HOME       BLOG    VIDEO    EVENTI    GLI INVISIBILI    MUSICA    LIBRI    POLITICA LOCALE    POST PIU' COMMENTATI

giovedì 24 febbraio 2011

Rosso sangue, il futuro della Libia


Uno stato in frantumi e le infiltrazioni del fondamentalismo islamico sono il vero incubo dell'Occidente ancora incapace di fermare il massacro in corso

La guerra civile in atto con il caos che ne consegue lascia poco spazio a previsioni su futuri scenari politici. Il primo obiettivo, adesso, è fermare il massacro della spietata repressione libica ordinata da Muammar Gheddafi, il cui folle discorso non ha fatto che aggravare la situazione. Il leone ferito è uscito allo scoperto e la rabbia cieca del dittatore rischia, con tutta probabilità, di cancellare, polverizzare la nazione libica fondata su delicati equilibri di natura tribale-clanistica.

Il grande incubo europeo, ancor prima che lo sbarco di centinaia di migliaia di disperati sulle sponde del Vecchio Continente, è la "balcanizzazione" della Libia con la conseguente costituzione di un emirato islamico in Cirenaica, ai confini con l'Egitto. Lo stesso Muammar Gheddafi, ieri, ha fatto leva sulla questione del fondamentalismo islamico, non si sa se per terrorizzare di più l'Occidente o la popolazione libica cui è stata paventata un'occupazione degli Stati Uniti sul modello afgano e iracheno.

È solo retorica strategica o si tratta di un pericolo reale? Khaled Fouad Allam, docente di Islamistica e Sociologia del mondo musulmano - interpellato da PeaceReporter - ritiene che la minaccia sia concreta, sebbene vi sia anche una strumentalizzazione di fondo da parte di Ue, Italia e dello stesso Gheddafi. Secondo il professore Allam, gruppi di integralisti - anche della cintura sub sahariana - non aspetterebbero altro: approfitterebbero subito per infilarsi tra le macerie di una Libia in frantumi e costituire uno stato regolato dalla Sharia, la legge coranica.
Il panorama libico è completamente diverso da quello tunisino o egiziano dove esiste una discreta articolazione politica, una rete di associazioni per i diritti umani e soprattutto un esercito (addestrato dagli Stati Uniti) capace di guidare una fase di transizione. In Libia, non è individuabile un personaggio di caratura internazionale che possa prendere in mano un processo di rifondazione e l'esercito - come spiega Allam - è costruito su base etnica, su linee tribali. È molto probabile che assisteremo dunque a profonde spaccature anche all'interno della compagine militare con due o più eserciti che si faranno la guerra.

L'Unione Europea ha molte responsabilità per non essere stata in grado di prevedere gli eventi di queste settimane. La totale assenza di una politica europea è, per Fouad Allam, il sancito fallimento della Dichiarazione di Barcellona (27-28 novembre 1995) e di diciassette anni di una falsa cooperazione. Bruxelles dovrebbe fare i conti con questo fallimento e avviare una "Conferenza Euroaraba" se davvero tiene alla pacificazione di quella parte di mondo.

Il futuro prossimo del popolo libico è rosso. Rosso sangue: "Questa rivolta è cominciata con il sangue - ci dice il professore Allam - e molto sangue scorrerà ancora. Dopo la rivoluzione arriva sempre il terrore".

di Nicola Sessa da PeaceReporter

Libia: 1.500 corpi ripescati dal mare in 10 anni

da FortressEurope
L'Espresso la settimana scorsa ha dedicato un servizio della corrispondente da Tripoli, Francesca Spinola, a una spinosissima questione: quanti sono i naufragi fantasma avvenuti negli ultimi dieci anni sotto costa libica sulla rotta per Lampedusa, senza che nessuno ne abbia mai saputo niente? Quanti sono i giovani morti davanti alle coste libiche? E che fine hanno fatto i corpi ributtati a riva dal mare? Le notizie fanno rabbrividire. Secondo fonti attendibili citate da Francesca, dal 2005 i morti davanti alle coste libiche sarebbero almeno 1.500. Di cui 500 seppelliti nel vecchio cimitero cattolico di Hammanji e altri 800 ancora conservati negli obitori degli ospedali di Tripoli. Di seguito tutti i dettagli della notizia.


Libia, mattanza in spiaggia
tratto da l'Espresso
di Francesca Spinola
TRIPOLI - 21 febbraio 2011- Con l'assalto di massa a Lampedusa il Mar Mediterraneo è tornato a inghiottire corpi. I più fortunati, circa 4 mila in 4 giorni, ce l'hanno fatta. Altri hanno seguito lo stesso destino di quelle migliaia di uomini e donne che nel corso degli anni, tentando di conquistare via mare l'Europa, sono annegati. Gli ultimi sono morti lo scorso 12 febbraio, quando un barcone carico di migranti è affondato nelle acque antistanti Girgis, in Tunisia, dove un giovane è annegato e uno è disperso e il 13 febbraio quando, dopo uno speronamento di una motovedetta tunisina, un barcone è affondato facendo 29 morti. Sono anche loro "vittime della frontiera" e si aggiungono a quelle che negli anni hanno trasformato il Mediterraneo in un grande cimitero a cielo aperto.

I naufragi peggiori si sono registrati nel Canale di Sicilia, in particolare nelle acque territoriali libiche. Si pensava che fosse il mare a custodire la maggior parte dei cadaveri. E invece, grazie al contributo di numerosi testimoni, emerge un'altra verità che il governo del colonnello Muhammar Gheddafi ha cercato di occultare. A causa del flusso delle correnti, molti corpi vengono rigettati sulle spiagge libiche: negli ultimi dieci anni ne sono stati recuperati circa 1.500 di cui almeno 500 seppelliti in un cimitero non islamico di Tripoli conosciuto con il nome storico di "Hammangi" e circa 800 sono ancora in attesa di riconoscimento negli obitori della città.

Una vicenda tenuta segreta da un regime che si rifiuta di riconoscere la presenza di rifugiati nel Paese e sostiene che esistono solo immigrati clandestini, dunque irregolari. È appena stata varata una legge per punire il traffico di migranti ma che non fornisce loro nessuna protezione.
Ad Hammangi, fra l'area italiana e quella anglosassone, in una striscia di terra di nessuno gestita dalla "shabia" (la circoscrizione), il governo libico, porta alcuni degli africani che ritrova morti nel deserto ("In totale circa 1.500 l'anno", dicono dall'Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni) e i corpi dei clandestini africani rigettati dai flutti sulle spiagge.


Si tratta per lo più di cadaveri ritrovati nell'area di Tripoli, nelle zone di Janzur, Gargaresch, Suk Juma, Abuslim, Taruna, a giudicare da quanto si legge sulle piccole lapidi sopra alle tombe in cemento. "Quando vengono a seppellirli, c'è sempre un funzionario della Procura che con carte alla mano, certificato di morte e di sepoltura, presenzia alla cerimonia", spiega un impiegato della circoscrizione. "Tutto è registrato, il luogo e la data del ritrovamento, il motivo presunto della morte, il tempo trascorso in obitorio e infine la data dell'interramento", conferma Bruno Dalmasso, italiano da sempre in Libia, che si è occupato della riqualificazione della sezione italiana di Hammangi.

Anche un giovane poliziotto dell'Ufficio relazioni esterne che preferisce l'anonimato conferma la procedura e sottolinea che "tutto avviene a spese del governo libico. I corpi sono seppelliti ad Hammangi perché si presume che queste persone siano di altre religioni: la cattolica, l'ortodossa, l'anglicana. I non islamici non possono essere seppelliti con i musulmani, così a volte per capire l'appartenenza religiosa si guarda alla circoncisione".

"Sono tutti senza documenti", spiega sbrigativo un altro funzionario governativo che nel passato era distaccato alla sicurezza dell'obitorio del Tripoli Medical Center. "Portano con sé solo qualche foto tessera nel caso trovino come regolarizzarsi. L'Obitorio è così pieno di cadaveri che non c'è posto per i nostri morti. Per legge li dobbiamo tenere circa tre anni in frigo così da rendere possibili eventuali riconoscimenti". Lo spettacolo che descrive è raccapricciante: "I corpi rigettati dal mare sono mangiati dai pesci. Ne ho visti alcuni senza piedi, altri senza faccia, uno aveva metà del corpo, un altro gli arti inferiori ripuliti dalla carne".

Nel 2007, suor Sheryl, una religiosa della Chiesa di San Francesco a Dahara, entrò nell'Obitorio del Tripoli Medical Center per accompagnare una clandestina in cerca del marito. Ricorda adesso: "Non sono riuscita a dormire per una settimana. I corpi erano ovunque e il mare li aveva gonfiati e trasfigurati. Erano lì da almeno due anni".

Il fotovoltaico su terre agricole? - Nasce nel novese il comitato per la Frascheta

Il Comitato per la Frascheta nasce dall’esigenza di un gruppo di cittadini di porre un freno alla speculazione economica che rischia di cambiare irreversibilmente – ed in peggio – il volto della nostra zona.
La zona meridionale della Frascheta, nelle immediate vicinanze di Novi Ligure, è un contesto che, nonostante i dissennati tentativi dell’uomo di utilizzarlo a proprio esclusivo tornaconto per svilupparvi i business dei rifiuti, delle cave e delle grandi industrie, ha resistito nel tempo conservando le peculiarità della tipica campagna novese. Fino ad ora, grazie al vincolo paesaggistico e all’opera di controllo e tutela della Regione Piemonte e della Sovrintentenza ai Beni Culturali e del Paesaggio, la zona è riuscita a rispettare le sue caratteristiche originarie, mantenendo i valori della tradizione. È un patrimonio fruibile a tutti, nelle immediate vicinanze di Novi, e come dimostrano i numerosi frequentatori, una delle mete preferite per le passeggiate.Ci troviamo a dover difendere il patrimonio ambientale locale, eredità di secoli di saggia agricoltura, dalla speculazione definitiva di chi intende costruire non palazzi o capannoni, ma distese di pannelli fotovoltaici, sottraendo grandi porzioni di terreno fertile per votarlo, in maniera pressochè permanente, all’industria energetica. Ciò è possibile, secondo i promotori di tali progetti, nonostante esista un vincolo paesaggistico che per trent’anni ha impedito insediamenti industriali in quella che era una zona ad unica vocazione agricola ed un decreto ministeriale (D.M. 10/9/2010) che biasima chiaramente l’attuazione di impianti estensivi ed impattanti.
A scanso di equivoci, affinchè non ci venga affibbiata l’etichetta dei soliti bastian contrari, nimby, antiprogressisti è necessario chiarire che non siamo contro la produzione di energia da fonti rinnovabili quali il fotovoltaico o l’eolico, ma riteniamo necessario che vengano posti specifici vincoli legislativi alla proliferazione di tali impianti. E’ sbagliato permettere che si ricoprano di pannelli suoli vergini quando si potrebbe prima utilizzare la grande eccedenza di capannoni, parcheggi, discariche, zone industriali dismesse che si trova sul nostro territorio. E’ inaccettabile che questa politica energetica miope sia attuata perchè semplicemente più remunerativa della corretta prassi, indicata da noi come dal legislatore a livello nazionale.
Bisogna purtroppo prendere atto del fatto che le amministrazioni locali, a prescindere dall’orientamento politico, sono ancora nella nostra esperienza colpevolmente sorde ad osservazioni oggettive e documentate. Non colgono la necessità di politiche pubbliche lungimiranti in ambito energetico e ambientale, non guardano al pericolo che rappresenta la rincorsa ad effimeri incentivi economici di breve periodo rispetto alla tutela di un patrimonio unico ed insostituibile. Ci indigniamo di fronte al dubbio – inconfessabile ma purtroppo non reprimibile – che questo comportamento sia frutto di un ritorno economico di qualche tipo, anche se a fronte di una situazione di nota difficoltà finanziaria degli enti locali che di certo le bellezze ambientali e paesaggistiche italiane non hanno contribuito a generare ma al contrario hanno sempre contribuito a sanare.
Come dato di fatto abbiamo la presenza sul territorio di due impianti di una certa dimensione alle porte di Novi e altri tre ancora più grandi in fase di autorizzazione, nel raggio di un paio di chilometri. E non è che l’inizio: sul territorio provinciale si contano a decine le domande presentate per un totale di centinaia di ettari di territorio sottratto alla produzione agricola. La corrente situazione di “far west” continuerà fintanto che nelle opportune sedi istituzionali non saranno presi gli adeguati provvedimenti di pianificazione legislativa territoriale.
A voi lettori chiediamo di unirvi a noi in questa battaglia a difesa dei beni comuni. Ci rallegriamo di essere in buona compagnia, ultimamente, a chiedere che si usi lungimiranza e buonsenso, specie da parte degli enti locali, sulle autorizzazioni a costruire questo tipo di impianti. Le fonti energetiche rinnovabili rappresentano una speranza per un futuro sviluppo economico, industriale e sociale sostenibile, lontano dai combustibili fossili, in armonia con l’ambiente e chi lo vive, a garanzia della salute propria e dei propri figli. E proprio perchè non vogliamo che questa rimanga pura retorica, dobbiamo vigilare che questa rivoluzione verde, potenzialmente utilissima per il paese contribuisca fedelmente ed efficacemente al fabbisogno ed alle esigenze della collettività, con un adeguato ritorno per gli investitori, ma senza – come troppo spesso avvenuto in passato – speculazioni di breve periodo ad appannaggio di pochi, spregiudicati, imprenditori.
Per una Frascheta libera, verde e pulita, fermiamo il consumo di territorio.

Comitato per la Frascheta

da GlobalProject

Dietro le quinte della crisi: bassi salari e finanziamenti pubblici


Viaggio nelle delocalizzazioni: da Fiat a Geox, passando per Bialetti e Golden lady, le imprese in fuga dall’Italia alla ricerca dei salari più bassi e dei finanziamenti statali. La colonizzazione dell’est europeo e il caso Geox, ovvero, produzione all’estero, bassi salari e il falso mito del made in Italy.

www.rebusmagazine.org
La natura delle delocalizzazioni produttive e la loro articolazione recente in Italia (vedi “la fabbrica cambia sede: la frontiera è ad oriente”), si innestano pienamente nei processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale che hanno caratterizzato la recente, ed ancora in corso, crisi internazionale. In tempi di crisi infatti, più che in tempi di crescita, le imprese tendono ad acquisire dei vantaggi in termini di produttività e di costi e la delocalizzazione produttiva risponde proprio a questa esigenza attraverso il trasferimento degli stabilimenti nei paesi in cui il costo della manodopera è più basso e maggiori sono gli incentivi alla produzione sotto forma di finanziamenti ed agevolazioni fiscali.Tuttavia, nel guardare alla delocalizzazione va innanzitutto tenuto conto che si tratta di un fenomeno strettamente connesso al tendenziale processo di internazionalizzazione del capitale e di concentrazione industriale. Da un lato, infatti, è necessaria un dimensione minima per poter effettuare il trasferimento degli impianti, cosa che limita il fenomeno per lo più alle grandi imprese (benchè esso si stia diffondendo anche tra quelle di media grandezza), dall’altro la delocalizzazione è funzionale alla ristrutturazione industriale e può accompagnarsi ad accordi di partnership o fusione.
Nelle fasi di crisi entrambi i processi subiscono di norma una accelerazione. Il perché è evidente: le imprese incapaci di reagire, per struttura produttiva, alla riduzione della domanda vengono espulse dal sistema e le imprese rimaste sfruttano il momento per consolidarsi attraverso fusioni ed acquisizioni tentando di acquisire ulteriori quote di mercato. Il patto Fiat-Chrysler ne è un tipico esempio.

È a tutti noto che le imprese europee subiscono con crescente difficoltà la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, Cina ed India in primo luogo, che si è progressivamente aggiunta a quella esercitata dal capitale nordamericano. A fronte di questa pressione le imprese europee hanno reagito già in passato delocalizzando al di fuori dei confini europei e, più organicamente, sfruttando i processi di allargamento dell’Europa. Anzi, si potrebbe più correttamente dire che l’allargamento dell’Unione risponde in maniera diretta alle esigenze dell’industria europea in termini di competizione e si accompagna ad una serie di incentivi alla concentrazione oltre che a politiche monetarie comunitarie ritagliate su misura. L’apertura dei mercati e la privatizzazione di settori strategici adottate unanimemente da tutti i paesi membri hanno agevolato la concentrazione del capitale nel centro economico dell’Europa. Inoltre, l’allargamento ha garantito alle grandi imprese la possibilità di accedere a mercati dei fattori meno costosi, attraverso la delocalizzazione produttiva, e di ottenere nuovi mercati di sbocco per i prodotti finali.

L’ingresso nell’Unione degli stati dell’est è stato generalmente presentato come una straordinaria opportunità: agli evidenti benefici per i capitali tedeschi, francesi o italiani si sarebbero accompagnate maggiori opportunità di attrazione dei capitali esteri da parte dei nuovi entranti e dunque nuove opportunità di sviluppo. In realtà, il processo di allargamento , combinato ai processi delocalizzativi, ha generato un progressivo appiattimento verso il basso dei livelli salariali per via dell’accresciuta competizione sul mercato del lavoro ed un peggioramento complessivo della solidità economica dei paesi periferici.

Tralasciando gli evidenti vantaggi a favore dell’impresa, che si sostanziano non tanto nella riduzione del costo del lavoro quanto, piuttosto, nell’accesso a finanziamenti e prestiti pubblici ed agevolazioni fiscali, la delocalizzazione, se interpretata alla luce delle politiche comunitarie, non si traduce certo in un operazione vantaggiosa nei confronti del paese ricevente. Senza dubbio, Il Paese che ‘perde’ l’impianto subisce un incremento della disoccupazione e realisticamente una riduzione in termini di reddito complessivo anche per via della perdita del cosiddetto ‘indotto’, cioè dell’insieme di attività economiche presenti nel territorio connesse alla presenza dell’impianto principale. Per il paese che ottiene l’impianto, la delocalizzazione si traduce in un investimento che è rappresentabile, contabilmente, come un flusso di risorse in entrata. Tuttavia, tali risorse restano in gran parte a disposizione dell’impresa essenzialmente sotto forma di profitti e di capitale fisico anche per via il regime di tassazione agevolato. Dunque, per il paese ricevente, l’effetto più evidente è la maggiore domanda di beni generata dall’aumento dell’occupazione che si traduce, soprattutto, in un incremento delle importazioni. Ciò dipende dal fatto che le politiche di moderazione salariale, adottate dai paesi centrali ed in particolare dalla Germania, garantiscono la maggiore competitività delle imprese provenienti dal centro. Il risultato dunque, in termini di conti con l’estero finisce per essere sostanzialmente nullo. Al peggioramento dei conti con l’estero i paesi riceventi possono ormai reagire quasi esclusivamente attraverso una compressione della spesa pubblica ed una riduzione dei salari, così incrementando ulteriormente la competizione nel mercato del lavoro europeo, favorita dalla tendenziale compressione del ruolo dei sindacati.La crisi mondiale ha acuito in parte questi processi. All’ulteriore e plausibile allargamento in favore della Turchia, l’Unione accompagna una stretta su spesa pubblica e salari e, d’altra parte, la ristrutturazione del capitale a livello europeo e mondiale subisce un’accelerazione.

Se i casi Omsa e Bialetti rispondono alle classiche logiche di disinvestimento tipiche dei processi delocalizzativi, il caso Fiat risulta emblematico: Marchionne ha impresso una svolta nelle strategie di localizzazione la cui dinamica appare ora in tutta la sua chiarezza. Da una parte l’accordo con Chrysler ha permesso al Lingotto di ottenere finanziamenti da parte del governo statunitense per penetrare il mercato americano, acquisire (o farsi acquisire da) l’impresa statunitense e mantenere gli impianti sulla base di condizioni non dissimili a quelle approvate a Pomigliano e Mirafiori. Dall’altro, in seguito all’indebolimento del ruolo delle autorità di politica economica ed alla competizione tra Stati per l’acquisizione del capitale estero, la Fiat e con essa le altre grandi imprese possono avviare una fase di contrattazione perenne fondata sul continuo ricatto occupazionale. Da Tichy e Mirafiori a Pomigliano, i lavoratori saranno esposti dalla competizione reciproca al rischio probabile di una ulteriore spirale deflazionistica in termini salariali. L’immagine romantica dell’impresa ‘costretta’ al trasferimento e al licenziamento di massa, per continuare a produrre, non è adeguata a raffigurare una FIAT in cui il peso delle attività finanziare è ormai strategicamente preponderante rispetto alla produzione di veicoli e in cui i lavoratori assumono ormai la funzione di ostaggi a tempo indeterminato.

www.rebusmagazine.org

Related Link: http://www.rebusmagazine.org
da Indymedia