto della rappresentanza. Questi due modi di vedere il problema, quello critico e quello antagonistico, li considero fondamentali entrambi per ogni processo costituente che provi ad affrontare seriamente il nodo dell’alternativa in questo paese.
Beninteso, con tutta l’umiltà e la profonda amicizia per Nichi, che chi scrive segue con attenzione perché nel desolante panorama della sinistra italiana, di certo non c’è stato nient’altro, oltre ai movimenti che si autorappresentano, di così interessante come il percorso descritto dalle sue “fabbriche” e dall’idea di “nuova narrazione” sottintesa anche dalla grande richiesta delle primarie. Ma lo stare dentro l’eterno limbo di una transizione che non finisce mai, quella di uscita dal ventennio berlusconiano, evidentemente logora e affatica.E dunque bisogna aiutarci tra tutti, stimolarci a vicenda per non finire in cose già viste, e già sconfitte dalla storia. Veniamo alla questione delle dichiarazioni di Nichi: le considero sbagliate sia nella sostanza che nei “tempi”. Appare quasi superfluo dire che la “mossa del cavallo”, come viene definita, tutta giocata per mettere in difficoltà il quadro dirigente del Pd, è pura tattica. Uno dei mali della sinistra italiana, è questo continuo gioco di tattica, capace di trasformare in politicismo ogni cosa. La tattica, in politica, dovrebbe essere usata con parsimonia, e mai sostituirsi alle ragioni, alle speranze, agli ideali e alle convinzioni. Bisognerebbe, di questi tempi innanzitutto, vergognarsi un po’ di ricorrere a mosse tattiche, esserne onestamente e pubblicamente imbarazzati, perché tattica è un sinonimo ormai di assenza di proposte vere, di alternativa. Suggerire la Bindi come leader di uno schieramento innaturale come quello immaginario che mette insieme tutti, da Fini a Vendola appunto, può apparire “geniale” a chi vive la politica dai Palazzi, a chi la osserva solo tramite sondaggi, organigrammi, equilibri di potere. Per il “popolo” invece, è semplicemente disarmante. Quello stesso popolo che ci crede veramente al fatto che più che Berlusconi, come diceva Vendola, bisogna battere il Berlusconismo. Cioè quel tanto di Marchionne e della Gelmini che c’è dentro i programmi degli oppositori “democratici” di Berlusconi, quella dose di pericoloso giustizialismo che pure anima anche coloro che farebbero di tutto per buttare giù il Cavaliere, quell’idea di etica pubblica che scivola rapidamente verso il moralismo patriottico dei vizi occulti, che sacralizza istituzioni che invece andrebbero rese terrene e contradditorie, e per questo più vicine alla realtà degli uomini e delle donne che dovrebbero servirsene, non esserne prigionieri. E’ un fatto cuturale, prima che politico, e proprio per questo, culturalmente, nessuna tattica può giustificare l’idea che il problema risieda solo in un uomo, per quanto potente ed odioso esso sia. I tempi sbagliati, persino incomprensibili, dell’uscita di Nichi, aumentano la preoccupazione: ma è tattica oppure, peggio, convinzione? Certo, perché quella proposta, forse avrebbe messo in difficoltà il PD e coloro che non vogliono le primarie, se le elezioni fossero alle porte, se il Quirinale si preparasse a sostituire un Governo con un altro, se la Lega togliesse la spina, se, se…ma la vita nuova non si costruisce con i se. Abbiamo già la versione veltroniana, quella del “ma anche”, ci manca solo quella di continui “se…”. Tempistica controproducente dunque, anche rispetto alle migliori intenzioni, e sostanza preoccupante: siamo veramente convinti che, la Santa Alleanza, che si dice dovrebbe limitarsi a fare due o tre cose, sia una strada culturalmente prima che politicamente praticabile? Io penso il contrario. Per “sparigliare” le carte in tavola, servono idee nuove, sul reddito e sul lavoro, sulla crisi ambientale e su quella finanziaria, sul conflitto di genere. Nuove idee e nuove pratiche sulla democrazia e anche sulla rappresentanza, che sono materie in crisi terminale e vanno affrontate con cure shock: le primarie o sono questo o diventano sì una specie di americanata giocata in provincia, come in qualche caso può succedere. Ho imparato anche da Nichi che le proprie biografie vanno superate, se si vuole ambire ad un “comune” politico e sociale. Ma mi spingo a dire che bisogna farlo non solo con quelle personali, ma anche con quelle collettive: bisogna indicare l’oltrepassamento del partito, del sindacato, del movimento così come li abbiamo conosciuti e così come ci siamo rapportati ad essi finora. Anche per questo, l’ordine simbolico che le cose assumono, in questo caso dichiarazioni a mezzo stampa, non può riguardare semplicemente i sondaggi o il consenso: esso stipula con la nostra vita, un patto continuo, producendo l’orizzonte che ci è necessario vedere per potere rimetterci in cammino. Il nostro, di tutti, non può essere che quello di una grande marcia per la democrazia, che si gioca dentro e fuori, nei vecchi meccanismi della rappresentanza in crisi e nelle piazze piene di gente che vorrebbe essere nuova, e quindi ha bisogno di una innocenza che diventa originalità, di un sodalizio che diventi amicizia, di una franchezza che sia verità. Su questo, proprio perché mi interessa contribuire e penso che nulla sia facile, vorrei che si aprisse una discussione.
Luca Casarini

da GlobalProject

LE STRISCE - VIENI A VIVERE A NAPOLI



LE STRISCE - VIENI A VIVERE A NAPOLI

Vieni a vivere a Napoli,
vieni a vedere la città dei miracoli.
ti leggo in faccia tutto quello che già pensavi;
non crederai davvero ai telegiornali?

Vieni a vivere a Napoli,
potremmo farci rapinare nei vicoli,
ti porto a cena tra la diossina e il mare
non crederai all'opinione generale?

Vieni a vivere a Napoli
tra molti occhi nascosti
che avvolte sono i nostri
e nuovi centri commerciali,
strade piene di luce e pazzi normali

Sai che la notte non passa a Napoli?
sai che la gente non parla a Napoli?
e non si innamora nessuno, nessuno o quasi, lo giuro

sai che succede a fidarsi a Napoli?
sai che ho giurato di amarti a Napoli?
e non sopravvive nessuno, nessuno

Vieni a vivere a Napoli
dove i ragazzi sono ancora romantici
e se va male è sempre e solo colpa del destino
non crederai a quallo che si dice in giro?

Vieni a vivere a Napoli
vieni a scoprire che non ci sono limiti
dove il futuro è chiuso in una raccomandazione
non credere alle voci sulla tradizione
che ne sanno?!

Vieni a vivere a Napoli
tra molti occhi nascosti
che avvolte sono i nostri
strade piene di luce e pazzi normali

Sai che la notte non passa a Napoli?
sai che la gente non parla a Napoli?
e non si innamora nessuno, nessuno o quasi, lo giuro

sai che succede a fidarsi a Napoli?
sai che ho giurato di amarti a Napoli?
e non sopravvive nessuno, nessuno

E non importa quello che è stato,
dimentichiamo il passato
che tanto è inosservato,
come a una festa,
come in un viaggio.
Vieni a vedere la città perchè a restare ci vuole coraggio!

Sai che la notte non passa a Napoli?
sai che la gente non parla a Napoli?
e non si innamora nessuno, nessuno o quasi, lo giuro

sai che succede a fidarsi a Napoli?
sai che ho giurato di amarti a Napoli?
come a una festa, come in un viaggio
Vieni a vedere la città perchè a restare ci vuole coraggio

giovedì 17 febbraio 2011

Egitto - Centinaia i desaparecidos


di Michele Giorgio da GlobalProject
In Rivolta, sull'altra sponda

Gamal Eid, direttore della Rete araba sui diritti umani, denuncia: «In carcere ancora tra 400 e 500 egiziani, di loro non si sa più nulla. È stata la polizia militare ad arrestarli. I generali stilino una lista dei detenuti e rispettino i loro diritti».

«In carcere ci sono ancora tra 400 e 500 egiziani arrestati dalla polizia e dall'esercito durante i 18 giorni della rivoluzione contro Mubarak. Di loro si sa molto poco. Ma di altri 40-50 non sappiamo nulla, sono spariti, nessuno li ha più visti dai giorni delle manifestazioni. È molto grave, vogliamo risposte immediate dalle autorità militari».

Pronuncia frasi concitate Gamal Eid, direttore della Rete araba di informazione dei diritti umani. I desaparecidos, aggiunge, sono una questione nazionale. «La costruzione del nuovo Egitto - dice l'attivista al manifesto - passa per la trasformazione radicale della concezione di sicurezza del paese che in futuro dovrà essere fondata sul rispetto della persona umana e della libertà di pensiero e di espressione».Ma su questo non c'è alcuna garanzia, nonostante le rassicurazioni date dal Consiglio militare supremo che ha preso il controllo del paese dopo le dimissioni dell'ex raìs Hosni Mubarak. C'è il rischio che il mukhabarat, il servizio segreto che per decenni ha arrestato, interrogato e torturato per conto del presidente -faraone continui ad operare impunemente in un Egitto più democratico e pluralista.

Ma la denuncia di Gamal Eid chiama in causa anche l'esercito, molto popolare tra gli egiziani per la posizione che ha mantenuto durante i 18 giorni della rivolta. «Sappiamo che la polizia militare ha arrestato una parte dei cittadini ora dispersi», spiega Eid esortando i generali egiziani a far stilare subito una lista dei detenuti e a rispettare i loro diritti. Martedì il quotidiano al-Masry al-Youm, la «voce» della rivolta, aveva pubblicato un elenco di nomi di uomini e donne, in gran parte tra i 15 e i 48 anni, che sono svaniti nel nulla tra il 25 gennaio (primo giorno delle manifestazioni) e il 9 febbraio, due giorni prima delle dimissioni di Mubarak. Almeno 5mila persone sono finite in manette (e spesso pestate in carcere) durante la rivoluzione, di queste almeno 500 sono ancora in cella. La denuncia lanciata dal direttore della Rete araba di informazione dei diritti umani è stata raccolta da alcuni cyber-militanti protagonisti della rivolta che hanno detto di aver ricevuto da «alti gradi» delle Forze Armate l'assicurazione che «tutti i manifestanti svaniti nel nulla saranno ritrovati». Ma i dubbi restano. Qualche giorno fa il quotidiano britannico Guardian aveva riferito l'allarme partito da alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani sulla detenzione in gran segreto di centinaia, forse migliaia, di oppositori del regime da parte della polizia militare. Alcuni manifestanti, scrisse il quotidiano, vennero detenuti in segreto in alcune sale del Museo Egizio, che si trova a ridosso di piazza Tahrir, epicentro delle proteste al Cairo.

Per ora il Consiglio Supremo delle Forze Armate continua ad usare il guanto di velluto. Entro dieci giorni l'Egitto avrà una nuova costituzione, o meglio, la vecchia Carta verrà emendata, promettono i militari che hanno affidato la direzione della commissione competente ad un giudice in pensione, Tareq Beshry. A sorpresa hanno anche inserito nel gruppo un Fratello Musulmano, l'avvocato ed ex deputato Sobhi Salah. Che la confraternita, tuttora considerata fuorilegge, stia ricevendo la legittimazione che cerca da sempre è segnalato anche da un'intervista ad un noto portavocedel movimento, Essam El Arian, trasmessa dalla tv di stato, in una prima volta assoluta per l'Egitto. Ma non manca chi sfida i militari, come la «Coalizione dei giovani» anti-Mubarak. Se il Consiglio Supremo delle Forze Armate - ha avvertito la Coalizione - non comunicherà al più presto un calendario delle tappe del suo lavoro, non sarà cambiato il governo e non sarà abolita la legge d'emergenza in vigore dal 1981, domani, giornata della «Marcia della Vittoria», verranno riorganizzati raduni permanenti in piazza Tahrir.

Rimangono nel frattempo un mistero le condizioni di salute di Mubarak da venerdì scorso nella sua residenza a Sharm el Sheikh. L'ex raìs secondo alcuni sarebbe gravissimo, sul punto di morire. Altri invece, come il quotidiano Shurouq, lo danno in buona salute ma depresso. Il raìs si sarebbe rifiutato di rispondere ad telefonata giunta da Barack Obama, per sottolineare il suo forte disappunto per la posizione dell'Amministrazione Usa nei confronti delle proteste popolari in Egitto.

Gli uomini ombra di Carmelo Musumeci: fine pena mai e altri racconti

Presso la Biblioteca comunale la presentazione organizzata da Zone del Silenzio e la Libreria Tra Le Righe. Ospiti Giovanni Russo Spena e l'avvocato Ezio Menzione. L'ergastolo ostativo come "pena di morte viva", la detenzione come problema politico. Se la pena non finisce mai, a chi è utile la pena?

La domanda che aleggia nell'aria appare semplice, di facile soluzione: "Se la pena ha come fine il reinserimento sociale del detenuto dopo un periodo detentivo finalizzato alla sua riabilitazione, come può essere definito l'ergastolo ostativo, per il quale il detenuto non rivedrà mai la luce del sole?"
Nella serata di giovedì 10 febbraio presso la biblioteca comunale di Pisa è stata ospitata la presentazione del libro di Carmelo Musumeci dal titolo "Gli uomini ombra e altri racconti". Al tavolo degli interventi, coordinati da Adriano Ascoli di Zone del Silenzio, Giovanni Russo Spena ex parlamentare di Prc, e l'avvocato Ezio Menzione. E' proprio quest'ultimo a formulare la domanda posta in apertura.
Ma prima di tentare una risposta, un passo indietro. Chi è Carmelo Musumeci? E' un detenuto siciliano di 54 anni che assieme ad altri 1.400 condannati all'ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio (regolati dall'art. 4 bis della legge n. 354/75 norme dell'Ordinamento Penitenziario ndr), è costretto a vivere da più di vent'anni e ancora per tutta la sua esistenza dentro le patrie galere del nostro Paese, ristretto in circa 12 metri di cella. Il suo libro "Gli uomini ombra" (Il Segno dei Gabrielli editori, settembre 2010) è diventato un piccolo caso letterario, non solo per le condizioni di vita del suo autore. Sono racconti "social noir" (la definizione è dello stesso Musumeci) che parlano della vita dietro le sbarre, della morte spesso prima spirituale che fisica, della percezione della fine come unica condizione possibile. Un documento che riesce a essere autentico pur nella finzione narrativa.
"Dal 1992, anno dell'inserimento dell'ergastolo ostativo, al 2010 - ricorda l'avvocato Menzione - c'è stato un aumento esponenziale dei condannati definitivi. Da 242 a 1.491, cioè il 5,29% della popolazione carceraria. Non è necessario scomodare Beccaria per capire come la deterrenza di una simile introduzione sia pressoché nulla".
"Certo, l'ergastolo - spiega Menzione - è un tema spinoso tanto dal punto di vista giuridico quanto per la coscienza di ognuno. Ma al di là delle interpretazioni, il problema è prima di tutto politico. E' necessario cominciare a rivedere le pratiche relative allo svolgimento della pena, soprattutto nel caso di ergastolo perché lo Stato non cada in pericolose contraddizioni, come troppo spesso accade".
"Un modello punitivo come l'ergastolo ostativo - afferma Menzione - non può essere una risposta ai problemi detentivi del Paese, e questo lo denunciano i numeri che ho citato. D'altra parte, l'aspetto umanitario deve continuare ad avere una rilevanza politica: detenzioni come quelle raccontate da Musumeci sono assimilabili, per taluni aspetti, alla pena di morte, una pena di morte 'viva' ".
"Quello italiano è un caso di bulimia carceraria", così spiega a sua volta Russo Spena. "La pena detentiva - ribadisce - quando diventa spersonalizzante, come nel caso dell'ergastolo ostativo, smarrisce ogni ragion d'essere, a meno che non si ammetta che essa è una forma di tortura legalizzata".
Il racconto della vita di un ergastolano, secondo Russo Spena, mette in luce le profonde contraddizioni insite nell'idea stessa di "carcere assoluto": "Il mancato reinserimento sociale, l'interruzione di un dialogo produttivo con il mondo fuori dal carcere, l'impossibilità di assolvere bisogni che vadano oltre la soglia minima delle mere esigenze fisiche".
"Si deve risalire dal baratro dell'ergastolo ostativo come soluzione - propone Russo Spena. "Al contrario, lo stato deve imboccare la via della depenalizzazione, rinunciare all'idea del 'grande internamento', a quel modello carcerario mutuato dal mondo statunitense. Bisogna superare la mentalità del carcere come prima e ultima forma di detenzione. La cosa più brutta per un ergastolano è l'avvicendarsi dei giorni, e questo è umanamente inaccettabile".
Perché la risposta alla domanda in apertura sta proprio in questa contraddizione. E, alla fine, a una domanda è forse lecito rispondere con un'altra domanda: "Se la pena non finisce mai, a chi è utile la pena?"
Carmelo Musumeci nasce il 27 luglio 1955 ad Aci Sant'Antonio in provincia di Catania. Condannato all'ergastolo senza benefici, si trova nel carcere di Spoleto. Entrato con licenza elementare, mentre è all'Asinara in regime di 41 bis riprende gli studi e da autodidatta termina le scuole superiori. Nel 2005 si laurea in giurisprudenza con una tesi in Sociologia del diritto dal titolo "Vivere l'ergastolo". Attualmente è iscritto all'Università di Perugia al Corso di Laurea specialistica, ha terminato gli esami e attualmente sta preparando la Tesi con il Prof. Carlo Fiorio, docente di Diritto Processuale Penale. Nel 2007 conosce don Oreste Benzi e da tre anni condivide il progetto "Oltre le sbarre", programma della Comunità Papa Giovanni XXIII. Autore di molti racconti e del romanzo "Zanna Blu" di prossima pubblicazione presso Gabrielli editori, è promotore della CAMPAGNA "MAI DIRE MAI" per l'abolizione della pena senza fine. Collabora con diverse testate e blog su internet come: urladalsilenzio.wordpress.com; www.linkontro.info (collegata all'associazione Antigone), tiene un diario su www.informacarcere.it


martedì 15 febbraio 2011

Il calcio rivoltato


di Mauro Valeri
Il mondo dello sport del Nord Africa si schiera con le rivolte popolari, bloccando campionati e richidendo giustizia e libertà per i propri paesi. In piazza scendono anche gli ultràs organizzati.

Sono diversi i mass media che hanno evidenziato come alle proteste che stanno interessando diversi paesi del nord Africa abbiano partecipato o partecipino anche calciatori, allenatori e tifosi. In Tunisia, ad esempio, già nei primi gironi della protesta contro Ben Alì, c’era stata una decisa presa di posizioni da parte dei calciatori. Tra i primi a protestare sono stati i giocatori dell’Esperance Sportive de Tunis, la squadra più importante del paese.
Di fronte alla demenziale sproporzione tra la povertà di milioni di persone e lo stipendio di 70mila dollari al mese garantito dal presidente della squadra, Hamdi Meddeb, al nuovo allenatore, Nabil Maaloul, i calciatori hanno deciso una curiosa quanto efficace forma di sabotaggio: nella partita che li opponeva all’Etoile du Sahel, si sono fatti segnare ben cinque reti senza opporre alcuna resistenza.Poi hanno deciso di fermare il campionato, anche per permettere a molti tifosi (e a molti degli stessi calciatori) di partecipare alle proteste di piazza. Solidale con il popolo e i manifestanti anche l’allenatore, Rabah Saadane (già ct della Nazionale algerina), che ha rinunciato a sedere sulla panchina dello Yemen con questo commento: “Ringrazio per l’offerta generosa, ma in questo momento è un insulto guadagnare altro denaro mentre la mia gente muore di fame per le strade”.
Una interessante versione magrebina del salary cap! Altrettanto curioso l’autoesonero del ct della Nazionale tunisina, Fouzi Benzarti all’indomani della caduta di Ben Alì. Dopo aver confessato che aveva accettato di fare l’allenatore solo perché obbligato dal dittatore, Benzarti ha lasciato l’incarico dichiarando: “Ora che non c’è più, mi sento libero come il mio popolo”. Libero anche di non essere più utilizzato per alimentare quel panem e circenses (sempre più “circo” e sempre meno pane, verrebbe da dire), a cui molti dittatori vorrebbero relegare il calcio. All’appello della piazza non sono mancati i tifosi, specie quelli delle due squadre di Tunisi, l’Esperance e il Club African, in genere molto propense a scontrarsi, che invece nei giorni della protesta hanno trovato parole d’ordine comuni: oltre a pane e lavoro, hanno manifestato per la “’libertà per gli ultrà incarcerati, l’abolizione del locale daspo e del divieto di introdurre (e usare) fumogeni negli stadi” (Il Manifesto, 26 gennaio 2011).
Al Cairo, invece, tra i milioni di manifestanti, sono state notate moltissime magliette rosse dell’Al-Ahly, la squadra della capitale, che è anche la più blasonata del paese e dell’intero continente. A mettersi in evidenza sono stati soprattutto gli Ultrà Ahlawy, il primo gruppo ultrà organizzato dell’Egitto (è stato fondato nel 2007), che ha aderito ufficialmente alla protesta di piazza. Alessandra Cardinale, su Il Fatto Quotidiano del 9 febbraio, riporta le parole di Assad, ventenne, presentato come “capo ultrà del Al-Ahly”: “Gli ultras sono tra le persone che protestano nelle strade e spesso siamo proprio noi a guidare i nostri fratelli e le nostre sorelle (…). Chi meglio di noi conosce i metodi della polizia? (…) Il governo ha avuto sempre paura di noi perché è difficile inquadrarci ideologicamente, per questo diamo fastidio”. Accanto ai tifosi, in piazza al Cairo, come ha ricordato Stefano Boldrini su La Gazzetta dello Spot dell’8 febbraio, è sceso anche Wael Gomaa, simbolo dell’Al-Ahly e della Nazionale (e per molti considerato l’attuale miglior difensore di tutta l’Africa): “Io sono al fianco del mio popolo. In Egitto ci sono troppe ingiustizie sociali, troppa disparità tra ricchi e poveri. Bisogna intervenire e pensare anche al futuro. I nostri giovani non hanno speranze nell’Egitto attuale: dobbiamo aiutarli… Mubarak ha fatto il suo tempo: l’Egitto non può più aspettare”. ”
Difficile immaginare simili situazioni in Italia, soprattutto vedere una partecipazione di giocatori e allenatori ai problemi del paese (è di fatto immaginabile un Del Piero che, nella trattativa per il suo nuovo ingaggio – quello scaduto era di 7.5 milioni di euro netti in due anni, cioè 312.500 euro al mese – faccia un gesto di solidarietà verso gli operai Fiat o i precari di Torino!). Che il futuro sia nelle mani degli ultras?

Tratto dal blog www.sportallarovescia.wordpress.com
da GlobalProject.info